Eccola lì, la nostra scatola nera.
Il nostro indispensabile organo detentore della sensibilitàpostmoderna.
Ode all’inseparabile Smartphone, unico idolo indiscusso della nostra epoca, e forse il solo simulacro che siamo in grado di accettare.
Come una sorta di vaso di Pandora tascabile, il cellulare viene comunemente indicato l’effettivo “colpevole” dei mali odierni, il “capro espiatorio” reo di aver mandato a rotoli la nostra società.
Una considerazione pare dunque necessaria, e sottolineo il termine “colpevole” che ho utilizzato, poiché ciò su cui vorrei riflettere èdibattito aperto e le osservazioni che propongo non vogliono certo essere verità lapidarie, ma solo punti di vista.
Possibile che la causa all’alienazione contemporanea si trovi “semplicemente” racchiusa in tale piccolo oggetto?
Se è tutto qui, perché allora non eliminare dal mercato gli smartphone e reintrodurre gli arcaici Cityman e il Motorola Micro Tac., per non parlare degli iconici Nokia 3310 e 3330?
Forse dietro il demonizzato “telefono intelligente” si cela una situazione più complessa e decisamente meno facile da districare?
Tanto più che, solo un paio d’anni fa, si pensava di utilizzare proprio gli stessi smartphone come strumenti didattici –dibattito per ora ancora aperto-.
Se sono davvero oggetti così pericolosi, come si è potuto anche solo lontanamente pensare di farli entrare all’interno dell’istituzione scolastica?
A tal proposito risulta esplicativa la posizione del Professor Raciti, ben illustrata in un’intervista pubblicata su Orizzonte Scuola (“Sìsmartphone in classe, per fare didattica”. “Smartphone sì o no?”Domanda corretta è: “Smartphone come”. INTERVISTA al Professor Raciti. Articolo a cura di Vincenzo Brancatisano, pubblicato nel mese di ottobre 2022).
Il docente sostiene che “la società abbia commesso un grave errore a consegnare nelle mani di bambini e ragazzini una tecnologia cosìdelicata e pericolosa che pure ci apre degli importanti scenari sociali e culturali. […]” d’altro canto Raciti osserva come lo sbaglio ormai sia stato commesso, ora occorre decidere come agire. Secondo l’opinione del Professore gli adulti – ed in particolare i docenti- non possono permettersi di osservare indifferenti il dilagare delle nuove dipendenze, il diffondersi del fenomeno del cyberbullismo e di tutte le altre devastanti conseguenze derivanti dall’utilizzo improprio di tali ambienti virtuali, su cui i ragazzi non hanno alcun controllo e con cui non sanno relazionarsi.
Ciò che Raciti sostiene è che la scuola deve “cogliere le sfide attuali e prendere per mano i ragazzi, in questo caso guidandoli verso un uso critico, responsabile e consapevole delle tecnologie” poiché è proprio l’istruzione scolastica il mezzo essenziale e centrale per lo sviluppo delle competenze di cittadinanza digitale nonché per la crescita della persona.
Il Professore non è l’unico a sostenere questa tesi, su molte testate che si occupano di formazione e insegnamento si possono leggere pareri favorevoli e contrari non solo all’utilizzo dello smartphone, ma addirittura anche alla sola introduzione fisica dello stesso tra le mura scolastiche.
Mi preme sottolineare come i favorevoli a tale iniziativa sostengano la possibilità di usare i cellulari come dispositivi didattici aggiuntivi, senza ovviamente eliminare l’utilizzo degli strumenti classici, quali i preistorici libri e quaderni, che pure risultano in ogni caso le soluzioni più apprezzabili per un corretto e completo apprendimento.
Si caldeggia un’opzione aggiuntiva, una possibile strada ulteriore per promuovere il processo di insegnamento-apprendimento in classe, ipotesi volta all’introduzione di metodi educativi innovativi, nuove strategie tecnologiche da affiancare alle tecniche tradizionali, in modo da poter accompagnare ogni singolo studente verso il proprio successo formativo, senza lasciare indietro nessuno.
Che ci piaccia o meno, come suggerisce Simone Consegnati, nel suo articolo pubblicato su “Tuttoscuola” a luglio di quest’anno, èopportuno riflettere su un dato di fatto: “Attraverso i loro cellulari i nostri alunni si incontrano, si fidanzano, si innamorano, prendono appuntamenti per la serata, a volte leggono un libro o parte di esso, più spesso guardano video e fotografie. Essendo uno strumento cosìimportante, è necessario che ci sia un’educazione e un’attenzione della scuola, verso un uso corretto e adeguato.”
