“Riccardo III” al Carignano, sino al 26 marzo, per la regia di Kriszta Székely
Sembrano passati secoli, e non soltanto decenni, da quando Vittorio Gassman nell’altro “Riccardo III” proposto dallo Stabile torinese nel 1967 per la regia di Ronconi rimaneva imprigionato tra le sagome lignee di Ceroli e barattava il proprio regno per un cavallo, da quando i responsabili dell’allestimento si rendevano conto a pochI giorni dal debutto d’aver inciuccato le misure e il peso dell’armatura del protagonista ed erano costretti a rivedere la data della prima. Secoli se si confronta lo stesso titolo che abbiamo visto poche sere fa sul palcoscenico del Carignano, ancora lo Stabile di Torino – Teatro Nazionale a produrlo con lo Stabile di Bolzano e con Emilia Romagna Teatro, nell’adattamento di Ármin Szabò-Székely (una riscrittura vera e propria) e per la regia di Kriszta Székely, da un pugno di stagioni artista associata.
La regista, già lo avevamo capito a malincuore con lo sguardo moderno che buttò sullo “Zio Vania” cecoviano, non ha proprio in animo di “rispettare” il tracciato che la storia teatrale ha segnato da sempre, le piace uscirne, saggiare nuovi sentieri e nuovi approdi, l’attualizzazione pare che sia un abito da indossare ogni giorno, senza se e senza ma. Padronissima. Raccontarci delle case di York e di Lancaster e della Guerra delle Due Rose come se fosse un conflitto di oggi, di cui giorno dopo giorno leggiamo nei giornali e vediamo le immagini sanguinose e inimmaginabili sullo schermo di casa, padronissima. Tratteggiare con colori sulfurei la resistibile ascesa di Riccardo, centrare il dramma sulla sua volontà ad essere “malvagio”, il suo disegno condotto tra un sottile ragionamento e una perfida follia al fine di cancellare attorno a sé quanti lo hanno a parole e a gesti appoggiato nella salita al trono, “loro sanno cosa stanno facendo e io mi sono sollevato dalla responsabilità”, facendo piazza pulita di fratelli e nipoti, di cortigiani e di consorti (una corte dove eccellono le prove di Francesco Bolo Rossino, marionettistico Edoardo, Nicola Pannelli che è Stanley, un campione a metà di moralità e giustizia, Elisabetta Mazzullo che è la regina Elisabetta, chiamata a sostituire Richmond nella tirata finale, pronta ad “arricchire l’avvenire con la pace dal volto sereno”, non foss’altro che per dare un nuovo spazio all’altra metà del cielo) – in obbedienza alla protezione e alla committenza di Elisabetta I Shakespeare quasi si sentiva in obbligo di rendere al futuro un ritratto quantomai ingrato del sovrano, casa Tudor doveva farci la sua bella figura se messa a confronto con un simile mostro: e sarebbe ora che la Storia e gli studi, più di quanto non si sia già fatto, prendessero le redini per rendere maggiore giustizia a quelle povere ossa ritrovate una decina di anni fa sotto lo spazio di un parcheggio nella città di Leicester e sepolte prontamente in chiesa -, padronissima.
