Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
Tove Ditlevsen “Dipendenza” -Fazi Editore- euro 15,00
E’ l’ultimo tassello dell’opera autobiografica di Tove Ditlevsen, l’importante poetessa e scrittrice danese nata nel 1917 e morta suicida nel 1976. Autrice della Trilogia di Copenaghen in cui ripercorre le tappe principali della sua perigliosa esistenza: “Infanzia” (primo volume, pubblicato in patria nel 1967), seguito da “Gioventù” ed ora concluso con lo struggente “Dipendenza”.
Anche in questo capitolo finale il suo sguardo sulla vita è amaro e disincantato; ci trascina nel suo mondo, nel suo sentire e nella sua sofferenza con parole che ci afferrano e non ci lasciano più.
Dopo un’infanzia difficile («… lunga e stretta come una bara ….» così la descrisse) e una giovinezza altrettanto stentata, alla ricerca della realizzazione di quel talento innato per la scrittura, ora Tove è una donna adulta.
Ha appena 20 anni, ma si sente pesantemente sposata da una vita con l’editore 53enne Viggo Frederik Møller; e non è certo un matrimonio d’amore, pilotato più che altro dalla madre di lei.
Viggo è freddo, supponente e distante. Ma lei gli è grata per averla sposata e per avere pubblicato la sua prima poesia sulla sua rivista.
Adesso Tove sta cercando di scrivere il suo primo romanzo, a mano su carta protocollo gialla e in silenzio, senza usare la macchina da scrivere per non disturbare col rumore il marito.
Poi nella sua vita irrompe il 25enne studente di economia Ebbe, che assomiglia a Leslie Howard e la incanta fin dal primo incontro. Per lui lascia il marito, e lo sposa in seconde nozze. Un amore passionale e travolgente che si assopisce di colpo dopo la nascita della figlia Helle. Poi di nuovo un rapporto sempre più difficile, con in mezzo un sofferto aborto clandestino e tante incomprensioni.
Infine entra in scena il medico Carl, che lei non ama affatto, ma dipende da lui dal momento in cui per procurarle un altro aborto illegale le ha somministrato la Petidina. Un potente analgesico che propaga nel suo corpo una beatitudine mai provata prima. E’ l’inizio della vorticosa discesa negli inferi della tossicodipendenza.
Tove lascia anche il secondo marito, pur di avere costantemente libero accesso a quel pericoloso liquido che la «…eleva all’unico piano di esistenza al quale mi interessa vivere».
La sua esistenza deraglia, lei peggiora a vista d’occhio e si isola da tutti, scivolando sempre più nell’abisso al quale seguirà il ricovero e la faticosa disintossicazione …..
Come andrà a finire la vita della scrittrice lo sappiamo.
Lei, che era uno spirito creativo e libero, non riuscirà mai a venire a patti con la vita; si sentirà sempre fuori posto ed affogherà il suo male di vivere in alcol e droghe. Fino al tragico epilogo: la morte per un’overdose di sonniferi che fermò la sua vita a soli 58 anni.
E questo libro ci fa comprendere a fondo il suo male di vivere.
Norman Mailer “Un sogno americano” -La nave di Teseo- euro 20,00
Mailer, di cui ricorre il centenario della nascita, per alcuni è stato uno dei maggiori autori americani; per altri invece troppo dedito ad eccessi, violenza, sesso e misoginia.
Nato nel New Jersey il 31 gennaio 1923 e morto a New York nel 2007, fu più cose. Presunto boxeur, candidato 2 volte come sindaco della Grande Mela, inanellò 6 mogli ed ebbe 9 figli. Incontrò la fama come scrittore nel 1948 con “Il nudo e il morto”. Autore di 40 libri, vincitore di 2 Premi Pulitzer; ma anche poeta, giornalista, sceneggiatore e regista.
“Un sogno americano”, quarto romanzo di Mailer, uscì nel 1965, in 8 puntate su “Esquire” in piena epoca beat, e suscitò parecchio scalpore. Narra una torbida storia che si consuma nell’arco di 32 ore vertiginose ed è anche una meditazione sul male.
Il protagonista è Steven Rojack: laureato ad Harvard, eroe di guerra, amico di J.F. Kennedy, professore di psicologia esistenziale, personalità televisiva, attore e figura pubblica. E alcuni tratti della sua vicenda richiamano la vita vera di Mailer che negli anni Sessanta accoltellò la seconda moglie Adele (che però non sporse denuncia).
Invece il protagonista 45enne, mezzo ebreo, Steven Rojack, sposato per interesse con l’ereditiera Deborah, ora sta affrontando il divorzio che si trascina per le lunghe. Una sera va a trovarla, i due bevono e discutono, lui ubriaco perso in un accesso incontrollato d’ira la strangola, poi la lascia riversa sul pavimento e si infila nel letto della cameriera di lei, come se niente fosse.
In un secondo tempo torna nella stanza del delitto e scaraventa il cadavere dalla finestra per simulare un suicidio. Un volo nel vuoto e un’auto che passa sopra la vittima aumentano lo scempio del suo corpo.
Ovvio che i sospetti ricadano subito su Rojack, che però se la gioca abilmente: tra fughe nei bassifondi newyorkesi e jazz club, mafiosi, scambi erotici bollenti, sesso con la cantante di night – club Cherry della quale forse si innamora, vincite inaspettate a Las Vegas e continue pressioni della polizia affinché confessi il delitto.
E’ un’anima nera quella del protagonista: ambiguo moralmente e sospeso tra continui riferimenti al bene e al male, accenni al diavolo, un torbido cocktail di sesso, violenza e ambiguità morale.