Pare dunque anacronistico inneggiare ad un totale allontanamento dello smartphone dalle vite dei nostri studenti, così come recitano le ultime circolari diffuse nella maggior parte delle scuole, in cui si legge del divieto assoluto di utilizzo dei cellulari a scuola, il che puòsembrare un’azione limitativa, perché, se in classe probabilmente non accadrà nulla di legato ai mondi virtuali, è pur vero che la prima azione che compiono i ragazzi appena varcati i cancelli è accendere i propri telefonini.
Va da sé che il problema non sia l’oggetto-smartphone, ma la non conoscenza delle potenzialità –talvolta pericolose- che ad esso sono attribuite.
Non andrei mai contro la normativa vigente, eppure in qualità di docente di arte e immagine, sostengo che, con le giuste modalità e indicazioni, potrei provare giovamento dall’uso del cellulare in alcune situazioni specifiche, quali le ore dedicate alla pratica: tramite lo smartphone si potrebbero eseguire ricerche iconografiche personalizzate e adatte al lavoro di ogni singolo studente, ognuno osserverebbe la figura di riferimento necessaria al suo operato, senza dover aspettare il proprio turno alla LIM; in altre lezioni si avrebbe la possibilità di visionare insieme, alunni e docente, alcune applicazioni dedicate al fotoritocco, all’editing o all’impaginazione, attivitàrispondenti al bisogno di eseguire compiti di realtà, in modo da far ricadere gli argomenti spiegati su temi e situazioni attuali vicini al mondo giovanile.
Certamente vi è il rischio dell’uso scorretto di tale tecnologia, magari qualcuno potrebbe scattare delle fotografie, filmare la lezione o distrarsi sui social, d’altro canto anche questo è un problema antico, o non vi ricordate che i messaggini si inviavano anche con i Nokia? E poi, almeno una volta è successo a tutti di dimenticarsi di togliere i suoni mentre si giocava a “snake” tra le cartacce appositamente sistemate nel sottobanco.
Non trovo poi corretto tenere la testa nascosta sotto la sabbia: leproblematiche contemporanee ci sono e sono differenti rispetto a quelle di qualche decennio fa. Viviamo in una dimensione di continua incertezza, sia dal punto di vista lavorativo che affettivo, non vi sono più i punti di riferimento stabili su cui contavano i nostri genitori o i nostri nonni, al contrario l’epoca che dobbiamo affrontare è quella dell’individualismo, della competitività che sovrasta gli ideali di appartenenza e condivisione, ed è in questo panorama sociale che si diffondono diverse forme di malessere, tra cui le nuove dipendenze da smartphone e tecnologie varie, la depressione e le diverse tipologie di ansia (funzionale e disfunzionale).
Curioso il caso di Raymond-Millet, regista visionario, che nel 1947 realizza un lungometraggio educativo dal titolo “Télévision: Oeil de Demain” (“Televisione: occhio del domani”). Si tratta di una pellicola in bianco e nero, in cui si ipotizza l’invenzione di una apparecchiatura avanguardistica, una sorta di televisione portatile antesignana del contemporaneo smartphone, la quale infine prende il sopravvento sulle vite degli uomini. Le sequenze mostrano l’inconscia dipendenza che le persone sviluppano nei confronti di tale oggetto, rendendolo perennemente presente nella propria quotidianità, quasi fosse un’estensione del proprio essere: si vedono allora individui sui tram, intenti non più a guardare il mondo fuori dal finestrino, bensì con lo sguardo fisso sul monitor, altri si presentano ad un appuntamento romantico, ma dopo solo alcune parole di cortesia, spengono il proprio interesse verso l’altro e si concentrano a fissare il loro apparecchio, e così in tutti i momenti della vita abituale. Vi ricorda qualcosa?
D’altronde non è questa l’unica volta in cui la Fantascienza si fa portavoce provocatoria di una qualche situazione da monitorare, e non è questo l’unico monito a cui non abbiamo prestato attenzione.
Oggi lo smartphone ci risucchia nel suo vortice social, ci rapisce verso questi ambienti virtuali in cui vige una sempiterna felicità idilliaca, accompagnata dai filtri di bellezza, tramonti mozzafiato, assenza totale di problematiche, noia e tempi morti.
E se invece la direzione relazionale fosse sbagliata? Se non fosse il cellulare ad assorbirci ma fossimo noi a volerci far inghiottire da questo fittizio turbinio? Perché, diciamocelo pure, è più facile guardare un video su Tick-Tock anziché leggere un libro, è meno dispendioso scegliere un giochino sul cellulare anziché utilizzare la playstation, ed è meno faticoso guardare le storie su Instagram, anziché mandare un messaggio o -addirittura- chiamare una persona per sapere come sta.
