“Aspettando il Salone”, nell’ampio spazio della Nuvola Lavazza
Non poteva che dedicarla a suo padre questa tappa finale del lungo viaggio che lo ha portato a indagare sull’incendio che divampò quel sabato 18 luglio del 64 dopo Cristo e che per molti versi cambiò il destino dell’antichità e del mondo: “A mio padre, amico che manca, che mi ha trasmesso l’entusiasmo di viaggiare tra le stelle della conoscenza con la semplicità delle parole e la profondità del pensiero.” Ha assorbito ogni cosa Alberto Angela da sua padre, come un Ulisse dantesco desideroso in ogni istante di conoscere e di andare oltre le barriere, ha assorbito certo tutto l’entusiasmo, e lo tocchi con mano non appena entra da vera star, circondato dalle guardie del corpo che ne proteggono i movimenti e i tempi, e inizia a chiacchierare nella vastissima sala della Nuvola Lavazza per la presentazione di “Nerone. La rinascita di Roma e il tramonto di un imperatore”, uscito da pochi giorni per HarperCollins con Rai Libri e già un successo editoriale, primo ospite di “Aspettando il Salone”, il percorso d’avvicinamento all’appuntamento torinese di primavera, in programma dal 18 al 23 maggio prossimi, che durante il corso dell’anno porterà scrittori e scrittrici a confrontarsi con il pubblico di lettori, pare, sempre più numeroso. La sobrietà nell’esporre, le parole mai nascoste e lontane da quelle troppo spesso usate da certi tromboni tivù, morbide e spinte talvolta verso la risata d’alleggerimento da una materia che troppo impegnata, la cultura che spazia per molte direzioni, l’amore verso un mestiere – paleontologo, naturalista, divulgatore scientifico e scrittore -, tutto lo ha portato a esplorare, a indagare come un detective del nuovo millennio sulle cause di un’occasione e su una figura della storia che troppe voci hanno per secoli sepolto sotto la coltre della più dura negatività.
“Voi siete entrati qui con un’idea di Nerone, vi prometto che uscirete con una totalmente diversa.” Una trilogia avventurosa, ricca di piccoli passi che ci hanno fatto scoprire la vita di Roma del tempo e del suo milione di abitanti, le ore che precedono l’incendio, la guida dei due vigiles Saturninus e Vindex con il militare Primus – tra ricostruzioni e approfondimenti, i primi due sicuramente esistiti, lo sappiamo dalle steli mortuarie che l’uno dedicò all’altro, vivi e vegeti a camminare per le strade in quelle ore a svolgere il proprio incarico, come reali sono il sarto o la pescivendola o le matrone in fuga, che hanno cercato gli ultimi attimi per raccogliere tra le mani o in una borsa qualche gioiello (ma fino a quando?), in cui Angela ci fa imbattere nella sua narrazione -, l’aiuto di Tacito e Dione Cassio e Svetonio nelle testimonianze, gli scavi che riportano alla luce gli strati proprio di quei giorni con le strade che vetrificano a causa dell’elevatissima temperatura che si è creata (i calcoli fatti parlano di 1200 gradi, a Hiroshima si arrivò a seicento), l’incidente di una lucerna lasciata accesa da una serva improvvida, in un magazzino alla base del Circo Massimo, il vento di libeccio che alimenta le fiamme, le varie zone della città implicate (“delle 14 circoscrizioni tre andarono completamente distrutte, quattro uscirono non poco disastrate e sette intatte”), le domus e le insulae (i caseggiati di oggi, ne furono distrutti circa 4 mila) che bruciano e crollano, molte aiutate dai pessimi materiali che la speculazione di troppi costruttori aveva usato. E poi i mezzi di difesa, l’antica via Lata odierna via del Corso usata con le strade adiacenti a far da sbarramento al fuoco, pronti a distruggere palazzi intatti quando occorrerà; e ancora gli sfollati, circa 200 mila, accampati a nord di Roma dove le fiamme non erano arrivate, i mezzi di soccorso, le fughe, i corpi piagati, i feriti e i morti ai lati delle strade e sotto le macerie.
