Sul palcoscenico del Carignano, per la stagione dello Stabile torinese
I preamboli sono sotto gli occhi di tutti. “Ma ho già la testa piena di nuove cose! Tante novelle… E una stranezza così triste, così triste: ‘Sei personaggi in cerca d’autore’: romanzo da fare. Sei personaggi, presi in un dramma terribile, che mi vengono appresso, per esser composti in un romanzo, un’ossessione, e io che non voglio saperne, e io che dico loro che è inutile e che non m’importa di loro e che non m’importa più di nulla, e loro che mi mostrano tutte le loro piaghe e io che li caccio via… – e così alla fine il romanzo da fare verrà fuori fatto.” Così scriveva Pirandello al figlio Stefano nel luglio del 1917. E poi ancora, nelle “Novelle”: “È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. Cinque ore, dalle otto alle tredici. M’accade quasi sempre di trovarmi in cattiva compagnia.” E ancora: “Oggi, udienza. Ricevo dalle ore 9 alle 12, nel mio studio, i signori personaggi delle mie future novelle. Certi tipi. Non so perché tutti i malcontenti della vita, debbano venire proprio da me.”
Un fardello, un peso, quella “stranezza”, che Pirandello si portò addosso per anni. Poi la tragedia, la tragedia in commedia, sulle tavole del Valle di Roma e l’esito disastroso della prima, la sera del 9 maggio 1921, con il pubblico beffato e contrario agli esperimenti teatrali e abbastanza inferocito ad attenderlo fuori, qualche disordine a piazza Navona, tutti a chiedersi, come il capocomico, perché dalla Francia non arrivino più dei testi come dio comanda e si sia costretti a rappresentare quelli assurdi e fumosi di questo signor Pirandello. Poi il trionfo di Milano nel settembre successivo, poi i Pitoëff a Parigi e i successi europei e americani, e cent’anni senza soste quei sei disgraziati a cercar di far rappresentare il loro dramma, per passare in casa nostra tra i Buazzelli i Valli i Pilotto i Pagni gli Scaccia e altri ancora. Fino a oggi.
A inizio di stagione, mi chiedevo: ma ancora i “Sei personaggi”, ne varrà ancora la pena? sappiamo tutto ormai. Testo più per una bella prova d’attori che per altro. No no. La scommessa l’ha vinta pienamente Binasco, a cui il signor Pirandello e i suoi “Sei personaggi” sino a ieri stavano piuttosto antipatici, rimettendo in scena il testo dell’autore siciliano, e lo Stabile torinese tutto, con i confratelli di Genova e di Napoli (in tournée nelle due città sino al 28 maggio). Certo un testo “nuovo” e non freddamente “nuovo”, attuale, completamente “odierno”, affrontando con fine intelligenza un classico, ma non per rivolgerlo ai propri interessi, ai personalismi di affermato regista, un testo che non deve essere considerato un intoccabile pezzo museale ma che deve respirare aria mai provata prima. Per analizzarlo dall’interno, per rigirarlo come un calzino, per toglierlo da gran parte di quel filosofeggiare con cui, pur nell’involucro di una bellezza che non fa altro che colpirti ancora e sempre, l’autore lo ha ricoperto. Poggiando su entrambe le edizioni del ’21 e del ’25, ha lavorato di passione, di modernità, di gusto teatrale e di invenzioni; ha lavorato saggiamente di linguaggio, per cui magari “cotesta frenesia” non ti arriverà più alle orecchie, per cui quella anacronistica e ormai ridicola “busta cilestrina” – di cui tante volte si è sorriso – ha lasciato il passo a una più comune “busta celeste”, ha snellito l’azione svaporando e togliendoci Madama Pace, ma magari dopo l’altra sera vediamo i “Sei personaggi” in chiave più realistica e non tanto come seduta spiritica. Ha giocato allo sberleffo, improvviso, inaspettato come un gioco di prestigio, divertito e divertente, dicendoci “chi l’ha detto che in questo testo non si possa ridere?”, quando nel momento più angosciato del dramma, allorché il Padre, nelle stanze della peccaminosa ‘Robes et Manteaux’ s’intrattiene con la Figliastra, due giovani attori, due ragazzi, stravolgendo i ruoli, danno vita a un siparietto di gustosa comicità.
E ancora. Sin dall’inizio, scordatevi le battute iniziali con il capocomico che chiede più luce in scena o “Oh! Che fai?” / Che faccio? Inchiodo”, scordatevi i ritardi della prima attrice e il suo cagnolino da chiudere in camerino, la troppa sicurezza di questo o di quello, il disinteresse totale a quanto stanno facendo, la prova di Socrate a sbatter le uova nel dar vita al secondo atto del “Gioco della parti” che la compagnia dovrebbe rappresentare. Binasco s’è circondato di venti allievi della Scuola per Attori dello Stabile torinese, per loro ha inventato di sana pianta, dando maggior spazio rispetto all’originale, parole e gesti e cose da fare, scambi di battute, ragazzi di oggi con le loro risate e i loro visi immusoniti, le piccole ripicche e gli abbandoni, e il gioco regge e diverte e interessa. Ed è soprattutto giusto, autentico. E poi il dramma, che Binasco – qui coraggioso e magari sfrontato più che in altre occasioni: in veste d’attore, racchiude il dolore e le miserie di un animo umano alla deriva, ben consapevole del marcio che lo ha circondato ma che in una sacrosanta legge di contrappasso che vede l’ora di rivivere – sfaccetta in ogni suo più piccolo dolore, nel mostrare padre madre figlio e figliastra in uno stretto vortice (i piccoli della famiglia, le vittime, quelli che non parlano e che saranno eliminati dall’acqua e da un colpo di pistola, sono subito sostituiti da due giovani leve tra gli allievi), come certe anime di Dante, che cercano qualcuno che le ascolti e che in quell’ascolto trovano pace e eternità. Nel mostrarli in quella richiesta a essere rappresentati, a entrare dentro a un copione, “a viverlo adesso questo dramma”. Dentro una sala prove, pressoché spoglia, una scala e una porta sul fondo, fredde luci al neon (la scena è di Guido Fiorato), tutti insieme, attori e personaggi, come una grande famiglia. Al centro di quello che pare essere il suo regno un capocomico tra l’inguaiato e lo stupito, difficile a entrare in quel (preteso) gioco che gli è piombato addosso, un po’ sempliciotto anche che Jurij Ferrini rende con grande convinzione, con tratti di grande trasporto verso il pubblico. Sara Bertelà, chiusa in quella prima parte che non le lascia spazio, se non in quei gesti di tacita presenza, esplode in lamenti e disperazione poi, ridando spazio e vita alla Madre troppe volte lasciata al fondo del palcoscenico; Giovanni Drago efficacemente fa sua la rabbia, il risentimento di quel Figlio cupo e appartato, in una prova davvero positiva. Negli abiti della Figliastra (i costumi sono di Alessio Rosati), Giordana Faggiano, spregiudicata e sfacciata, allegra e tristissima, dolce e ad un passo dall’ira, sguaiatissima nelle sue tante risate, una bambola anni Trenta appena uscita da qualche film di ragazze perdute, un trucco pesante attorno agli occhi, dimostra la grinta, la pienezza, la drammaticità, l’intensità – vera ad ogni istante – della grande attrice. Un successo, repliche al Carignano sino a domenica 7 maggio.
Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Luigi De Palma
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