Il lato artistico del “Dantedì”: quando l’arte incontra Dante

Da poco è passato il “Dantedì”, ossia la giornata nazionale dedicata al “Sommo Poeta”. La data -25 marzo- è stata approvata in vista del settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri, avvenuta il 14 settembre 1321, e in corrispondenza dello stesso giorno del 1300 in cui, secondo tradizione, l’autore fiorentino si smarrisce “nella selva oscura”.

È stata di Paolo di Stefano, giornalista e scrittore, l’idea che il padre della lingua italiana avesse un giorno “tutto suo” sul calendario, così come James Joyce (1882-1941) ha il proprio “Bloomsday”. Per James Joyce si tratta della commemorazione annuale dello scrittore irlandese, che si tiene ogni 16 giugno ed è sentita in particolar modo a Dublino; la data scelta rimanda agli eventi dell’ “Ulisse”(1922), che si svolgono tutti nel medesimo dì, proprio il 16 giugno del 1904.

Come docente di Arte, quest’anno ho partecipato attivamente al ricordo dantesco con le mie classi, e, avvalendomi dell’indiscusso potere delle immagini, ho preparato una lezione dedicata a “Dante nell’arte”, per riflettere con i miei studenti su quanto l’autore preso in esame abbia ispirato l’immaginario collettivo.
È la “Commedia” di certo l’opera che è stata maggiormente ripresa da pittori, scultori, illustratori ma anche da registi teatrali e cinematografici, soprattutto per quanto riguarda l’ “Inferno”; la narrazione dantesca degli Inferi, con le sue terrificanti atmosfere e i suoi suggestivi personaggi, si presta forse più facilmente delle altre due cantiche (“Purgatorio” e “Paradiso”) a rielaborazioni suggestive e turbanti.
Lo ammetto, ho usato lo stesso “escamotage”.
Ogni argomento necessita di una contestualizzazione, senza entrare nei dettagli e sempre con supporto iconografico, ho ripercorso brevemente per i miei studenti la struttura dell’opera dantesca e ho richiamato alla mente alcuni concetti essenziali. Per tale introduzione ho proiettato sulla superficie della LIM le illustrazioni dal carattere didascalico che Botticelli eseguì tra il 1480 e il 1495 su richiesta della famiglia Medici.

Dopo il debito preludio esplicativo, finalmente sono entrata nel vivo della lezione. Mi sono soffermata volutamente sull’iconografia legata all’“Inferno” e ho mostrato alla classe diversi dipinti e alcune sculture dal carattere alquanto inquieto e orrorifico, sia per ottenere l’attenzione, sia per dimostrare da subito che la lezione dantesca non ha limiti temporali e ancora oggi vi sono artisti viventi che si rifanno ai suoi versi.
Come non cominciare chiamando in causa “Caron dimonio, con occhi di bragia” (III,109), nella specifica incisione di Gustave Doré (1832-1883), pubblicata nel 1861, sicuramente una delle interpretazioni che ottenne più riconoscimenti in Europa e che resta tutt’oggi una delle immagini maggiormente conosciute.
Siamo nel Canto III dell’ “Inferno” (vv. 82-111), e per illustrare il mostruoso traghettatore il Doré si attiene con precisione al testo dantesco; Dante riprende l’aspetto di Caronte dalla descrizione presente nel libro VI dell’“Eneide” virgiliana, accentuandone però i tratti demoniaci. Nell’incisione il mefistofelico nocchiero appare come un vecchio nerboruto, con lunghi capelli e barba bianchi, intento a battere violentemente con il remo le anime che indugiano (“batte col remo qualunque s’adagia”, v. 111).
Innumerevoli sono coloro i quali hanno voluto cimentarsi nella rielaborazione dell’immaginario del “Sommo Poeta”; tra le rivisitazioni più conosciute troviamo, oltre a quella del Doré come sopra indicato, l’interpretazione di William Blake- a cui accennerò più avanti – né va dimenticata la versione surrealista del 1957 di Salvador Dalì (1904-1989).
Non è questa la sede, ma è chiaro che la “Commedia” ha influito sull’attività creativa di molti artisti, già a partire da Michelangelo (1475-1564) e Signorelli, (1441-1523), per quel che concerne la raffigurazione del “Giudizio Universale”; Eugène Delacroix, (1798-1863), che dipinge “La barca di Dante”, o ancora Giuseppe Frascheri (1809-1886) che raffigura “Francesca da Rimini”. Tempo dopo, rimanendo sulla tematica del giudizio delle anime, Auguste Rodin, (1840-1917), realizza la “Porta dell’Inferno”, opera “maledetta” a cui l’artista dedica gli ultimi trent’anni della sua vita, non riuscendo comunque a completarla. I versi di Dante, ricolmi di creature mostruose, colpiscono anche la fantasia di autori fiamminghi, come dimostra il colossale “Trittico del giardino delle delizie” (1503–1515) di Hieronymus Bosch (1453-1516).
Non mi soffermo sulle celebri incisioni di Doré, tanto meravigliose quanto conosciute, né sulla particolarissima rivisitazione di Dalì, che richiederebbe un’analisi a sé stante proprio per la sua unicità, al contrario vorrei spendere qualche parola sul lavoro di uno dei massimi esponenti della pittura inglese.

