Dal “Pierino” di Chiara al “paese dei mezaràt” di Dario Fo

Entrambi, oltre a narrare le gesta degli autori in tenera età, alquanto discoli e con l’argento vivo addosso, offrono uno spaccato straordinario su persone e luoghi che s’affacciano sul lago Maggiore

Costretto a stare in casa per qualche giorno ho approfittato dell’occasione per rileggere due libri divertenti: “Le avventure di Pierino “, di Piero Chiara, e “Il paese dei mezaràt”, di Dario Fo. Entrambi, oltre a narrare le gesta degli autori in tenera età, alquanto discoli e con l’argento vivo addosso, offrono uno spaccato straordinario su persone e luoghi che s’affacciano sul lago Maggiore. Nel primo, il protagonista che combina guai tra le bancarelle del mercato di Luino (a cui Pierino poteva partecipare per l’intera giornata perché “la direzione scolastica aveva stabilito la vacanza settimanale al mercoledì, invece che al giovedì come in tutt’Italia, forse più per comodo degli insegnanti che degli scolari” ) è proprio il piccolo Chiara. Pierino salta da un’avventura all’altra, pestifero e inarrestabile, un vero monello per le strade di Luino. Finché i grandi non si stancano della sua vivacità e lo mandano in collegio.

Ma lui è fatto così, vivace e furbo, allegro e goloso, e anche bugiardo, quando serve per salvarsi da una punizione. Pierino non si può fermare e in collegio impiega tutte le sue energie per fare ammattire i suoi pazienti professori. Ingegnoso come lo sono i bambini particolarmente svegli della sua età, Pierino ( due terze ripetute a suon di bigiate, pur essendo un rampollo di commercianti e quindi destinato agli studi) vive le sue avventure a Luino, la città sulla “sponda magra” del lago Maggiore dov’è nato “in remote stanze sopra i tetti” nella secentesca casa Zanella e che nel primissimo Novecento è un attivissimo crocevia commerciale tipico delle terre di frontiera. In un mercato in cui convergono venditori onesti e ciarlatani, bancarellai improvvisati e imbonitori, saltimbanchi da quattro soldi e commercianti cittadini con spazi affittati per tutto l’anno, va in scena una straordinaria commedia umana. Una curiosità: tra i tanti che affollano il mercato compare anche la figura del ricco formaggiaio Berlusconi, che si trova suo malgrado coinvolto in un lancio di forme di gorgonzola, taleggio e grana padano di cui aveva omaggiato tre sorelle zitelle divenute ladre per necessità.

Il libro si articola in due parti. Nella prima è il mercato stesso nella sua coralità di personaggi a riempire il palcoscenico, mentre nella seconda (Pierino non farne più!) il piccolo irrequieto ritorna a fagocitare la scena, combinandone davvero di tutti i colori, sino a finire in collegio dall’altra parte del lago, dai salesiani di Intra. All’anagrafe Piero Chiara era registrato proprio come Pierino e alcuni capitoli come “Non piangere Bertinotti”, “L’evaporazione delle angurie” o “Guerra e pace con i Formentini” sono davvero spassosi. Viceversa, ne “Il paese dei mezaràt“, Dario Fo racconta i luoghi, gli eventi e i personaggi leggendari che hanno segnato la sua infanzia ( e non solo). Prendendo le mosse dai luoghi natii ( San Giano, in provincia di Varese) e da quelli dove ha trascorso l’infanzia, Fo s’avventura nel turbine della memoria restituendoci le imprese del padre ferroviere, le visite in Lomellina al nonno Bristìn, indugiando su episodi di volta in volta teneri e drammatici fino al suo apprendistato all’Accademia di Brera di Milano, agli stratagemmi per campare, al dramma della guerra con il reclutamento forzato e, per finire, con un notevole salto temporale in avanti, i funerali di “Pà Fo”, figura centrale di questo “romanzo di formazione”.

Il titolo rimanda al dialetto  lombardo, soprattutto a quello in uso sul lago Maggiore, dove “mezaràt”significa mezzo-topo. Il paese dei mezaràt equivale al paese dei pipistrelli ed è riferito alla gente di Porto Valtravaglia che lavorava sopratutto di notte, perché erano soffiatori di vetro, pescatori e contrabbandieri. Porto Valtravaglia, dove il piccolo Fo cresce e va a scuola, era – secondo il grande attore – “un paese in cui i bar e le osterie non chiudevano mai, non avevano neanche le porte, non avevano un ingresso principale. Io sono cresciuto lì, in un paese dove c’erano persone che provenivano da tutta Europa, dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna, perfino dall’Oriente, ognuno con una tecnica diversa di soffiatura del vetro“. In quella babele di lingue e dialetti si inserivano discorsi, dialoghi, favole, lazzi sarcastici e paradossali. È un mondo ormai scomparso, che non esiste più, che però per Dario Fo è stato fondamentale. La sua capacità di raccontare – si pensi all’uso di certe pause o dei gesti – proviene direttamente da quel mondo popolato da affabulatori straordinari.

E’ lo stesso Dario Fo a definire la sua infanzia “eccezionale”: “Ho avuto la possibilità di vivere un’infanzia sempre attorno al lago Maggiore, ma cambiando un paese dopo l’altro. Ho frequentato la terza elementare in tre posti diversi, la quarta in due scuole differenti. Poi sono andato a Luino per le scuole medie, a Milano per il liceo di Brera e infine all’Università. Quindi io, figlio di un ferroviere, ero sempre in viaggio. Questo naturalmente ha influito molto sul mio carattere. Credo di essere una persona generosa, ed ho imparato non solo da mia madre o da mio padre, ma anche dal clima che mi sono trovato intorno“. Il capitolo finale de “Il paese dei mezaràt“, racconta il funerale del padre, il quale prima di morire si era preoccupato di ingaggiare una banda che per tutto il tragitto da casa fino al cimitero suonasse le marce dei partigiani delle valli. “ Per ogni valle (sei o sette sul lago Maggiore), infatti, c’era un gruppo di partigiani che creava una propria canzone. Mentre si andava al funerale, tra le bandiere rosse, la gente, gli anarchici, iniziò un altro funerale, quello dello scrittore Piero Chiara, che aveva sempre avuto fama d’essere un gran mangiapreti. Per cui la gente si unì al corteo di mio padre pensando che fosse quello di Chiara. Poi quando è arrivato il feretro da Varese, nel luogo dell’appuntamento non c’era nessuno. Così tutti i giornali riportarono questo episodio“.

Marco Travaglini

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