“Non avrei mai immaginato di scrivere una trilogia con la figura di Nerone al centro”, ma l’imperatore è l’inevitabile punto d’arrivo, il protagonista incontrastato di questo terzo volume. Lui, ultimo rampollo della stirpe giulio-claudia: principe e imperatore, poeta e attore, musicista, cantante e danzatore; saggio negoziatore, benefattore del popolo di Roma, invasore, spietato massacratore di senatori, persone comuni, ribelli e cristiani; accanito tifoso da stadio, amante della velocità, appassionato di qualsiasi novità tecnologica, promotore di esplorazioni geografiche, inventore di drink, ribelle nel vestire e nell’acconciarsi i capelli; matricida, uxoricida, marito di tre donne e di due uomini; razziatore di opere d’arte e patrimoni altrui, grande edificatore e urbanista. Questo il quadretto nelle pagine del libro di un ragazzo salito al trono a 17 anni e costretto a porgere il coltello e il collo alla fida serva e amante devota Atte quando non aveva ancora trent’anni. “I primi cinque anni del suo impero furono il migliore periodo di Roma”, ci informa Tacito che non lo trattò mai con cuor leggero, priva di guerre e prosperosa, non certo retta con il proprio vasto impero da un guerrafondaio. La madre Agrippina che “lo marca stretto” (quando risulterà “ingombrante”, sappiamo però che non ci pensò due volte a spedirla a miglior vita), i consigli di Petronio e gli ammaestramenti di Seneca, la modernità della visione politica, la moglie Poppea che muore con tutta probabilità di aborto – non per un calcio che lui le rifilò in pancia: e qui cominciamo a sfatare gran parte del diabolico che Nerone s’è portato sul gobbone in saecula saeculorum -, la scuola per gladiatori (e Angela ti va pure a scoprire e descrivere lo schiniere che porta impresso il nome “Nero”) e la costruzione della sfavillante Domus Aurea aperta tra giardini e fontane e viali al pubblico, le dispense di grano da elargire, i Ludi juvenales (ovvero una sorta di giochi della gioventù, nati nel 59 d.C., durante i quali deliziare tutti gli accorsi con corse di cavalli, gare ginniche e musicali e altro ancora) e le tournée in Italia e in Grecia a far conoscere ogni propria dote e a vincere tutti i giochi, come la corsa su un carro tirato da dieci cavalli, in cui cade ma riesce a superare la prova, l’inizio ad operare sul taglio dell’istmo di Corinto. A dirla tutta, buone doti sì, ma non eccelse, se oltre a mangiar porri e mettere lastre sul petto per irrobustire i muscoli, manteneva una voce “abbastanza buona, ben educata, seppur roca” e se fece fare la fine della madre Agrippina al suo liberto egizio Paride che nella danza non gli aveva fatto raggiungere dei risultati soddisfacenti.
Con quei capelli rossicci, che richiedevano quotidianamente le cure di creme e di pinze roventi, il corpo in leggera abbondanza, una sorta di Ed Sheeran lo definisce Angela – o provate a ripensare al gran faccione di Peter Ustinov che in “Quo vadis” osserva felicità e miserie attraverso l’enorme smeraldo che porta al dito -, uno di quegli amici con cui trascorrere una felice serata in compagnia, in una trattoria a farti una birra e a parlare di ragazze tra una barzelletta e l’altra. Ma l’autore lo definisce anche “Joker”, un essere umano in chiaro scuro, “gioviale e feroce”, un sorriso e un ghigno malefico, come lo ha immaginato Milo Manara nelle pagine del libro. E allora si torna al cattivone? Si torna a quello che in un tramonto dorato sui colli se ne sta con la cetra in mano a cantare un proprio poema, dedicato alla “Caduta di Troia”, e a mirare alla città che lui stesso ha dato alle fiamme, come corre la voce messa in giro dai senatori conservatori che di lui non ne possono più? Che manda ad bestias nel circo e a illuminare le strade che portano a Roma centinaia e centinaia di cristiani, spudoratamente accusati e nel giro di tre mesi mandati a morte? Certo i rumors non stanno in piedi se si immagina Nerone a distruggere più della metà del suo patrimonio, in ville e palazzi e altro, certo la tradizione enfatizzò e accrebbe il numero dei martiri, tra una comunità che contava all’incirca 300 anime, in una Roma dove i cristiani vivevano appartati (Pietro arrivò a visitare i seguaci non a fondare una comunità) ed erano malvisti dagli ebrei che con essi avevano rapporti che Angela definisce “brutti”. Il capro espiatorio ci fu e la ferocia dell’epoca lo trovò nei cristiani. Certo non vanno cancellati gli aspetti che nella Storia hanno bollato la figura di Nerone, principe delle fake news, ma è altrettanto vero che non gli si può appioppare il titolo di Anticristo e legare a lui il perverso 666 (“il calcolo si basa sulle lettere dell’alfabeto ebraico secondo una tecnica che si chiama gematria: in pratica, a ogni lettera corrisponde un numero, a seconda della sua posizione nell’alfabeto. Sommando i numeri corrispondenti alle lettere che compongono il nome di Nerone, si ottiene 666”, ci insegna l’autore, congedando il suo protagonista.
Senza quella tragedia, senza quella figura in chiaroscuro, la Storia avrebbe preso un’altra strada (la necessarietà del Male?), non avremmo avuto la tomba di Pietro e l’edicola, gli scavi e un frammento del muro rosso con il graffito in cui si riesce a leggere “Petros eni” ovvero “Pietro è qui”, non sarebbe nata la basilica, non avremmo ammirato la Sistina e il Giudizio Universale e gli autori del Quattrocento, la tela di Caravaggio a Santa Maria del Popolo, avremmo avuto una Roma diversa. Il “Nerone” di Alberto Angela è un’opera che avvince nel racconto e avvincerà nella lettura, 550 pagine di notizie a rivedere la Storia, a immergerci in un’epoca, a sorbirne ogni aspetto. Un’opera massiccia, completa. Se, mentre termina di firmarvi la copia, chiedete all’autore su quale personaggio andrà a cadere la propria indagine, alzando lo sguardo e posando un attimo il pennarello nero, vi dice, quasi con uno sguardo tra l’esausto e quello che esige compassione: “Adesso credo sia il tempo che io mi riposi”. Ma chi ci crede? Preparatevi a incontrarlo la sera di Natale con “Stanotte… a Milano”, naturalmente targato Rai 1.
Elio Rabbione
La foto di Alberto Angela è di Barbara Ledda; la copertina del libro edito da HarperCollins con Rai Libri “Nerone. La rinascita di Roma e il tramonto di un imperatore”; alcuni momenti della presentazione alla Nuvola Lavazza.
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