Una madre e un figlio, l’ultima confessione

Precocissimo autore teatrale, avvocato che presto gira le spalle alla professione per dedicarsi alla scrittura e al palcoscenico, direttore artistico per differenti realtà teatrali, Furio Bordon chiude oggi con Un momento difficile un progetto drammaturgico tratto dalle pagine di “Stanze di famiglia” (edito da Garzanti) e dedicato alla vecchiaia, ai ricordi, all’accettazione o no di uno stato della vita, il cui punto di partenza fu nel ’95 quelle Ultime lune (La notte dell’angelo il secondo momento) con cui Mastroianni si congedò dal suo pubblico (sarebbe scomparso l’anno successivo) e che pochi anni dopo ancora Gianrico Tedeschi avrebbe portato al successo, testo fortunato che in questa stessa stagione è affidato alle cure interpretative di Andrea Giordana.  Non è facile parlare della morte su di una scena, degli addii, degli ultimi istanti di una vita, senza facilmente cadere nella retorica, nella facilità dei sentimenti, nella banalità del già detto troppe volte. Non c’è soltanto l’abbandonarsi di una persona sul letto di morte, quasi del tutto inconsapevole con quella testa che non c’è più, c’è soprattutto il ricordo e i rimpianti di chi le siede ancora accanto, di chi finora l’ha accudita, e continua ad accudirla in quegli ultimi istanti, pur di non affidarla ad una struttura esterna. È il rito della quotidianità, con i bisogni di un corpo sfatto e non più governabile, ci sono le creme da passare sulle gambe, le mutande da riporre nel cassetto del comò (di questa camera da letto inventata da Alessandro Chiti), le pisciate e i pannoloni di cui non si può mai fare a meno, le solite domande ripetute all’ossessione cui rispondere e le risposte presto dimenticate. Una pagina scritta che diventa un pezzo di vita per molti degli spettatori. C’è una madre che muore e c’è un figlio che per l’intera vita ha odiato e amato sua madre e continua a vivere. Bordon, con una scelta che porta ad un eccessivo scompenso narrativo, privilegia il passato e accantona troppo il presente, mettendo per difetto in un angolo la madre anziana, cui un’attrice come Ariella Reggio offre più accenni di simpatia che dolori (dis)umani, non dandole certo le occasioni per una bravura che da sempre le conosciamo. A spostare l’ago narrativo entrano fin da subito tra le pareti di casa la sbiadita figura del padre (Francesco Foti) e soprattutto quella materna (Debora Bernardi, quasi lei a padroneggiare la scena per l’intera serata), bella, gran narratrice, spavalda all’eccesso nel rivendicare un’esistenza di errori, di scelte sbagliate, di rimproveri e di sfacciataggine, di tradimenti, ma pure alla ricerca di un (vicendevole) riavvicinamento.

Entrambi ripresi in età giovanile a ricordare, a ricostruire. Attimi dolorosi e ricordi che possono anche portare ad un sorriso. È un’ultima lotta tra “Tu”, il protagonista senza nome, e la madre, un accumularsi di difficoltà e della necessità di chiarirsi, di andare a fondo per riscoprire i perché di un’intera esistenza, è un dialogo conclusivo (ma arriva ancora un sottofinale disturbante, marionettistico e fuori luogo che la regia di Giovanni Anfuso mescola di luci e di suoni) di chi poco a poco scivola dall’essere figlio alla condizione di orfano, con la ferma consapevolezza che soltanto adesso è arrivato un grande senso di vuoto, che è quello il momento difficile. Coprodotto dallo Stabile di Catania e da quello del Friuli Venezia Giulia, Un momento difficile è vivaddio una novità italiana, che raramente ci è dato vedere sui nostri palcoscenici, e questo è un suo gran merito. E ha al suo centro un eccellente interprete, un Massimo Dapporto in vero stato di grazia, chiamato e richiamato con i suoi compagni alla prima dell’Erba (le recite, per il cartellone della Grande Prosa, terminano domani) per gli applausi di un pubblico numeroso e convinto. Ha costruito un personaggio vero, tangibile e pieno di memorie, autentico nelle sue disperazioni e nella voglia di recuperare un’esistenza, sincero in ogni sua piega, commosso e commovente, magari padrone di andare a frugare nelle pieghe del proprio passato e di scovarvi qualcosa che suoni bene a rivestire il suo “Tu”. E nella sua grande sincerità, sono pieghe che fa riscoprire a noi.

Elio Rabbione

 

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