Una mostra da non perdere (sino al 12 marzo 2023, al Castello Sforzesco di Novara
Quel prologo affidato alla tela di Francesco Hayez, “Imelda de Lambertazzi” del 1853 – tra sguardi languidi e pensierosi di innamorati, tra scranni e tendaggi verdi che nascondono sgherri in agguato -, amore e morte nella lotta tra Guelfi e Ghibellini nella Bologna del XIII secolo, narrato da un ormai sconosciutissimo Defendente Sacchi e caro anche a Donizetti, è il punto d’avvio della mostra “Milano da romantica a scapigliata”, ambientata nelle sale del Castello Sforzesco di Novara, davvero “maravigliosa”, che di testa e di pancia consigliamo a tutti. Volendo ricordare le occasioni che l’hanno preceduta, diremmo che arriva buona quarta dopo quelle sull’Ottocento e sul Divisionismo sino all’evento dedicato a Venezia, ospite tutte di un luogo che a grandi e importanti passi sta divenendo ritrovo d’appuntamento obbligato per gli appassionati dell’arte; e ottimamente resa, attraverso la cura e la conduzione e le scelte di Elisabetta Chiodini, dall’Associazione Mets Percorsi d’arte, ottima reclutatrice di opere da collezioni pubbliche e private, dal Comune di Novara e dalla Fondazione Castello, con il patrocinio di Regione Piemonte, Commissione Europea, Provincia di Novara e Comune di Milano, necessario Main Sponsor Banco BPM.
Settanta opere, piccole e grandi tele, sculture minuscole e di estrema raffinatezza (“La pleureuse”, 1875 – 1878, di Giuseppe Grandi), otto sezioni, i maggiori protagonisti della cultura figurativa ottocentesca attivi a Milano, le vicende storiche che sono trascorse dal Regno napoleonico all’austriaco Lombardo Veneto, dalle rivolte popolari (con l’immancabile Bossoli) sino alle guerre indipendentiste, sino alla liberazione del 1859. Le visioni di una capitale meneghina ancora chiusa dentro sue certe strutture quattrocentesche e delle sue trasformazioni verso una città moderna e signorile, ma ancora portatrice di inevitabili e ampi grumi di povertà, in cui le differenze sociali si facevano sempre più visibili, una città che negli anni Sessanta vedeva la costruzione della Stazione Centrale, la rivoluzione dell’area di piazza Duomo con la demolizione del Coperto dei Figini, con la costruzione della Galleria e l’ideazione di piazza della Scala sino, dieci anni più tardi, all’abbattimento del Rebecchino, antico isolato davanti alla bela madunina, luogo d’azione dei malandrini dell’epoca. Un percorso che non è soltanto affidato alle arti, ma altresì alla Storia e alla riscoperta visiva di angoli della città ormai mutati o scomparsi del tutto.
“Pittura urbana” (la definizione la si deve ancora al Sacchi) che abbraccia vecchie prospettive, iniziata tra il secondo e il terzo decennio dell’Ottocento dall’alessandrino Giovanni Migliara (che illustra vecchi caseggiati e antichi passeggi, eleganti toilette e venditori, nella “Veduta di piazza del Duomo in Milano”, 1828), lasciando presto il campo ai più giovani ma già sguinzagliati colleghi Luigi Premazzi (“Interno del Duomo”, 1843, un fiorire di colonne e vetrate di eccezionale bellezza, a fronte della monumentalità dell’organo descritto in ogni più significativo particolare), Carlo Canella (“Veduta della corsia del Duomo”, del 1845, l’attuale corso Vittorio Emanuele, un susseguirsi di figure colte nella loro più immediata vita quotidiana, lo stagnaro e la signora con l’ombrellino, le piccole voliere e il loro mercante) e Angelo Inganni con i suoi Navigli innevati del 1852. Un “palcoscenico” abitato altresì dagli “attori protagonisti” della storia milanese di quello scorcio di secolo, l’autore dei “Promessi Sposi” raffigurato da Giuseppe Molteni (un quadro ritrovato di recente), il “Conte Carlo Alfonso Schiaffinati in abito da cacciatore” dell’Arienti e i ritratti di Giovanni Carnovali, comunemente conosciuto come il Piccio, “autore – ci viene chiarito nelle note alla mostra – impegnato fin dalla prima metà degli anni Quaranta in una personalissima ricerca intorno alle potenzialità espressive del colore, figura fondamentale per un primo affrancamento della pittura lombarda da quello che era stato l’indiscusso primato del disegno di matrice classicista.”
La terza sezione contempla la Milano occupata dagli austriaci e poi liberata, nelle tele di Carlo Bossoli, il più sensibile quanto tenace narratore delle Cinque Giornate, e di Baldassarre Verazzi (“Combattimento presso Palazzo Litta”), mentre la successiva guarda alla Storia dalla parte degli umili, soprattutto attraverso i nomi dei fratelli Domenico e Gerolamo Induno, apprezzati dalla critica come dal pubblico dell’epoca, per il loro squisito sentimento nel raccontare i drammi e le difficoltà del vivere quotidiano di gran parte delle masse. Drammaticamente resa da Domenico con “Lacrime e pane” la povera camera della donna, che raccoglie qualche soldo con i ricami fatti al tombolo, con a fianco la sua bambina, o da Gerolamo con “La scioperatella” del 1851 e soprattutto “La fidanzata del garibaldino”, conosciuta anche come “Triste presentimento”, di vent’anni dopo, anche qui una povera stanza e un letto sfatto, forse una lettera tra le mani che non promette nulla di buono o un’immagine dell’innamorato e un mozzicone di candela, l’unico abitino poggiato sulla seggiola e un catino, il piccolo busto dell’Eroe posto nella nicchia e una riproduzione, alle spalle della protagonista, del “Bacio” di Hayez. Ogni personaggio colto nel suo habitat abituale, interni domestici disadorni, tra le proprie povere cose, quasi sempre immerso in pensieri di ricordi e di indigenza, ogni particolare reso con precisa autenticità, mai vittima di una componente calligrafica fine a se stessa ma di grande, autentico realismo.
