Un colpo di pistola al termine di amori e illusioni

È la piccola distesa del lago – nella scena firmata da Catherine Rankl per il Teatro Nazionale di Genova e in scena al Carignano nel cartellone dello Stabile di Torino – Teatro Nazionale sino a domenica 24 -, con la sua stanca immobilità, perennemente eguale, quotidiana, eterna nelle settimane e nelle stagioni (“è colpa del lago, fa gli incantesimi”, dice un personaggio), a raccogliere le vicende della casa di Irina Arkadina, a divenire il grumo più o meno vitale attorno a cui quasi intrappolare chi vi abita e chi vi soggiorna temporaneamente, ad occupare totalmente nei primi due atti di questo Gabbiano cechoviano il palcoscenico per non abbandonarlo neppure negli altri due, sotto le luci teatrali ben in vista, ancora sullo sfondo e a lato, con i sentieri e le passerelle che lo circondano, con i suoi vasti panorami centrati sul sole o sulla luna. È il luogo, nella simbologia del titolo, dove la spensierata felicità di un gabbiano viene all’improvviso, senza un perché, annientata dall’indifferenza di un cacciatore e dove Nina, una giovane ragazza con il suo sogno sempre cullato di diventare una grande attrice, s’invischia nella passione per Trigorin – il grande scrittore di successo e di quel successo innamorato, vanesio, felice se il pubblico parla bene di lui, magari già pronto alle piccole critiche (“non è Turgeniev”) e infelice a suo modo – che per un attimo la sottrae alla noia della campagna, in un inseguirsi di amore e di fatalità, la spinge sui palcoscenici e verso il successo, le dà un figlio e l’abbandona verso quella consapevole distruzione che la riporta alla noia e al sogno di sempre.

Amore e arte sulle rive di quel lago. Mentre si intrecciano dialoghi vuoti, mentre “tutti filosofeggiano”, mentre si costruiscono azioni e parole, infelicità e speranze, il giovane Konstantin vi prepara il suo spettacolo, che ha offerto all’arte di Nina che ama, uno spettacolo diverso, innovativo per gli occhi della madre Irina, per la sua idea antica e senza uscite di teatro, che lo irride e lo distrugge, nella ricerca del consenso di Trigorin, suo amante. Un girotondo d’amore, con i sospiri e le ribellioni, gli innamoramenti e le sconfitte, i turbamenti angosciosi che invadono tanti dei personaggi di Cechov e il loro mal di vivere, campioni di una vita vissuta per necessità, un’altalena di affetti e delusioni e di rimpianti che si riverserà negli anni successivi nel mondo di Zio Vavia, nell’abbattimento del Giardino, nel grido di evasione delle Tre sorelle. L’amore che appiana ogni cosa, il successo e la comprensione, la felicità trovata o ritrovata in un attimo immediatamente distrutte, la sarabanda delle illusioni che travolge tutto e tutti, sino a che un colpo di pistola finale, solitario mentre di là tutti sono impegnati tra le risate in un gioco a carte, conclude ogni cosa. Dal lago della monotonia al colpo secco di Konstantin: di qui – il primo dei capolavori che lo scrittore russo scrisse per il palcoscenico data 1895 (e il regista, nella traduzione di Danilo Macrì, ha scelto quella versione, prima che la censura zarista non s’affacciasse con i suoi interventi) – inizia tanta strada dell’Uomo del Novecento, prendono forma le grandi tragedie, da quel colpo di pistola ci si avvia verso quella lunga crisi esistenziale che tanta parte avrà nel teatro del secolo successivo, si concretizza il nulla dell’uomo e i suoi fallimenti personali e storici, i fermenti sociali (il maestro che narra dei poveri disperati e del furto del sacco di farina), le attese e le lande sconfinate beckettiane, i rapporti immaturi e rabbiosi tra le differenti generazioni (la scena a due tra Irina e Konstantin, dopo il primo tentativo di suicidio), il disagio giovanile e le sconnessioni familiari, gli amori senza amore che hanno fatto anche tanta letteratura e tanto cinema (Maša e la sua unione con il maestro), le idee indecifrabili e insormontabili tra la vita e l’arte, la generale mancanza di ideali, lo smarrimento che avvolge senza remissione ogni individuo.Getta tutti questi ponti verso la nostra epoca Marco Sciaccaluga, con il grande merito di non renderci un dramma vecchio stile ma con l’accorta signorilità di lavorare su una base di strana leggerezza, fin dove gli è possibile, scavando nei caratteri e lasciandone trasparire anche il sorriso, affrontando il tragico in punta di piedi. Non è una leggerezza che si vuole risparmiare gli angoli bui, è qualcosa di giusto e doveroso al servizio di un testo che non ci si stanca mai di vedere e ascoltare. Un testo che coinvolge una decina di ruoli e tutti i ruoli, anche il più piccolo, esige e merita perfetta immedesimazione. Ci riesce Elisabetta Pozzi, non (ri)facendo la grande diva del passato, non troppo poseuse, e sfruttando appieno, con grande autorevolezza d’attrice, i momenti materni; ci riescono i giovani, Francesco Sferrazza Papa come giovanissimo poeta in primo luogo che esprime appieno, in maniera davvero moderna, il proprio personaggio, con la sua passione e la sua intransigenza, il desiderio spasmodico della ragazza amata coniugato con un innocente candore, e Alice Arcuri che, se all’inizio bamboleggia un po’ in quell’irrefrenabile desiderio di salire in palcoscenico, trova presto gli accenti giusti nella passione per Trigorin, ben lontana da smaccate civetterie, e riempie con grande bravura l’ultimo atto con il ritorno a casa della sua Nina. In Stefano Santospago, come Trigorin, affascina la consapevolezza del fallimento ma forse rimane in gran parte inespressa la malinconia e il lasciarsi vivere di cui è vittima anche quel personaggio. Dalla Maša di Eva Cambiale, uno dei più bei personaggi “minori” di Cechov ci si sarebbe aspettato qualcosa in più, nella disperazione come nell’accettazione della propria vuoto esistenza. Con loro, per una serata di vivissimo successo, Federico Vanni, Roberto Alinglieri, Elsa Bossi, Roberto Serpi (perfetto medico Dorn) e Andrea Nicolini, anche autore delle musiche, felicemente sospese sui poveri personaggi cechoviani.

 

Elio Rabbione

 

Le foto dello spettacolo sono di Giuseppe Maritati

 

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