Il nuovo, intelligente sguardo di Kristza Székely sul testo di Henrik Ibsen
Kristza Székely è nata a Budapest e ha quest’anno superato energicamente i quarant’anni, nei suoi ricordi c’è un diploma come ballerina classica, oggi continua a dimostrarsi uno dei nomi di punta della drammaturgia europea, celebra le proprie incursioni nel mondo della prosa (Fassbinder, Ibsen, Brecht) e della lirica (Saint-Saëns, Offenbach), le vengono riconosciuti premi importanti, è stata eletta Presidente dell’Associazione dei registi ungheresi. Lo Stabile torinese, all’insegna di una ventata europea che richiama l’applauso, l’ha eletta “artista associata”, l’abbiamo tre anni fa vista all’opera con uno “Zio Vania” e l’attendiamo (al Carignano dal 7 marzo) con lo shakespeariano “Riccardo III”.
Smonta e ricompone (dramaturg è Ármin Szabó-Székely), in chiave contemporanea certi titoloni, certe pietre angolari della classicità, inerpicandosi su per sentieri che metterebbero i brividi a qualunque collega. “Ardita”, l’avevo definita all’indomani del precedente spettacolo. E ardita è rimasta. Un salire verso l’alto che in altra occasione non mi era parso convincente, su quello “Zio Vania”, snaturato nella sua originale scrittura, nelle intromissioni e nelle esasperazioni costruite strada facendo, nella perdita di quel male di vivere che faceva posto a temi troppo legati all’oggi come il riscaldamento globale e il depauperamento delle coste, avevo espresso tutti i miei dubbi. Voleva dire andare troppo al di là delle intenzioni dell’autore per costruire pressoché appieno una visione tutta propria, voleva dire sgomitare per dare spazio al più che superfluo.
Prendendo tra le mani oggi un testo come “Hedda Gabler”, che Ibsen scrisse nel 1890 e che lo Stabile Torinese coproduce con il Katona Jòzsef Szìnhàz, l’acutezza dello sguardo della regista gettato sulla società che circonda i personaggi, in special modo quelli femminili, chiusi e stretti entro le convenzioni più soffocanti, porta ad un raggiungimento “civile” della sua messinscena, analizza, coinvolge nell’attualizzazione, sa vanificare sicurezza e arrivismo.
Soprattutto non sposta di un millimetro la Hedda che Ibsen ha costruito, il gelo che la attraversa, la noia quotidiana verso un matrimonio male sopportato, la freddezza dei rapporti con amici e famigliari, la difesa di uno status che la pubblicazione del libro del consorte Jörgen, devoto ma mediocre, e del suo incarico universitario confermerebbero, il campo di annientamento e di autodistruzione che invade la protagonista, l’intelligenza fredda e calcolatrice che la accompagna sino a quel colpo di pistola finale. Non è più un mescolare le carte, l’oggi viene visto e accettato per una giusta ragione d’essere. Un modo di essere che s’è spostato in linea retta da un panorama di cento e trent’anni fa. Non importa assolutamente nulla se gli eleganti salotti dell’epoca vengono sostituiti da un grigio divano usato e abusato e le azioni degli attori sono inquadrate in anonime pareti di legno, non importa se le lampade a petrolio lasciano il posto ad applique di poco prezzo, se le toilette ricercate e ostentate sono cambiate con gonne da casa e semplici sottovesti, se la stufa in ceramica che inghiotte e distrugge il manoscritto dell’antico amore Løvborg oggi ha il pregio assai inferiore di un onesto trita carta. Non più il “tranquillo” castello di menzogne e confessioni e rigidità di alcune vecchie edizioni, ma qui tutto è frenesia, chiacchiere e chiacchiericcio velocissimi, ardui sfrigolii come quelli che suddividono l’adattamento del testo in vari capitoli, a distruzione della partitura musicale senza inciampi che tutti vorremmo, tutto assume quasi un taglio cinematografico, in precise sequenze, in scatti nervosi, in balletti tarantolati, in frasi rotte dentro un microfono, in un assurdo che è lo specchio preciso del nostro quotidiano.
Le intenzioni e il disegno di Székely sono questa volta esatti, suggestivi, fisicamente accettati, solidi, viscerali, nettissimi. Senza sbavature, vanno dritti a quel colpo di pistola con cui la protagonista rinuncia ad una vita senza futuro. Una Hedda che è una splendida (e per noi, ahimè, sconosciuta e vorremmo rivedere in altre prove) Adél Jordan, secca, vibrante, ai limiti sempre del rovescio isterico e immediatamente pronta a rimettersi in linea con quelli che la circondano; accanto a lei un autorevole, perfetto Béla Mészàros che è Løvborg e gli altri compagni che hanno definito il grande, più che tangibile (il pubblico che al termine non si stancava d’applaudire) successo della serata. Ultime repliche – la lingua cecoslovacca non spaventi, dei precisi soprattitoli tranquillizzano lo spettatore – sabato 14 alle ore 19,30 e domenica 15 alle ore 15,30. Uno spettacolo intelligente da non perdere.
Elio Rabbione
Le immagini dello spettacolo sono di Judit Horvath
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