Una convincente trasposizione per una confessione e un tema sempre attuale

“Mine vaganti” di Ferzan Özpetek al Carignano sino all’8 gennaio

A distanza di una dozzina d’anni, trasportando l’azione dal Salento alla pianura campana, passando dallo schermo al palcoscenico, Ferzan Özpetek firma la sua prima teatrale. “Mine vaganti” fu nel 2010 un successone, divertimento e risate, premianti gli incassi, cinque Nastri d’Argento e due David di Donatello, riconoscimenti europei e nel mondo. Storia ormai senza sorprese, la prosperità di una famiglia del Sud e la conduzione di uno tra i più importanti pastifici della zona, la normalità delle tradizioni da salvaguardare, il ritorno da Roma, dove s’è trasferito per gli studi universitari, del giovane Tommaso Cantone per rivelare a tutta la famiglia la propria omosessualità, per mettersi la coscienza a posto, dopo un silenzio che dura da sempre. Una strada all’apparenza spianata, se non fosse il fratello Antonio a batterlo sul tempo, a fare pure la medesima dichiarazione, a dire della passione verso un operaio della fabbrica, ad essere cacciato di casa da un padre che ha costruito la propria esistenza ed il suo rapporto con la gente sull’altare di una sfacciata eterosessualità, di una caccia continua alle gonnelle. Al poveretto non resta che un infarto, mentre il resto della famiglia non può far altro che tamponare il futuro e salvare il salvabile. Continuando Tommaso a dissimulare le proprie scelte sessuali e a farsi carico di un’azienda di cui non saprebbe proprio che farsene, lui che ha animo di scrittore.

La versione per il palcoscenico arriva con ritardo al Carignano (in scena sino all’8 gennaio per la stagione dello Stabile), al terzo anno di repliche osannanti. Özpetek s’è chiesto, nel momento della trasposizione, come potesse far apparire con facile lucidità il mondo di sentimenti, di momenti malinconici, di risate che prima la macchina da presa aveva svelato e fatto suo. Non sempre è facile passare dai movimenti che vanno a indagare alla stabilità da osservare sera dopo sera. Ferzan c’è riuscito appieno, appieno ha conservato il messaggio di libertà che è alla base della storia, ma anche l’ironia, le ”macchiette” che sgomitano e che si sono costruite un più che apprezzabile spazio tutto loro, le risate e le schegge di un tempo perduto, il rammarico delle scelte doverose. Ha aggiunto piccole scene e altre ha sentito l’obbligo di cancellarle, per cui peccato che la figura della zia parecchio attaccata alla bottiglia ne resti un po’ schiacciata, peccato che la gita al mare degli amici di Tommaso, arrivati pur essi da Roma, non possa godere della luce del mare pugliese, peccato che la gioventù della nonna, vero esempio di modernità, la “mina vagante” per eccellenza, vero ponte tra presente e passato, l’unica ad aver compreso da sempre come stavano realmente le cose, non trovi visivamente spazio a ricordare ancora una volta quella parte di vita cui ha dovuto un tempo rinunciare. S’attiva da parte dell’autore e regista, sul versante delle novità, un “dentro” cui è necessario dare slancio e ritmo: quelle dieci luci in proscenio animano una sorta di opera buffa e di teatro antico, con lo scenografo Luigi Ferrigno – complici i cambi di luce di Pasquale Mari – s’è creato un gioco di tendaggi scorrevoli a chiudere scene e intimità per svelarne altre in cui gioca l’intera famiglia, s’è sfruttato con intelligenza quella platea/piazza di paese dove l’industriale e padre, prendendo a testimone e a prestito il pubblico, teme di essere guardato, deriso, messo al bando.

 

È il momento in cui meglio viene fuori il lato istrionico del Vincenzo Cantone di Francesco Pannofino, incredulo e burbero, chiuso nella propria mentalità antica, vero esempio di uomo del sud: un successo personale, sottolineato dalla partecipazione dell’intero pubblico. Non gli sono certo da meno le chiusure e i dubbi, “ma l’omosessualità un dottore la potrebbe curare?”, della Stefania di Iaia Forte, l’umanità e la rinuncia terminale della nonna Simona Marchini (con la bellezza dei monologhi), le significative e convincenti prove di Edoardo Purgatori (il narratore Tommaso) e Carmine Recano (Antonio, lui faccia ozpetekiana senza se e senza ma), la stralunata zia Luciana di Sarah Falanga, la fantesca di Mimma Lovoi, pronta a scivolare in danze sfrenate. Non si sono certamente risparmiati in gridolini e mossette Francesco Maggi e Jacopo Sorbini e i loro siparietti al culmine della sfacciataggine si sono rivelati i momenti che più hanno divertito il pubblico. Se non sbaglio, le musiche finali sono quelle che accompagnano le ultime scene del film: bel salto temporale (e un bel ricordo per quanti ammirano l’intera filmografia del regista) verso quella che rimane una delle opere più riuscite di Özpetek. Che stasera ha incrociato un eccellente esempio di reinvenzione.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Romolo Eucalitto

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