“Zio Vanja” in scena sino al 26 gennaio al Carignano per la stagione dello Stabile torinese
Al termine “adattamento” (come rivisitazione o riscrittura), coniato per i palcoscenici di oggi, c’è sempre da guardare con un certo sospetto.
Ovvero fiutare con mille cautele l’operato e la piena libertà di questo o quel drammaturgo, di questo o quel regista, che s’avventano su di un testo, più o meno vicino a noi nel tempo, per modificarlo e allinearlo alla nostra epoca, per piegarlo alle proprie esigenze. Sino a sconvolgerlo. Snaturando quel che sinora è stato dalla sua stesura, giocando freneticamente con accadimenti e personaggi, costruendo strade nuove che poco (quando a volte nulla del tutto) hanno a che fare con ll pensiero antico dell’autore. Detto questo, non è che si intenda rimanere abbarbicati, in occasioni che lo consentano, ad un ferreo passato e nella memoria c’è posto per esempi che hanno saputo conservare una certa classicità pur collegata ad uno sguardo rivolto al presente.
Chi scrive – alla chiusura del sipario su questo Zio Vanja messo in scena per il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale dalla giovane regista ungherese Kriszta Székely, aiutata nel fragoroso sconquasso da Ármin Szabò-Székely, quasi quarantenne, nome di punta del teatro europeo e una delle anime del teatro Katona di Budapest – ha conservato dei forti sospetti. Non certo su quell’acquario (una semplice cucina con tavolo e sei sedie, un frigorifero e un pianoforte, ci entreranno tante bottiglie e un pc), su quella camera della tortura, su quel trasparente parallelepipedo (la scena porta la firma di Renàtò Cseh) che imprigiona e soffoca più che significativamente i vari personaggi (e quella boccata d’aria, negli intervalli al termine di una scena, che si godono sulle sedie messe a lato del palcoscenico, accresce quel senso di ricercata e ritrovata libertà) o sull’eccellente gioco di luci ed acustico (metallico, innaturale, sghembo) proposto rispettivamente da Pasquale Mari e Claudio Tortorici come non certo sui costumi moderni. I sospetti nascono dallo svolgimento fuorviato dell’impalcatura drammaturgica, dalle intromissioni, dalle esasperazioni e dagli accanimenti di alcuni comportamenti, dal linguaggio e dall’erotismo messa in bella mostra, dalla nuova costruzione di dialoghi capaci persino di mettere in ombra o di cancellare quello spinoso tappeto di mala esistenza che percorre tutto quanto il testo cecoviano.
Che mantiene, per carità di dio, il proprio svolgimento, racchiuso tra i rumori della campagna nella calura estiva e l’infelice e rassegnato – ma allo stesso tempo detto da chi guarda ad un certo futuro – monologo finale di Sonia (“Bisogna vivere! Noi vivremo, zio Vanja, vivremo una lunga sequela di giorni, di interminabili sere”), abituata da sempre ad amministrare la tenuta con l’aiuto dello zio, nell’opaco della propria esistenza (“lo spazio dei desideri è occupato dalla meschinità spietata del quotidiano e dalla memoria delle occasioni perdute”, spiega la regista e vale per tutti): allineando momento dopo momento l’arrivo di Serebrjakov, professore in pensione ed emblema di mediocrità, con la sua seconda moglie, Elena, affascinante agli occhi di ogni maschio che circoli per casa, la passione di Vanja e le sue speranze ormai da tempo crollate, la notte di lui e di Astrov, il medico di famiglia, tra cameratismo e forti ubriacature, il bacio di Astrov a Elena e Vanja che li scorge, la decisione di vendere la tenuta ed i colpi di pistola, la vita che si riassesta nel torpore e nell’infelicità di sempre.
Che ha fatto allora la giovane, ardita Székely? Ha fatto di Serebrjakov un presuntuoso e vuoto regista di film votati al fallimento, e la disfatta personale che si riversa sulla famiglia e i dialoghi sono derivati dal mondo della celluloide; ha fatto di Vanja non soltanto un avvilito e un vinto ma un molestatore seriale ai danni della malmaritata Elena, di Astrov un bellimbusto dichiarato, anche lui con i suoi inarrestabili pruriti, che se già Cecov ne faceva un campione d’ecologia adesso s’avvicina allo spettatore per (Greta docet) intrattenerlo assai più del dovuto sul riscaldamento globale, sul depauperamento delle coste nei decenni a venire, con quelle di Malta che perderanno il 24% e con le greche che saranno assottigliate del 16%; ha annacquato la notte di bisboccia con il vecchio Teleghin a sbraitare in un ridotto slip e ha fatto di una riunione di famiglia per chiarirsi le idee una furiosa riunione di condominio dove si fronteggiano quelli che mai hanno pagato gli affitti e quanti da sempre si sobbarcano ogni spesa. Incursioni spropositate, stravolgimenti fuori misura. Ad inseguire debordanti personalismi, riletture del tutto in bilico. Allora l’attenzione va pressoché completa agli attori, a Paolo Pierobon soprattutto e a Ivano Marescotti, legati a nodo doppio con le direttive della Székely ma capaci di rendere robustamente e in prima persona i loro personaggi, di Vanja e di Serebrjakov. Come da sempre mi è piaciuta Beatrice Vecchione, con la sua Sonia più abituata a fare e a dirigere che non a guardarsi vivere. Con loro Lucrezia Guidone, Ivan Alovisio, Ariella Reggio che nemmeno le tempeste riuscirebbero a smuovere dalla venerazione per il genero fallito, Franco Ravera e Federica Fabiani, per gli applausi di un pubblico tra l’attento e il disorientato.
Elio Rabbione
(foto Andrea Macchia)
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