L’emblematico William Blake(1757-1827), si dedica a partire dal 1824 a uno studio sistematico della “Commedia” dantesca; ha sessantacinque anni quando inizia la sua opera illustrativa, purtroppo muore pochi mesi dopo aver cominciato l’impresa, lasciando il lavoro incompiuto. Egli studia con attenzione le varie cantiche, le rielabora secondo la sua personalissima visione e concretizza settantadue tavole per l’”Inferno”, venti per il “Purgatorio” e dieci per il “Paradiso”. Sono ovviamente i versi dell’”Inferno” a colpire maggiormente la fantasia onirica dell’artista, le immagini dedicate a tale parte si succedono in una sequenza serrata, un unico canto viene illustrato anche con più disegni, mentre per il “Purgatorio” e il “Paradiso” i disegni si riferiscono a canti sparsi ma ben precisati.
La raccolta alterna illustrazioni in cui è evidente un preciso riferimento ai versi danteschi, come nella tavola raffigurante la boscaglia del settimo cerchio, dove si trovano le Arpie e le anime dei suicidi, e disegni decisamente più visionari, in cui emerge l’immaginazione teatrale dell’artista, come nella tavola dedicata al trentunesimo canto, in cui Dante e Virgilio sono calati “lievemente” dal Gigante Anteo sul ghiaccio del Cocito.

Torniamo ora ad un discorso più generico: come abbiamo appurato tutta la “Commedia” affascina e colpisce, ma vi sono alcuni personaggi che rimangono più impressi di altri.
Un esempio per tutti: il Canto V dell’”Inferno”. Dante e Virgilio si sono lasciati alle spalle il Limbo e si trovano ora nel secondo cerchio; qui incontrano il terribile Minosse, giudice infernale che secondo il numero degli avvolgimenti della sua coda, stabilisce il cerchio in cui i peccatori devono scontare la propria pena. È in questo canto che troviamo alcuni dei versi più famosi, “Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”, espressione di cui si avvale più volte (“Inf.”, V, 22-24; VII, 10-12) Virgilio per rammentare a chi si oppone all’incedere di Dante che il “fatale andare” del poeta è voluto da Dio. I peccatori che si trovano nel V canto sono i “lussuriosi”, travolti e tormentati dalla “bufera infernal che mai non resta” (v.31), tra di essi si trovano tra gli altri Didone, Cleopatra, Elena e Tristano. Nella schiera di Didone si distinguono due anime che procedono unite e sembrano volare così leggere nell’infuriare del vento: si tratta di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini.
Francesca, sposata con Gianciotto Malatesta, signore di Rimini, zoppo e deforme, si innamora di Paolo, detto “il bello”, fratello del marito. Entrambi scontano con la morte l’adulterio: vengono sorpresi e uccisi da Gianciotto. È appurato che la vicenda dei due cognati abbia un fondamento storico, anche se la documentazione rinvenuta riporta pochi dati effettivamente riscontrabili.
Nella narrazione dantesca la coppia si specchia nelle vicende d’amore di Lancillotto e Ginevra, narrate nel libro “galeotto”, la cui lettura conduce Paolo e Francesca al cedimento amoroso: “Quando leggemmo il disiato riso/ esser baciato da cotanto amante, /questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi baciò tutto tremante” (vv. 133-136).

