Se Nanni Moretti perde la sincerità dei suoi affetti

Esce nelle sale “Tre piani”

 

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

 

Spostando l’ambientazione – con la collaborazione di Federica Pontremoli e Velia Santella – dall’originale Tel Aviv del romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo (edito in Italia da Neri Pozza) ad un lungotevere romano, Nanni Moretti affronta in “Tre piani” (presentato all’ultimo festival di Cannes, undici minuti d’applausi ampiamente reclamizzati ma non preso in considerazione dalla giuria guidata dal “gaffeur” Spike Lee) per la prima volta un soggetto non suo. Una storia corale, non centralizzata, una microsocietà che con difficoltà tenta di affrontare la quotidianità piena di ombre, gli affetti di poco conto, le asprezze che nascono con chi ti sta accanto, le scelte che possono aiutare o scalfire enormemente il corso di una vita, il senso della colpa e la sua maturazione come il superamento atteso da sempre, le perdite e la scoperta delle parole che non si sono mai dette, l’educazione dei figli e l’impossibilità ad una altruistica comprensione, la giustizia che giudica o che assolve. “Tre piani” è tutto questo attraverso gli occhi di Moretti e molto altro ancora.

Nell’appartamento del primo piano abitano Sara e Lucio con la loro bambina di sette anni, Francesca, che spesso affidano alla comoda assistenza di una coppia di anziani signori; quando il vecchio, che non ci sta più tanto con la testa, e la piccola una sera scompaiono per venire ritrovati dopo poche ore in un buio giardinetto Sara sa affrontare l’incidente con rasserenante comprensione mentre per il marito esso diventa rabbiosa ossessione, nella certezza sempre più esasperata che l’uomo abbia abusato della figlia. Sopra, una giovane madre, Monica, che ha appena partorito, compagna di un uomo sempre assente per lavoro, facile a scivolare nella solitudine, che la spinge a intravedere fantasmi o accomodanti realtà, e nella follia di cui già sua madre è vittima. All’ultimo piano una coppia di giudici, Vittorio e Dora, alle prese con un figlio che tra aspre discussioni e incomprensioni e violenze si stacca sempre più da loro e che una notte, rincasando ubriaco, uccide con l’auto una donna. Dora è spinta a cercare di comprenderlo, a sviscerare un disagio che si fa sempre più feroce, mentre il padre lo allontana definitivamente, nell’intransigenza di un castigo che il ragazzo dovrà affrontare da solo.

Cosa c’è che non va in questo affresco umano che si srotola nel tempo di una decina d’anni, in questo ultimo film del regista di “La stanza del figlio” e di “Mia madre”, tanto per citare due titoli che al contrario ci sono rimasti nel cuore? C’è la difficoltà delle tre vicende a riunirsi in un unico sguardo, a farsi concreto spessore, e certo non basta il ballo sul finale nell’intento d’abbandonare le proprie piccole persone per aprirsi al mondo, alla comunità riunita e alla felicità leggera e generale. C’è quella separazione che divide il mondo tra un universo maschile riprovevole e un altro femminile assai più assennato e consapevole. C’è in fondo la facilità con cui si è riassunto il bellissimo romanzo di Nevo, prosciugandolo, c’è l’ingombrante apporto del regista, abituato a “dire” le battute, che s’è materializzato e fatto personaggio vivo e vegeto, c’è una sincerità di sentimenti interiori che troppo spesso viene a mancare, ci sono interpretazioni che paiono attestare la partecipazione ad un compitino fatto per bene, diligente nello svolgimento, ma nulla più. Per tutti, la Buy diventa sempre più Buy e la Rohrwacher sempre più Rohrwacher, per dimenticare subito e tutto lo Scamarcio in lacrime. Moretti guarda all’interno del piccolo palazzo la nostra intera società, la espone e non la giudica con i mezzi di un tempo, lo fa con distacco, mescola destini con uno sguardo che a tratti saresti quasi tentato di definire assente, mentre a noi sarebbe piaciuta la vibrante partecipazione di qualche titolo fa.

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