Con il proseguire degli anni, molti artisti avanzano nel rinnovamento del linguaggio pittorico, uno fra questi Federico Faruffini (suicida a trentasei anni), grazie anche all’incontro con la pittura napoletana nelle tele e nell’amicizia di Domenico Morelli, ogni cosa vista attraverso un diverso sguardo dato alla luce e al colore. Sono esposti in mostra due suoi capolavori, “Saffo” e “Toletta antica”, davvero di tanta bellezza. Con il suo modo nuovo d’affrontare la pittura, Faruffini fu di stimolo maggiore e definitivo alla ricerca per artisti, lui espressione di ribellione ai codici, come Filippo Carcano e Tranquillo Cremona, Mosé Bianchi e Daniele Ranzoni, che lo abbracciarono e lo accrebbero, in una dimensione minore del disegno e in un affermarsi spavaldo del colore, capace da solo di costruire immagini, nella ricerca dell’essenza che scivola giù verso la “macchia scapigliata”, verso la rarefazione della materia e una vitalità sino a pochi anni prima certo impensabile. Certamente, in quel decennio tra il Settanta e l’Ottanta che vide l’affermarsi della Scapigliatura, non tutti guardarono con simpatia né sicuramente con convinzione a una nuova forma d’arte, “una pittura filacciosa, senza contorni di sorta, quasi senza piani e senza prospettiva”, si disse a proposito di Carcano. Sarebbero arrivate al contrario opere nuove, in netta area capolavori, quali “Giardino con effetto di sole” (di Carcano, 1867), “Ritratto di Nicola Massa Gazzino” (di Tranquillo Cremona, ancora 1867, un dandy di due secoli fa mollemente adagiato in poltrona, un tendaggio di velluto giallo intensamente colorato che affonda le proprie radici in un Rinascimento veneziano, una sola mano guantata, un fondo quasi impercettibile di fiori: eccezionale), “Un giorno di parata” (di Bianchi, 1870, sarebbe sufficiente la macchia degli abiti delle due donne rappresentate tra il sole e l’ombra, sullo sfondo la chiesa e le piccole e “imprecisate” figurine; come il visitatore si dovrà gustare “Il maestro di scuola” e l’impertinente “Dietro le scene”, ripensando a quanto un critico scrisse dell’artista: “Fu saldo disegnatore, compositore disordinato, schiettissimo pittore, succoso, fresco, vario in quel suo cromatismo in cui il colore dei veneziani riecheggia senza affievolirsi, esperto di ogni segreto dell’arte nel rendere la finezza dell’atmosfera e nel modellare con l’efficacia della pennellata nervosa.”).
Nell’ultima sezione, l’affermazione e il trionfo del linguaggio scapigliato, di Daniele Ranzoni “Giovinetta inglese” e “Ritratto della signora Pisani Dossi” (1880, la leggerezza dell’abito bianco e quegli occhi che paiono dire a chi guarda oggi come allora tutto il rincrescimento nei confronti di un qualcosa non fatto proprio e il dolore assopito del personaggio, uno dei più begli esempi della mostra), di Tranquillo Cremona in primissimo piano a catturare l’attenzione e l’ammirazione, con “La visita al collegio” e soprattutto con un unicum suddiviso tra “Melodia” e “In ascolto”, entrambe datate 1878 ed eseguite su commissione dell’industriale Andrea Ponti, un inno all’azzardo della preparazione, alle zone lasciate alla saggia improvvisazione e al non finito, al sommario, all’evanescente, nel tripudio del “disordine” delle pennellate: “Il pennello tanto squisito del Cremona non si è fermato a determinare che certe parti più importanti della composizione, ma in queste ha messo tutta la squisitezza d’intonazione, della quale ha per così dire una privativa assoluta, e tutta quella gentilezza di figure muliebri che egli solo sa trovare”, fu uno dei giudizi a lui rivolto all’apparire delle opere. La mostra è visitabile sino al 12 marzo 2023: assolutamente da non perdere.
Elio Rabbione
Alcune immagini della mostra: Giuseppe Canella, “Veduta della corsia de’ Servi a Milano”, olio su tela, 1833, coll. Gastaldi Rotelli, Milano; Angelo Inganni, “Veduta del Naviglio di via Vittoria con il ponte di via Olocati”, olio su tela, 1852, coll. privata; Domenico Induno, “Pane e lacrime”, olio su tela, 1854, coll. privata; Tranquillo Cremona, “Melodia”, olio su tela, 1874-1878, coll. privata; Daniele Ranzoni, “Ritratto della signora Pisani Dossi”, olio su tela, 1880, coll. privata.
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