“The Fabelmans”, una lettera d’amore al cinema e alla propria famiglia

Steven Spielberg si racconta

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Era già un’intenzione e un progetto sul finire degli anni Novanta, si sarebbe dovuto intitolare “I’ll Be Home”, la scrittura originale quella della sorella Anne. Ma la storia era ancora di quelle che disturbano, che non si sa bene come verranno accolte, immatura, troppo privata, troppo personale. Oggi, prima che partano le immagini di “The Fabelmans”, suo trentaquattresimo film, dal prodigioso “Duel” in poi, Steven Spielberg è lì a ringraziare il pubblico di aver scelto la sua storia, “una lettera d’amore al cinema e alla mia famiglia”, e di averla scelta sul grande schermo. Un bel numero, se s’immagina oggi che il ragazzino Sammy (l’alter ego nitido e specchiante di Steven) a sei anni, nel ’52, aveva una paura folle ad entrare in un cinema. Sarebbero state le parole del padre Burt/Arnold, ingegnere informatico, tutto legato alla tecnologia e spinto a spiegargli in pochi attimi dei 24 fotogrammi al secondo, e della madre Mitzi/Leah Adler, pianista concertista che per i figli ha abbandonato la carriera, fantasiosa, pronta a sussurrargli che i film sono sogni che non avrebbe mai più dimenticato, a spingerlo a godersi “Il più grande spettacolo del mondo” di DeMille, affascinato e sbalordito, bocca e occhioni spalancati. Poesia e tecnologia che per l’autore oggi settantaseienne sarebbero state una vera bibbia, due mondi diversissimi pronti tuttavia a incontrarsi. Perché allora non provare, nel salotto di casa, a ripetere con i piccoli vagoni di un treno, con una macchina altrettanto piccola, e soprattutto con la cinepresa di mamma quel disastro ferroviario che lui ha visto sullo schermo?

È un personale amarcord (una dolce e affettuosa malattia che in questi ultimi tempi ha travolto parecchi registi, da Branagh al nostro Sorrentino, da Inàrritu a Cuaròn, da Almodovar a Bruni Tedeschi, raccontare al pubblico, svelarsi, esplorare quelle giovinezze che ti avrebbero segnato e accompagnato per la vita intera), che si dipana attraverso l’Arizona e l’Ohio sino alla California, mentre il fuoco sacro prende sempre di più e Sammy/Steven coinvolge famigliari e amici nella costruzione delle sue prime pellicole, ogni immagine rigorosamente in super8, divertimento sempre più incalzante che molti continuano a definire hobby ma che per il giovane autore è già un’esperienza seriamente intesa, che lo spinge a guardare ben oltre la propria età. Filmini girati nel deserto, piccole masse di comparse fatte muovere (“The Last Gun”, un western amatoriale della durata di 8 minuti è del ’59, due anni dopo girerà “Escape to Nowhere”, 40 minuti di ambiente bellico), carrellate mettendo la cinepresa su una carrozzina, gli scoppi, gli spari simulati, i piccoli trucchi: ogni cosa alla base di creature venute dallo spazio, di animali della preistoria che invadono nuovamente il nostro mondo, di squali che terrorizzano il mare e le spiagge, di archeologi impacciati ma sfacciatamente avventurosi, di terrore nei campi di concentramento e di ebrei salvati dalla lotta di un caparbio industriale tedesco, di una bambina con un cappottino rosso tra i rastrellamenti nel ghetto, di scambi di spie e di presidenti assassinati, di rifugiati a vita nel viavai continuo di un aeroporto, di ragazzi innamorati travolti dall’odio di due gang rivali.

Amore per il cinema ma anche immersione nella vita (nella limpida quanto coinvolgente scrittura del regista e di uno dei suoi abituali collaboratori, Tony Kushner, il mai troppo lodato autore teatrale di “Angels in America”), in quella vita che ti presenta il conto con il divorzio dei genitori e con lo choc procurato, che ti fa trovare dinanzi a te il bullismo e l’antisemitismo, tra le pareti di una scuola, dove la frequentazione è divenuta sinonimo di terrore (“avevo paura di andare a scuola, di tornare a casa da solo e di incontrare nuovi coetanei, perché temevo che seguissero le teste calde che mi disprezzavano e passandomi accanto gridavano ‘sporco ebreo’”, ebbe a dire in un’intervista al “Corriere” poco più di una quindicina di anni fa). A rifugio non resta che la magia della pellicola, girare e tagliare e incollare, magia che è invenzione e realtà, magia che può anche ferirti, che ti lascia scoprire cose che non vorresti vedere (la gita tra i boschi, la sguardo sull’innamoramento di mamma Leah verso lo “zio” Bennie, qui dovuto soprattutto alle luci di Janusz Kaminski, la successiva divisione di una famiglia da sempre unita), che esalta ed emoziona, che muove sorrisi e drammi, che intravede e confonde,  che è pronta a tradire la visione di un personaggio, di un’eroe, come accade con il compagno di scuola, immortalato nelle gare della “marinata” finale ma che in quell’esaltazione non si riconosce. Spielberg – con la collaborazione dei “suoi” attori, da una entusiasmante Michelle Williams (nella prossima cinquina degli Oscar?) a Paul Dano alla felicissima sorpresa che è Gabriel LaBelle -, in estrema sincerità, si racconta, tra divertimento e commozione, spiega il proprio “orizzonte”, quello che un grande regista, uno di quelli che più lo hanno segnato, un giorno in modo burbero gli ha insegnato.

Due grandi figure del cinema si guardano, uno davanti all’altro in quell’ufficio degli studios, un inizio e un tramonto, due strade egualmente importanti. Tra i due quel filo che si chiama magia.

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