Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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1. La folle storia della follia
Per le comunità arcaiche, la follia possedeva una forte connotazione mistica, infatti l’opinione comune voleva che tale stato mentale fosse causato dall’influsso di qualche divinità, ed era quindi compito dei sacerdoti trovarne una cura attraverso riti e preghiere. Nel Medioevo, invece, la follia era considerata una forma di possessione demoniaca, e la gestione della malattia passò così dai sacerdoti/stregoni alla Chiesa, più precisamente fu affidata all’arbitrio di esorcisti e inquisitori. Si credeva allora che un’entità malvagia si insinuasse negli umori del malcapitato, intaccandone il corpo, e l’unica guarigione possibile, per una mentalità che guardava prevalentemente all’Aldilà, era la purificazione dell’anima attraverso la distruzione della carne, per mezzo di roghi o impalamenti. Solo nel XVII secolo la psichiatria venne riconosciuta come una scienza medica, anche se la malattia mentale continuò ad essere ritenuta inguaribile, progressiva e incomprensibile. Durante l’Illuminismo le cause della follia vennero ritrovate nella perversione della volontà che sfuggiva al controllo della ragione, di conseguenza la cura si doveva rinvenire in rigidi metodi di insegnamento di “regole di convivenza”, di “socialità” e “tolleranza reciproca”, attraverso semi-annegamenti in apposite vasche, minacce con ferri roventi ed esplosioni improvvise di polvere da sparo. Con il trascorrere del tempo e l’evolversi delle conoscenze, e con altrettanta lentezza, anche l’atteggiamento nei confronti della malattia mentale mutò. La luce in fondo al claustrofobico tunnel della storia della follia fu il medico francese Philippe Pinel, che, nel 1793, propose l’abolizione delle catene, che tenevano gli alienati doppiamente imprigionati alla loro condizione, e la separazione di questi dai criminali. I matti non sono più terribili sbagli della natura da nascondere con disprezzo e vergogna, ma semplici malati da studiare e curare. I manicomi nascono, dunque, da un gesto umano, oltre che scientifico, ma spesso la storia ci insegna che la volontà e i buoni propositi hanno ben poco a che fare con la cruda realtà dei fatti. Anche a Torino c’erano i “pazzerelli”, e ce n’erano tanti, poiché con questo termine non si
indicavano solamente gli alienati o le persone affette da qualche disturbo psichico, ma anche i vagabondi, i mendicanti, i nullatenenti, gli sfaccendati, i maghi, i bestemmiatori, le donne di facili costumi, i libertini, i figli ribelli, i sifilitici, gli alcolisti, gli individui politicamente sospetti, gli eretici, e tutti quei personaggi stravaganti che potevano in un qualche modo essere fonte di instabilità sociale, pericolo per la cittadinanza o fonte di scandalo per le famiglie più abbienti. Per crudele ironia della sorte, fu proprio il re Vittorio Amedeo II, morto pazzo nel 1732, a finanziare la costruzione del primo “Spedale de’ Pazzerelli” a Torino. La struttura sorgeva tra via San Domenico, via Piave, via Bligny e via Santa Chiara, era gestita dalla Confraternita del SS. Sudario e Beata Vergine, che, in cambio, ottenne di non pagare l’acquisto dei materiali necessari per il funzionamento dell’attività, e già nel 1629, un anno dopo la sua costruzione, lo stabile era in grado di accogliere i primi degenti. All’interno della struttura i folli erano divisi dai vagabondi e dai criminali, inoltre i violenti, o coloro di più difficile gestione, erano sistemati in stanze più interne, mentre a potersi affacciare alle finestre che davano sulla normale vita cittadina, erano quelli ritenuti miti e innocui. Il buon cuore e la carità insiti nell’animo umano non tardarono a farsi sentire: all’esterno della struttura, gli abitanti delle case adiacenti al manicomio iniziarono a lamentarsi dei comportamenti scandalosi dei malati aldilà delle finestre; all’interno, invece, le condizioni di detenzione dei degenti stavano via via ulteriormente peggiorando, tanto che un esponente dei Savoia esordì con un “io qui dentro non ci metterei nemmeno i cavalli!” Il 13 maggio 1834, alla presenza di re Carlo Alberto, venne inaugurato il nuovo manicomio di Torino, che sostituì quello vecchio e sovraffollato; la nuova struttura venne indicata come l’“albergo dei due pini”, ingannevole perifrasi con cui veniva soprannominato l’orrido e temuto luogo di detenzione. Il complesso sorgeva non troppo lontano dal primo, tra via della Consolata, corso Valdocco, corso Regina Margherita e via Giulio, dove era situato l’ingresso. L’edifico era costituito da due lunghe maniche parallele interrotte al centro dal settore dei servizi, che separava il reparto femminile da quello maschile. Sulla carta, le corsie e le celle erano distribuite a seconda delle patologie e del grado di difficoltà che presentava il trattamento, vi era, inoltre, una sezione apposita per i maniaci provenienti dalle carceri. La grande innovazione di questo stabile stava nel fatto che veniva consentito ai degenti di passeggiare all’aria aperta, infatti, ad abbracciare l’edificio c’era uno spazioso giardino, a sua volta perimetrato da alte mura, divisione obbligatoria, materica ed ideologica tra il mondo dei normali e quello degli anormali. Anche un’altra innovazione coincise con l’edificazione del manicomio di via Giulio: il passaggio dei poteri dalla Confraternita ai sanitari, il periodo assistenziale gestito dai religiosi era finito, si apriva ora la fase clinica in cui il medico era il funzionario del nuovo ordinamento. Ad assumere l’incarico di primo medico interno in servizio fu Benedetto Trompeo, un dinamico trentunenne di larghe vedute, a cui si deve l’introduzione del concetto di cartella clinica e dell’ergoterapia. Grazie al suo metodo curativo, che si basava su una terapia sedativa, (salassi e bagni bollenti o congelati) e su una terapia “morale” che consisteva nel passeggiare per l’ombroso giardino, giocare alle bocce e leggere dei libri adatti, riuscì a dimettere cento pazienti come “risanati”. Gli successe Stefano Bonacosa, grande viaggiatore e studioso; egli si soffermò sull’influenza delle condizioni organiche e dell’ambiente sulla genesi della malattia mentale. Divenne primario del Regio Manicomio e il primo ad ottenere in Italia, nel 1850, la cattedra per l’insegnamento della psichiatria.
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Alessia Cagnotto
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