Alla Galleria Pirra, un’artista da riscoprire
“Cammino sola dentro un paesaggio. È bel tempo. Ma il sole non c’è. Non c’è lo scandire delle ore. Da molto non c’è più un amico, qualcuno che passi. Io cammino sola. Io parlo da sola.” Il suo nome era Henriette Theodora Markovitch, era nata a Parigi nel 1907 da un architetto croato e da madre francese. Dal mondo verrà ricordata come Dora Maar, la musa e l’amante di Picasso, per lui sarà sempre “La donna che piange”, lei darà il suo volto nella figura che sorregge la lanterna al centro di “Guernica”.
Si incontrarono per la prima volta a Parigi nel 1935, sul set di un film di Jean Renoir, lei aveva 28 anni e l’artista 54, lei se ne stava seduta ad un tavolino, sulla terrazza dei Deux Magots, a Saint-Germain-des-Près, giocando con un coltellino a colpire lo spazio tra un dito e l’altro delle mani, non fermandosi nemmeno davanti a qualche piccola ferita e a qualche goccia di sangue. Davanti agli occhi incuriositi di Paul Éluard che li stava presentando, Picasso le richiese i guanti insanguinati: li esporrà su una mensola del proprio appartamento. E poi iniziò una relazione, che durerà nove anni, fatta di venerazione per la bellezza di Dora ma soprattutto di umiliazioni, di gelosie, di sopraffazioni, di uno sguardo pronto a considerarla sempre “l’incarnazione stessa del dolore”. Dietro la spinta, l’obbligo, di Picasso, Dora abbandonò la fotografia in cui eccelleva – tra i Venti e i Trenta si era affermata con ritratti e pubblicità, ammirava le avanguardie, aveva incontrato Henri Cartier-Bresson, aveva frequentato i surrealisti, Bataille, Breton, Man Ray, aveva dato un nuovo corso alle sue immagini, tra collage, sovrapposizioni, solarizzazioni, fotomontaggi – per entrare nel mondo della pittura, dove certo non era in grado di competere con il genio.
Nella Parigi occupata dai tedeschi Picasso si congeda (aveva da qualche mese incontrato la giovane Françoise Gilot: “Tutti pensarono che mi sarei suicidata dopo che Picasso mi aveva lasciata, ma non lo feci per non dargli questa soddisfazione.”), in maniera definitiva, le lascia come regalo d’addio un disegno di trent’anni prima, con alcune nature morte e una casa in Provenza: per Dora significa entrare in una profonda depressione, il ricovero in una clinica psichiatrica, il calvario dei numerosi elettroshock, le cure di Jacques Lacan, l’isolamento e la rinuncia a esporre, lontana da tutti e da tutto, dividendosi tra Parigi e la campagna provenzale, dove alterna pittura e spiritualità, una reclusione volontaria sino a spegnersi novantenne in una casa di riposo. Era solita ripetere: “Io non sono stata l’amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone.”
Interessante la mostra che, con il titolo “Dora Maar. Oltre Picasso”, sta proponendo la Galleria Pirra (corso Vittorio Emanuele 82), dove le opere rappresentate mettono in luce quella natura che fu la sua fonte d’ispirazione principale, paesaggi che, dopo una ricercata illustrazione, virano completamente verso l’astrazione, verso un mondo rarefatto in cui la donna che piange cerca un rifugio di serenità. Le opere si fanno essenza poetica, il tutto si riveste di quella poesia che Dora ha sempre frequentato e che intimamente fa parte del suo percorso artistico. Gli ultimi quarant’anni di vita sono il tempo in cui indagare, sperimentare, esplorare, formulando studi preparatori e schizzi, nell’immediatezza dello svolgimento. Ogni cosa è costruita sulla scia di una passione che non è mai venuta meno, una passione e una personalità che un uomo aveva cercato di cancellare in ogni sua forma.
Elio Rabbione
Nelle immagini: Dora Maar fotografata da Man Ray, ancora Dora e Pablo Picasso colti dall’obiettivo di Man Ray; opere di Dora Maar.
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