La sfida (e/o il vezzo) è quella di seguire strade nuove e non appena seduto in poltrona, sbirciando nella scena di Botond Devich che mostra uno chalet di montagna (che è anche, oltre una sala riunioni, forse un luogo di religione e il lungo tavolo l’altare del sacrificio), tra anonime appliques e caminetto, tra televisori che rimandano le breaking news e una vetrata che lascia immaginare uno splendido panorama, tra sacchi di plastica neri che conterranno di lì a poco i tanti cadaveri, uno sopra l’altro, trasportati in scena dalle segrete della Torre dalle braccia robuste del giovane Catesby (Nicola Lorusso), che ha saggiato le dinamiche del potere, che ne è stato usato, che come un cane segue il suo padrone e che sarà l’ultimo ad abbandonarlo, tra spot che illuminano e telecamere che riprendono facce e fatti, con ricostruzioni filmate come di rado si sono viste, sai già cosa aspettarti. Come sai già che trasportati dalle parole del Bardo a quelle di oggi, si dovrà inevitabilmente cambiare musica, si dovranno ascoltare dialoghi dove inciampare in termini come pistola e conferenza stampa, in inflazione, in sciare e piste da sci, in stronzo e merda e vaffanculo, in pc e cellulari; entrerà in scena mamma Cecilia (Manuela Kustermann, con cui si respira una rispettata aria di saggezza e antica teatralità) in tuta rossa e moon boot di ritorno dalle piste, avremo un nudo integrale maschile che è per noi tutti acqua fresca: ma avremo anche Riccardo che lascia scivolar via “l’inverno del nostro scontento è mutato in splendida estate” com se fosse al bar davanti ad un caffè e butta al niente la tragicità del “mio regno per un cavallo” con un isterico zompettio di un bambinetto cui in un segnale di precoce bullismo qualcuno nell’ora di ricreazione ha rubato la merenda.
Se circolano follia e ragionamento, mancano la costruita regalità e la tragicità del sovrano. E se la seduzione s’incolla ancora addosso come una sanguisuga al corpo e alla mente della regina Anna, un brano di teatro che Lisa Lendaro rende al meglio, non mi pare che arrivi a simpatiche zaffate quella stessa seduzione che dovrebbe inebriare l’intero pubblico. Si avverte il “Grande Meccanismo” decifrato da Jan Kott, regge tragicamente bene l’equazione con i tanti dittatorelli di oggi, ma la seduzione sembra essere altra cosa. Sottolinea il responsabile della nuova drammaturgia: “Volevamo far capire che Riccardo non è una creatura rinascimentale di fantasia, che essere malvagio era ed è una questione di scelta, ergo dovremmo guardarci intorno con cautela, perché chiunque potrebbe fare quella scelta, sebbene inizialmente non sia aiutato da titoli nobiliari ed eserciti, ma dalla corruzione, dai media e dalle fake news. I mezzi possono essere cambiati, le intenzioni e le reazioni umane no, e la guerra e la morte sono ancora il risultato finale.” Uno sguardo sulla nuova umanità quindi, dove attorno al malvagio circolano i tradimenti, il sangue, le complicità, le paure, il desiderio che porta ad un comune punto finale.
Tutto questo per cercare di trasmettere la personale convinzione che dell’opera di Shakespeare sia rimasto ben poco. Anzi dimentichiamola. C’è un altro sguardo, un’altra preoccupazione. Se allora il pubblico vorrà pensare, cancellato il tratto della regalità, tabula rasa, ad un capitano d’industria della nostra epoca, ad un cinico signore che non bada ai mezzi e alle misure per raggiungere quella poltrona messa (troppo) in alto, a un politico, certo, ancora lui, che con le armi più strane raggiunge quei fini che si è prefisso, allora la riscrittura firmata da Szabò-Székely è una felicissima quanto intelligente parabola che non poggia tanto sul mantenimento dei nomi originali, Buckingham, Clarence, Rivers, Hastings, ma piuttosto su precisi “paradigmi della tragedia”, universali. Che allargano i limiti di un palazzo e di un regno per raggiungere tempi e spazi ben più ampi. E allora ogni tassello si ricompone con efficacia nel proprio spazio. Ma quel sovrano, no, per luinon c’è più posto. Fermo restando, in onor di onestà, che in locandina è correttamente stampato “da Shakespeare”: e con quel cambio di preposizione abbiamo il preteso per muoverci come vogliamo. Székely è inaspettata: “Non sarò mica io Riccardo III?” Quel capitano d’industria, quel cinico signore, quel politico, quell’io, Paolo Pierobon li rende con la perfezione che gli conosciamo da tempo, cranio rasato e pizzetto e mano sinistra guantata sempre in tasca in esterno, malvagità e calcolo, ferocia e finzione in petto, tratteggiati con grande bravura. Si replica sino a domenica 26 marzo.
Elio Rabbione
Le foto di scena sono di Luigi De Palma
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