Dal romanzo fu tratto anche il film nel 1966 diretto da Robert Gist, “An american dream”, in italiano tradotto “Vivi e lascia morire”, con Eleanor Parker nel ruolo di Deborah.
Elisa Fuksas “Non fiori ma opere di bene” -Marsilio- euro 19,00
E’ il secondo romanzo della scrittrice e regista nata a Roma nel 1981 e racconta la sua perigliosa ricerca della tomba del nonno paterno, che tutti erano convinti riposasse al Cimitero del Verano a Roma. Invece scoprirà che non è così. Elisa Fuksas è la figlia dei fondatori dell’omonimo famoso studio di architettura cosmopolita e visionaria.
Questo libro è affascinante, un intelligente e profondo viaggio tra vita e morte, tra il regno dei vivi e quello dell’eterno riposo di chi non c’è più. Un peregrinare tra senso della vita e ineluttabilità della fine, ma anche nelle radici del proprio passato, non sempre facile da rintracciare e ricostruire.
La protagonista -autrice inizia il suo percorso a ritroso, partendo da suo padre, Massimiliano Fuksas rimasto orfano a soli 6 anni nell’Italia del dopoguerra. Del nonno, Elisa sa pochissimo e annaspa tra scarne informazioni.
E’ come una fantasma che aleggia nella vita di Elisa; sa che si chiamava Raimundas o Raimondo, era lituano italianizzato, medico e in un certo senso ebreo. Aveva conosciuto la moglie all’università dove studiava filosofia e lui medicina; si erano sposati contro il volere della famiglia di lei, andando a vivere in un misero monolocale. Raimondo era sempre elegante e abituato a fare colazione in giacca e cravatta; ben diverso dai familiari romani e caciaroni della sposa.
Raimondo era morto giovane il 15 ottobre del 1950, non si sa bene di cosa: ictus, ischemia, embolo. L’unica testimonianza a cui aggrapparsi era stata quella della nonna, rimasta vedova prestissimo, ma campata fino alle 100 candeline e morta da pochi anni.
Lei ricordava che il marito era spirato in casa, al Gianicolo, all’improvviso una notte, vomitando acqua.
Il loro era stato un grande amore, tranciato troppo presto dal destino; e dopo 20 anni di vedovanza la moglie si era risposata con un italiano. Ora le loro ceneri riposavano in due urne vicine, nel loculo di un cimitero di campagna.
Invece Raimundus dove era sepolto solo solingo? Secondo il padre della scrittrice le spoglie riposano nella tomba di famiglia della nonna, insieme a quei parenti acquisiti ma invisi. Lui non ci va da 60 anni ma ricorda che la tomba era la 132, nona a destra dell’ingresso principale del Verano….
E’ così che la protagonista intraprende il complicato viaggio nel monumentale cimitero capitolino. Una vasta città dei morti edificata in seguito all’editto di Saint Cloud del 1804 che imponeva le sepolture fuori dalle mura cittadine, nei secoli cresciuta fino a coprire la superficie immensa di oltre 83 ettari.
Elisa che non frequentava volentieri i camposanti, ora invece vi si addentra con il fiuto del segugio, andando così anche alla ricerca delle sue origini nella lontana Lituania che non ha mai neanche visitato. Ed è un ‘avventura- metafora di tutte le morti, le sparizioni.
Una continua riflessione sulla vita e la morte; su tutto quello che sta intorno al morire, tra riti, sepolture e tantissimo altro. Un libro che induce a meditare….
Maria Castellitto “Menodramma” -Marsilio- euro 16,00
Questo è l’esordio letterario della 25enne figlia del regista Sergio Castellitto e della scrittrice Margaret Mazzantini, sorella di Pietro che a sua volta è attore, regista e scrittore con al suo attivo il romanzo “Iperborei”.
Maria in realtà ha sempre scritto fin da bambina, ma senza mai farne parola in famiglia; poi a 20 anni ha iniziato a pubblicare articoli su un giornale. Ma lo scatto è avvenuto mentre studiava in Inghilterra e sul computer annoverava vari inizi di possibili storie, oltre alle materie di studio.
Il resto è venuto da sé, incoraggiata dai genitori ai quali aveva fatto leggere parti del romanzo.
E in parte l’esperienza londinese traspare nel libro, la cui protagonista è la quasi 24enne Duna, romana laureata in Filosofia che vive a Londra dove si mantiene leggendo sceneggiature.
Duna non è un personaggio autobiografico, ma in alcune interviste Maria Castellito ha chiarito che certi pensieri e stati d’animo della sua protagonista li ha vissuti anche lei.
La storia racconta anfratti delle nuove generazioni. Parla di confusione, disperazione, delusioni; sostanzialmente della difficoltà di incasellarsi nel mondo secondo la propria natura più autentica e profonda. In un certo senso è un romanzo generazionale, in cui a dubbi e insicurezze fa da contraltare la costante ricerca di risposte e soluzioni.
Intorno a Duna si muovono suoi coetanei con problematiche simili, senso di inadeguatezza in generale, ma soluzione diverse. Per esempio il miglior amico, il problematico Alexander, alla fine finisce in una clinica psichiatrica.
Potremmo dire che il romanzo parla di quel male del vivere e senso della fine che attanaglia ogni processo di crescita, ma che in gioventù appare spesso molto arduo.
Nelle pagine scorre un senso della fine che sembra stia per arrivare e coincide con la fine della giovinezza che ha già nostalgia di se stessa.
Ma è una sorta di morte simbolica, e anche se il pensiero del suicidio sfiora Duna, alla fine la vita fa sempre uno scatto.
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