Il termine decluttering (letteralmente eliminare ciò che ingombra) è salito alla cronaca rapidamente negli ultimi due anni, quando le persone, costrette a stare in casa, hanno avuto modo e tempo di accorgersi di quanti oggetti inutili si circondino quotidianamente, quanti di questi potrebbero essere rimodernati o non usiamo più perché sono mutate le nostre esigenze e, in generale, quanto poco spazio rimanga dopo aver comprato ogni genere di cose.
Ed ecco che, parallelamente, si assiste ad un proliferare di mercatini delle pulci, quasi caduti nel dimenticatoio durante gli anni del boom economico.
Quasi ogni Comune ha un proprio mercatino del c’era una volta, dove trovare modernariato, antiquariato o semplicemente oggetti e effetti usati.
Dalle tovaglie ricamate al vasellame, dai libri antichi o semplicemente usati, dall’abbigliamento vintage all’arredamento antico e moderno, gli oggetti usati coniugano le esigenze di chi se ne disfa e di chi vuole acquistare oggetti talvolta unici, sicuramente insoliti, ad un prezzo inferiore al nuovo; i collezionisti, inoltre, possono aggiungere elementi alle loro collezioni magari trovando un articolo atteso per anni.
Il mercato dell’usato, del c’era una volta, delle pulci o come lo vogliamo chiamare, ha un indubbio vantaggio: con il passaggio di un oggetto da chi se ne disfa a chi lo acquista si salvaguarda l’ambiente, si riduce il conferimento di rifiuti in discarica, si evita il taglio di nuovi alberi o l’estrazione di materie prime per produrne di nuovi, si riduce il consumo di energia elettrica e la produzione di CO2.
Ma il mercato dell’usato ha altri due aspetti importanti, non meno della salvaguardia ambientale.
Un primo aspetto è la storia che ogni oggetto porta con sé, una storia che può essere lunga decenni se non secoli e che viene perpetuata con il suo passaggio di mano in mano.
Tempo addietro ho trovato su una bancarella il libro “La Cittadella” di A. Cronin edito subito prima della seconda guerra mondiale; non so a chi sia appartenuto, sicuramente è stato conservato con cura e dopo di me passerà (spero) a qualcuno che ne prorogherà la vita: è come se quel libro conservasse l’energia di chi lo ha tenuto fra le mani; d’altronde, perché acquistarlo nuovo se posso utilizzarne uno usato?
Conoscendo questa mia passione i miei amici e conoscenti, quando devono sgomberare un appartamento dopo un lutto, mi chiamano volentieri perché sanno che adoro recuperare qualche oggetto anche senza valore apparente, come una menorah (candelabro) proveniente da Gerusalemme, un set da trasporto di coltelli da cucina appartenuto a qualche chef e così via oppure di valore, sottostimato da chi se ne disfa, come un’anfora disegnata da Giò Ponti negli anni Trenta.
L’altro aspetto, che spesso non consideriamo, è quello psicologico: fare pulizia intorno a sé.
Quante volte conserviamo, in modo quasi maniacale, ogni oggetto che ci è stato donato o che abbiamo acquistato, anche se appartiene ad un periodo da dimenticare o non serve più a nulla? Senza arrivare ad essere accumulatori seriali, molti di noi conservano in soffitta, in cantina o, semplicemente, in casa oggetti non funzionanti, donati da un o una ex. Potremmo recuperarlo, donarlo, venderlo e, invece, no, lo conserviamo con cura per un semplicissimo motivo: non vogliamo disfarci dei ricordi legati a quell’oggetto perché per noi rappresentano un pezzo di vita importante.
Vivere nel passato, senza proiettarci nel futuro, occupa inutilmente la nostra mente, ci impedisce di sfruttare ogni nuova possibilità si presenti, ci costringe a vivere con ricordi spesso dolorosi.
Siamo passati da un‘epoca in cui si riciclavano i vestiti (da un figlio ad un altro), si riparavano gli elettrodomestici perché durassero il più possibile (TV, ferri da stiro, ecc) e si risuolavano le scarpe più volte ad un’epoca in cui gli oggetti di valore appena guasti vengono rottamati, ma si conservano oggetti inutili, privi di valore economico e, spesso, dannosi dal punto di vista emotivo.
Nel libro L’arte di buttare, Nagisa Tatsumi paragona accumulare oggetti agli eccessi di cibo a tavola. Così come è nocivo mangiare più del necessario e, soprattutto, in modo errato, allo stesso modo lo è per la psiche circondarsi di troppi oggetti perché, se da un lato potremmo iniziare a provare sensazioni ostili nei loro confronti, dall’altro potremmo non riuscire a liberarcene.
Non è necessario buttarli; possiamo destinarli a qualcuno che ne abbia bisogno o conferirli a qualche mercatino di beneficienza: anche questa è una applicazione dell’economia circolare.
L’importante è disfarsi di quegli oggetti e lasciarsi alle spalle i ricordi, specie se dolorosi.
Sergio Motta
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