Lo smartphone forse è solo la scusa che abbiamo trovato per riempire i vuoti. Quei vuoti così necessari, perché servono a pensare, a ricaricarsi, a capire, essenziali persino per comprendere la noia. Quei vuoti che ci insegnano come si gestisce un sentimento, bello o brutto che sia, in cui sperimentiamo la mancanza, la lontananza, l’irrequietezza, le aspettative, quei vuoti in cui possiamo immaginarci il futuro e possiamo spaventarci degli obbiettivi che vorremmo perseguire, perché talvolta tutto sembra così difficile e inarrivabile. Quei vuoti dove c’è la vita vera.
Secondo tale riflessione, lo smartphone risulta l’effettivo “colpevole”dell’alienazione dell’individuo contemporaneo, in quanto portale diretto verso un’esistenza virtuale ed alternativa che si sovrappone a quella concreta, un mondo non tangibile ma non meno pericoloso, figlio del consumismo estremo, delle mode dispotiche, della frenesia del successo ad ogni costo.
In questo senso è necessario prestare molta attenzione all’oggetto-smartphone, figlio prediletto della società che Zygmunt Bauman, con occhio critico, acuto e lapidario denomina come “liquida”, termine a cui si collega il significato di perdita del senso del tempo, ciò che piùcaratterizza questo momento storico. Lo studioso polacco sottolinea come il diffondersi dell’etica dell’adesso e della cultura della fretta abbiano comportato una trasmutazione dei voleri autoritari e unitari, mettendo così in dubbio le dimensioni costitutive più intime della personalità e del comportamento umano, quali le aspirazioni per il futuro e la capacità di costruirsi nel tempo, in quanto soggetti capaci di pensiero critico, dotati di principi di autoregolazione, capaci di creare rapporti intimi soddisfacenti e gratificanti, da cui per altro scaturiscono sentimenti portatori di un serio equilibrio emotivo, la cui importanza non è affatto da sottovalutare.
Bauman osserva inoltre che, se fino a pochi anni fa tale problematica riguardava solo la vita dei più giovani, adesso anche gli adulti sono stati assorbiti dall’affanno di un perpetuo presente e da un costante istantaneo.
Egli individua come fonte di colpevolezza la società dei consumi, fattasi ancora più immediata, repentina ed individuale, stile di vita che s’accompagna ad una costante paura collettiva di rimanere indietro in un contesto totalmente indirizzato verso il progresso e la produzione. Oltre al riferimento alla “traditio” filosofica Shopenhaueriana dell’impossibilità della soddisfazione dei desideri, il sociologo richiama l’attenzione su come ormai l’unità minima della moderna società sia l’individuo e non più il nucleo familiare; non meno determinanti sono le sue osservazioni sugli scarti, non solo intesi come prodotti ma osservabili in individui incapaci di partecipare al gioco sociale, poiché non portatori di profitti consoni alla societàconsumistica, come gli sfollati o gli immigrati.
In questa società “a sciame d’api” -riprendendo una metafora baumeriana- assai diversa dalla società di massa del secolo scorso,priva di un leader, senza gerarchie, incentrata sul consumo individuale, lo stesso studioso sottolinea l’importanza della centralitàdell’educazione.
In primo luogo, egli sostiene, è necessaria una stretta collaborazione tra sociologia e pedagogia, volta a portare avanti un’osservazione critica e un’azione orientata ad un rinnovato approccio al sapere, adeguato alla pluralità delle conoscenze che sta alla base della globalizzazione. Risulta poi essenziale una specifica azione pedagogica che abbia lo scopo di ristabilire il senso critico di discernimento tra gli individui che hanno perduto la propria identità.
L’educazione richiesta è quindi di tipo etico, costruita sullo studio delle discipline sociali.
Solo attraverso una giusta formazione potremo aprirci verso il diverso, evitando e sconfiggendo la solitudine collettiva del nostro tempo, attraverso la dilatazione dei limiti dell’individualismo egoistico e il rifiuto di quello spazio privato ormai in mano all’economia consumistica.
Anche la scuola liquida non può sottrarsi alla sfida.
L’istituzione scolastica, secondo Bauman “deve fronteggiare le leggi di mercato attraverso la libertà, non deve mostrarsi nostalgica verso anacronismi che impongono un impianto prescrittivo alle materie o un disciplinamento degli scolari secondo dei modelli che per altro sono stati completamente spazzati via dalla liquidità. La scuola deve finalmente poter essere il luogo di formazione della capacità critica dei cittadini e della loro pretesa di libertà”.
Difficile trovare una chiusa all’altezza delle parole del sociologo.
ALESSIA CAGNOTTO
Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE