I matti esistono!

C’erano una volta i matti
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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8 I matti esistono!
La stampa italiana svolse un ruolo decisivo nella denuncia delle disumane condizioni in cui si trovavano le persone recluse nei manicomi. Grandi firme del giornalismo si schierarono contro tali orrori: Indro Montanelli, Dacia Maraini, Carlo Casalegno, Natalia Aspesi, Camilla Cederna. Anche oltre confini intellettuali di spicco si sentirono obbligati a inserirsi nella lotta, come Jean-Paul Sartre e Noam Chomsky, perfino il “The Times”, nel 1965, pubblicò un articolo dettagliato sulle drammatiche condizioni dei manicomi italiani, il pezzo era firmato Peter Nichols. Lo scandalo stava piano piano venendo fuori, ma ci volle l’inchiesta di Angelo Del Boca per infastidire la coscienza reticente dell’opinione pubblica. Il giornalista, storico e scrittore, scrisse un servizio sulla “Gazzetta del Popolo” fra l’aprile e il giugno 1966 dal titolo emblematico “Manicomi come lager. Centomila ostaggi da liberare”, in cui, con pungente sarcasmo, invitava i connazionali “generosamente commossi alla fame dell’India a prendere coscienza del dramma dei manicomi a casa nostra”. L’inchiesta-choc viene pubblicata anche su altri giornali, e non si può più far finta di niente. Anche la televisione interviene insinuandosi tra i gelidi corridoi dei manicomi; il reportage più significativo è quello realizzato il 3 gennaio del 1969 da Sergio Zavoli, dal titolo “I giardini di Abele”, all’interno del programma TV7, in onda subito dopo il Carosello, girato nel manicomio di Gorizia. La telecamera fa in modo che nelle case degli italiani si proiettino immagini terribili di uomini e donne fantasma, facce svuotate, spettri che si aggirano per cortili spogli e sporchi, infagottati in abiti grotteschi, la TV fa vedere uomini che legano altri uomini, mani che stringono mazzi di chiavi che serrano improvvisamente porte e finestre. Il servizio è commentato dalla stessa voce di Sergio Zavoli che dice: “si è detto che gli alienati vengono trattati più duramente degli altri ammalati perché sono uomini senza difesa e quindi senza voce e senza diritti. Che nel mondo dei sofferenti equivalgono ai negri, agli indigeni, agli apolidi, ai sottoproletari, agli ebrei e come tali sono spesso vittime di pregiudizi e privazioni”. Le parole del giornalista suonano come un’accusa collettiva e vergognosa, dalla quale è difficile difendersi. Anche la fotografia si fa portavoce dell’ingiustizia, Gianni Berengo Gardin, Carla Cerati, Uliano Lucas, Ferdinando Scianna e molti altri fotografi realizzano reportage-choc all’interno dei manicomi, scavalcando mura che parevano insormontabili e mostrando situazioni che non dovevano essere mostrate. Tra le tante ignobili condizioni che vengono scoperchiate c’è anche quella di via Gulio. Nell’anno 1965 “La Stampa” pubblica un articolo su quello che accadeva all’ “albergo dei tre pini”: “Il manicomio di via Giulio è un obbrobrio indegno degli uomini e della civiltà. È incredibile che in una città come Torino che si ritiene all’avanguardia del progresso e in una provincia come la nostra, che vanta antiche tradizioni in campo assistenziale e sociale, sia tollerata la presenza di un’opera che era già inadeguata cent’anni fa. La sede di via Giulio è un’accozzaglia di letti, distanti una spanna l’uno dall’altro, dove c’è posto per 600 persone e le ospiti sono 900. Dove si respira un lezzo insopportabile, dove la luce piove nelle camerate, in cui le pazze sostano tutto il giorno per mangiare e per vivere, da lucernari a mezza luna che non consentono il ricambio dell’aria. Dove i 30 uomini addetti ai servizi comuni dell’ospedale –pazzi tranquilli ma comunque malati- sono costretti a dormire nei seminterrati tra gli scarafaggi.” La gente fuori si trovava costretta a sbarrare gli occhi per vedere cosa accadeva dentro quelle mura che censuravano una realtà troppo scomoda anche solo da immaginare.  Anche la situazione a Collegno era disastrosa: “Il manicomio è tutto da rifare o da demolire. Per la sua struttura è addirittura impensabile di potervi praticare la psicoterapia o la socioterapia. Ci sono sezioni con 150 pazienti. Sezioni piene di vecchi che avrebbero bisogno solo di un’assistenza generica, ma che nessuno li vuole e finiscono qui. Ne vediamo a centinaia, distesi sui loro letti oppure sulle panche in giardino. Sono tranquilli, rassegnati, silenziosi. Nessuno si occupa più di loro. Per la società non rappresentano che alcune modiche rette da pagare, un mazzo di “fiches” in questura, alcuni mendicanti “molesti” di meno per le strade. Qualcuno di loro, però, ogni tanto si ribella e trova, per esprimere la sua protesta, energie impensabili. È il caso del vecchio che troviamo legato al letto, polsi e caviglie chiusi nei ceppi. È un grande vecchio, magro ma dotato di una ossatura imponente, i capelli ancora scuri, gli occhi che ci fissano adirati. L’infermiere sostiene che è “violento, e che spesso picchia i compagni.” All’epoca i manicomi di Collegno, Torino, Grugliasco e Savonera rinchiudevano tra le loro mura malati di mente e semplici emarginati, uomini e donne senza voce e senza difese, scaricati dalla società come zavorra e nella più totale indifferenza. Per la maggior parte erano anziani, allontanati dalle famiglie, rifiutati dalle case di riposo perché non più autosufficienti, una volta stavano al Cottolengo poi presero ad affollare i manicomi. Gli anni Sessanta videro l’immigrazione di massa dovuta all’ irrefrenabile processo di crescita dell’industria automobilistica FIAT e in particolare Torino era diventata una metropoli di oltre un milione di abitanti. Nelle fabbriche vi erano decine di migliaia di operai immigrati dal Sud, in gran parte ex contadini usciti malamente dallo scontro con la civiltà industriale; i dipendenti erano più lavoratori-macchine che semplici addetti alle linee di montaggio. I ritmi di lavoro uniti al disagio di ambientamento avevano fatto sì che nel 1965, 1579 lavoratori venissero internati nei manicomi torinesi, di questi il 37% erano operai, il 28% casalinghe, il 9% agricoltori e il 3% professionisti. Questo tipo di alienazione portò tra il 1957 e 1970 a 33 suicidi per impiccagione. Il fatto venne così commentato da un paziente :” (…) comunque, 33 impiccati in 13 anni! Ha fatto concorrenza al Rondò della Forca in tutta la storia del Rondò della Forca.”

Alessia Cagnotto

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