Mentre Paolo piange, Francesca racconta, sottraendo l’impulso primo del peccato ad una responsabilità individuale per trasferirlo sul piano della forza trascendente e irresistibile di Amore.
L’episodio letterario ha larga eco e diventa uno dei soggetti prediletti in ambito artistico, soprattutto durante l’Ottocento. I pittori romantici non possono resistere alle tematiche della passione, del binomio “eros” e “thanatos” e del dramma che caratterizzano la triste storia di Paolo e Francesca.
È opportuno sottolineare come ogni pittore decida di rappresentare uno specifico segmento narrativo della vicenda; tale scelta definisce il messaggio di cui l’opera si fa portatrice, messaggio che si adatta intelligentemente alla sensibilità del pubblico e del comune senso del pudore, entrambi in perenne mutamento a seconda dei diversi periodi storici.
Anselm Feuerbach, (1829-1880), pittore tedesco neoclassico, per esempio, sceglie di rappresentare un momento di dolce tranquillità apollinea, egli realizza una struttura composta, in cui l’intensità emotiva risulta contenuta, se non quasi assente. Nel quadro “Paolo e Francesca”, (1864), i due innamorati si presentano senza alcun ardore, essi sono immersi in un giardino fiorito, non si guardano nemmeno, al contrario ambedue sono assorti nel testo che li porterà a non leggere più oltre (“Quel giorno più non vi leggemmo avante”, v. 138).

Totalmente differente è l’interpretazione di Ary Scheffer, (1795-1858), intitolata “Dante e Virgilio incontrano le ombre di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta nell’Oltretomba” (1855). Il pittore incentra il suo quadro su un senso di erotismo dolce e disperato, egli decide di esaltare la permanenza della passione fisica e spirituale che “ancor non m’abbandona”(v.105) -dice Francesca – rifacendosi al concetto tanto caro ai romantici dell’amore che sopravvive alla morte. I corpi nudi e candidi di Paolo e Francesca emergono da uno sfondo scuro, dove si intravvedono le figure di Dante e Virgilio; elemento centrale della composizione è il lenzuolo bianco, che avvolge i giovani e che rimanda sia al giaciglio amoroso, sia al mortale sudario.
Jean-Auguste Dominique Ingres, (1780-1867), invece, nell’opera “Francesca da Rimini e Paolo Malatesta” (1819), propone una versione puramente narrativa della vicenda e non inserisce elementi interpretativi. L’atmosfera è tipica della commedia teatrale, gli innamorati sono caratterizzati da una purezza quasi infantile ed è assente ogni rimando ad una dimensione sensuale. Inoltre, come assistessimo “ad un colpo di scena”, da un lato si intravvede Gianciotto, rappresentato proprio nell’atto di sguainare la spada per colpire entrambi.
Passa il tempo e l’approccio al racconto muta, come si evince dalle due tele che Gaetano Previati realizza tra il 1887 e il 1909. La prima, “Paolo e Francesca” del 1887 presenta ancora dei rimandi romantici: i protagonisti sono raffigurati trafitti dalla medesima spada mentre giacciono ai piedi di un letto che richiama la “liaison erotica”. Vent’anni dopo è invece evidente l’influsso del Futurismo: Paolo e Francesca sono gettati nel turbinio del vento e i loro corpi sono visibilmente caratterizzati da una forte energia, quasi attraversati dal fremito della corrente elettrica.
“Il sogno di Paolo e Francesca” di Boccioni è ormai tutto futurista, non vi è traccia della narrazione dell’episodio, i due soggetti perdono la loro storica identità, e si trasformano in una “lux aeterna”, tutta la scena non è altro che un abbraccio elettrico fonte di calore e di energia.

È opportuno sottolineare che non solo l’ambito pittorico si è interessato alla rappresentazione del tragico amore, anche il mondo del teatro si dimostra un più che adatto contesto per continuare a narrare il mesto e meraviglioso episodio dantesco.
Nel 1901 D’Annunzio scrive “Francesca da Rimini” per la bella e “divina” attrice Eleonora Duse, che successivamente diventerà sua amante. Si tratta di una tragedia in versi e suddivisa in cinque atti. La prima rappresentazione avviene al tetro Costanzi di Roma, il 9 dicembre dello stesso anno; l’opera viene poi eseguita nel 1914 al Teatro Regio di Torino, in quest’occasione musicata da Riccardo Zandonai.
Il cartellone pubblicitario deve attrarre il pubblico: Paolo e Francesca sono rappresentati come innamorati appassionati, l’illustrazione deve enfatizzare l’aspetto tragico e peccaminoso della vicenda, così come il sottotitolo “Storia di sangue e di lussuria”. D’Annunzio per l’occasione mette in scena usi, costumi e scenografie che possano rimandare al XIII secolo, elementi che però risultano più leziosi che storici, secondo il tipico gusto “revival neogotico” che caratterizza il finire dell’Ottocento. La Duse riceve un’ottima critica, forse motivo per cui di lì a poco viene scritta un’opera omonima per la sua rivale Sarah Bernhardt, “étoile” dei teatri parigini.

