Nelle sale della Fondazione Accorsi – Ometto, sino al 3 settembre
C’è un bellissimo disegno a penna su carta gialla, con tocchi di biacca, esposto in mostra, è attribuito a Francesco Guardi, verso la metà del XVIII secolo, rappresenta un leone alla prima apparenza stanco, lontano dalla gloria antica ma ancora poggiante la zampa destra su di un elmo, in segno di dominio. Potrebbe essere l’immagine della mostra “Venezia nel Settecento. Una città cosmopolita e il suo mito”, a cura di Laura Facchin, Massimiliano Ferrario e Luca Mana, che rimarrà al Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto di via Po sino al prossimo 3 settembre: la visione di una città lagunare pressoché infossata, decennio dopo decennio, in questo Settecento che va sfumando, nell’ultimo periodo della sua storia, una città che è stata posta (e si è posta) ai margini della politica e della grande economia e che cerca di marginare il collasso puntando “sull’aura del suo plurisecolare primato nelle arti visive e musicali e su un’efficace strategia di immagine che ne fanno una delle mete più ambite e predilette del ‘Grand Tour’ internazionale”.
Lo storico Andrea Merlotti, ripercorrendo i cento anni in un interessante saggio posto all’interno del catalogo che accompagna la mostra, annovera quale ultimo successo della Serenissima la vittoria sui Turchi a Corfù (1716), immortalata dalle note della “Juditha Triumphans”, l’unico oratorio di Antonio Vivaldi giunto sino a noi: “Solo due anni dopo, la pace di Passarowitz – nella Serbia attuale – avrebbe marcato una nuova fase nella storia della Repubblica, in cui ‘difesa’ e ‘neutralità’ sarebbero divenute le parole chiave dell’azione politica del governo della Serenissima.” Una di quelle potenze “statiche” freddamente soddisfatte dei loro territori e della situazione socio-politica conquistata, ferme nello status quo, ben lontane da quelle “dinamiche” che ancora giudicavano di dover affrontare ulteriori modifiche agli equilibri raggiunti.
Tuttavia Venezia continuava ad accrescere la propria vita culturale, a rimarcare il proprio primato nelle arti e nello svago (si pensi solo che la Venezia del Settecento possedeva ben diciassette teatri, oltre a sale da concerto, locali pubblici e privati definiti “ridotti”, dove ha modo di esibirsi l’orchestra tutta femminile diretta da Antonio Vivaldi), laddove era un preciso punto di riferimento per aristocratici e avventurieri, per i tanti fuoriusciti politici che nella laguna continuavano a riparare. Una vita culturale che sfoggia grandi esempi nella pittura e nella scultura, che primeggia ancora nelle arti decorative, dall’ebanisteria ai tessuti, dai vetri di Murano ai merletti di Burano, ogni prodotto campione di raffinata elaborazione. Un patrimonio concepito non soltanto per la città ma esportato nell’intera Europa: il trasferimento nel 1746 del Canaletto a Londra e le sue tante amicizie inglesi, la felice frequentazione di Dresda da parte del Bellotto, le commissioni e i viaggi di Giambattista Tiepolo a Würzburg (1750) e Madrid (1762) stanno a testimoniare quanto le corti straniere ancora continuassero a far propria la cultura veneziana, nella venerazione dei grandi nomi. Con il 1797, con il trattato di Campoformio, in cui Napoleone cede la città e buona parte dei territori di terraferma all’Austria, si segnerà la fine definitiva della grandezza veneziana, della cultura, del fascino e dello splendore che l’hanno accompagnata per secoli.
La mostra dell’Accorsi è il prima della fine, nove aree tematiche svolte negli spazi espositivi del Museo e all’interno delle sale dedicate alla collezione permanente, in un eccellente simbiosi, ogni opera derivata da collezioni private, da fondazioni e da musei, come il Francesco Borgogna di Vercelli. Dai simboli alle allegorie disseminati lungo tutto il secolo alle sale dedicate ai grandi maestri dell’arte, gli artefici delle grandi decorazioni e della ritrattistica, della sontuosità delle corti e dei luoghi di culto, da Sebastiano Ricci (“Testa di carattere”, primo trentennio del Settecento), Rosalba Carriera, Pietro Longhi con “Mosè salvato dalle acque” (1735 circa), Giambattista Tiepolo e Francesco Guardi. Poi le immagini della città lagunare, la grande piazza e la darsena, le chiese e gli angoli più nascosti, Rialto e la chiesa della Salute, una serie di vedute realizzate dai grandi Canaletto e Luca Carlevarjis e Michele Marieschi (“Veduta del Campo dei Frari”, 1738-40 o “San Giorgio Maggiore”, dove il terzo decennio del secolo mostra ancora le imponenti navi della flotta pronte a prendere il largo).
Trovano posto anche i grandi eventi annuali, come la festa dell’Ascensione, con lo Sposalizio del Mare, o, ancora in una tela attribuita a Gabriele Bella, la rappresentazione del “Ridotto pubblico”, tra ricchezza di abbigliamenti e un panorama di maschere, dietro cui religiosi e nobili e borghesi nascondevano le sembianze e il loro definito stato sociale. Da una collezione privata parigina arriva “La macchia di cioccolata”, del lombardo Bartolomeo Lazzari, un attimo di vita, un felice siparietto entro cui uno sconosciuto cicisbeo aiuta una gentildonna a rimettere in sesto l’abito toccato dal prezioso liquido. Forse uno dei momenti più gustosi dell’intera mostra.
I mandolini raccolti nelle vetrine ci lasciano immaginare i tanti intrattenimenti musicali che allietavano le serate non soltanto del patriziato, gli elementi d’arredo mostrano il lavoro dei minusieri veneziani, non ultimi i mobili laccati, e le “chinoiserie” che invadevano gli ambienti. Una eleganza che si riversava sulle tavole, preziosa argenteria e porcellane vantate per le pregiate paste dure, per le quali veniva impiegata materia prima locale, ovvero il caolino del Tretto, nel Vicentino. In ultimo uno sguardo alla Venezia ebraica, risalente al X secolo, e alle nuove vedute di Giuseppe Bison con cui si entra nell’Ottocento. Ma il mito rimane e il “Palazzo Ducale” di Giorgio De Chirico è chiamato a chiudere la mostra: ma non cercate più i precisi particolari e le intagliature cromatiche che hanno fatto grande quella antica pittura. Gli anni Cinquanta del secolo appena trascorso sono tutta un’altra un’epoca.
Elio Rabbione
Antonio Molinari (Venezia, 1655 – 1704), “La traslazione del corpo di San Marco”, dopo il 1695, olio su tela, Vercelli, Fondazione Museo Francesco Borgogna; Bartolomeo Nazzari (Clusone, 1699 – Milano, 1758), “La macchia di cioccolata”, metà del XVIII secolo, Parigi, coll. privata, Courtesy Cabinet Turquin; Manifattura veneziana, “Coppia di commode per corredo da sposa”, metà del XVIII secolo, legno intagliano e laccato, Torino, Museo Accorsi-Ometto; Francesco Guardi (Venezia, 1712 – 1793) e bottega, “Le Fondamenta Nuove di Venezia con la Laguna e l’isola di San Michele”, circa 1758, Torino, Museo Accorsi-Ometto; Giorgio De Chirico (Volo, Grecia, 1888 – Roma, 1978), “Venezia, Palazzo Ducale”, 1955, olio su cartone applicato su tela, Coll. privata, Courtesy Galleria Bottegantica, Milano.
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