Dalla pittura al teatro e dal teatro al cinema, nonostante il trascorrere del tempo il pubblico pare ancora interessato alla vicenda. Sappiamo che nel 1906 viene prodotto un primo film italiano sul tema, di cui però non resta alcuna traccia; nel 1908 invece compare sul grande schermo un film dal discreto successo di cui viene realizzata una riedizione l’anno successivo. La protagonista della pellicola è nuovamente la Duse, che ancora raccoglie i frutti delle sue mirabili interpretazioni teatrali. Mi piace ricordare, in tempi relativamente più recenti, “Paolo e Francesca” di Raffaello Matarazzo, distribuito nelle sale nel 1950 e l’omonimo lungometraggio del 1971, diretto da Gianni Vernuccio.
Va tuttavia precisato che un anno particolarmente sentito per la cinematografia dantesca è stato il 1911, quando in Italia vengono distribuiti “Visioni Infernali” della Helios Film e “Inferno” della Milano Film, entrambe le pellicole chiaramente ispirate alle incisioni di Dorè, per quel che riguarda composizione e struttura scenica, forme e atteggiamenti ricorrenti dei personaggi.
L’”Inferno” dantesco viene ovviamente ripreso nel corso degli anni e ciò si evidenzia soprattutto nell’emblematica figura di Lucifero, presentato con le medesime caratteristiche che ormai è difficile modificare.

Per sottolineare la trasversalità dell’insegnamento del Sommo Poeta vorrei citare ancora alcuni esempi artistici che esulano dai campi fino ad ora presi in esame: il viaggio di Dante all’ “Inferno” ispira l’Album musicale di Clever Gold e Murubutu del 2020, intitolato non a caso “Infernum”, mentre nel mondo della danza sono due scenografici e spettacolari musical a risentire dell’influsso del padre della lingua italiana: il musical “La Divina Commedia” di Manolo Casalino, Maurizio Colombi e Marco Frisina, ospitato all’Arena di Verona nel 2010 e la seconda parte della trilogia “Divina Commedia: dall’Inferno al Paradiso” della No Gravity Dance Company, portata in scena al Teatro Open Air Giuseppe di Stefano di Trapani nell’agosto del 2019 e l’anno successivo.
L’arte continua ininterrottamente a ispirarsi all’opera dantesca, ne è un chiaro esempio la mostra che si è appena conclusa “Verso il 2021. Dante nell’arte contemporanea italiana”, promossa dalla Società Dante Alighieri con il Patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo in collaborazione con il Comune e il Comitato Dantesco di Foligno. L’esposizione propone i lavori di quindici artisti contemporanei esponenti della Transavanguardia, della Scuola di San Lorenzo, dell’Anacronismo e dell’Ipermanierismo, tra cui Mimmo Paladino, Enzo Cucci e Emilio Isgrò. L’iniziativa non si limita a proporre “semplici” illustrazioni di un Aldilà che è stato già largamente descritto, al contrario propone una doppia riflessione, sugli eterni temi presenti nella “Commedia” e sulle infinite suggestioni che ancora possono colpire gli artisti di oggi.
Arrivata a questo punto, è certo che il discorso potrebbe dilungarsi ancora di un bel po’, esattamente come la lezione che ho svolto a scuola sarebbe potuta durare ben più a lungo, ma non sto scrivendo un saggio né voglio tenere una conferenza.
Questo mio pezzo vuole solo avere lo stesso scopo delle lezioni che tengo a scuola: proporre spunti di riflessione, mostrare “cose” che magari non si conoscevano e dare a ciascuno la possibilità di aprire la propria mente e imparare a guardare da diverse prospettive e angolazioni. D’altronde credo sia questo il “sommo” scopo della cultura.

Alessia Cagnotto

 

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