Violenza: necessità o volontà di scelta?

Nelle commemorazioni come questa, uniche, spesso ci chiediamo come sia stato possibile perpetrare tanto orrore, come sia possibile che l’animo umano sia in grado di fagocitare i propri simili attraverso una ferocia indicibile e faticosa da raccontare e ricordare. Si resta quasi senza fiato di fronte allo sterminio di esseri viventi, ma non si può restare senza memoria di ciò, senza ricordo. Perché è necessario, vitale, raccontare i violenti sbagli dell’umanità. E come mai accadono certi eventi? Da cosa nasce una così tale espressione di violenza? Cosa porta l’uomo a generare scelte atroci e sanguinarie? Impossibile trovare giustificazioni a ciò, ma un Dovere tentare di capire le origini di tanto male. Perché diventiamo cattivi? Dal punto di vista bio-psico-sociale, per istinto di sopravvivenza, tendiamo innatamente a difenderci, ma anche ad attaccare, ad invadere. Esempio è l’era in cui viviamo dove, nonostante le risorse a disposizione e per quanto sia evoluta la tecnologia, potremmo vivere senza “lavorare” ed invece facciamo la guerra. E’ l’uomo biologicamente e fisiologicamente predisposto al predominio su una scala gerarchica. Non è una scusa né una giustificazione, è la storia che lo racconta e seppur la storia, solitamente è declamata solo da chi vince, è indiscutibile il fatto che l’atteggiamento dell’uomo viene a sfociare in comportamenti aggressivi da sempre. La violenza ne è la conseguenza primaria, questo sia nell’uomo sia nella donna. Una violenza che assume con disinvoltura i colori sia blu che rosa. Dal generale concetto di istinto di sopravvivenza al particolare individuo che uccide per gelosia o perché non accetta l’abbandono o ipotizza consciamente, mettendolo in pratica, l’alienazione e la cancellazione di un’altra persona diversa da lui per cultura, identità sociale o territoriale. Dunque scelta di coscienza? libertà di farlo?, licenza di uccidere?, costrizione per difesa o follia mentale? Ci sarebbero un’infinità di possibili combinazioni ed esempi da elencare che porterebbero l’uno a sconfessare l’altro. Dal punto di vista umano e psicologico dobbiamo affermare che nessuno merita di subire violenza. Partendo, ad esempio, dall’ormai noto e sempre da incriminare fenomeno del bullismo, passando per il motore primario di defezione dell’umanità, cioè la guerra, tramite la quale l’essere umano stabilisce gerarchicamente e arbitrariamente la divisione delle ricchezze dell’intero pianeta, seguendo appunto la logica di prepotenza condita da violenza assolutamente estrema, con la conseguente distruzione di massa al limite del pianificato. Infiltrandoci poi in tutti gli episodi più comuni e quotidiani di mobbing lavorativo e stalking privato, fino ad arrivare al cyber bullismo e alla violenza globale nel web. Siamo paradossalmente inventori di progresso e, allo stesso tempo, sanguisughe e carnefici delle nostre esigenze , debolezze e fragilità.

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Violenza sessuale, psicologica, fisica, virtuale e mentale, annientamento della dignità di un altro essere vivente, umiliazione per il solo fatto di esistere: rappresentano tutto ciò che l’uomo riesce ad immaginare ed a mettere in pratica, poiché atteggiamenti che sfociano nella sopraffazione dell’altro sorgono là dove il vuoto, ciò che è mancato, è stato riempito da rabbia, che altro non è che lo specchio della nostra tristezza. Quindi la tristezza fa diventare violenti? cattivi? Anche, ma non basta. Quando un omicidio viene generato e prolungato diventando strage, da una singola vita a più di sei milioni, dobbiamo parlare di collasso mentale ed emotivo, generato da sì stati emotivi incontrollati, nati da mancanze subite o che riteniamo tali, ma accompagnati da solitudine culturale, mancanza di educazione e sostegno civile, aridità emotive, sommate nel tempo, e completa inadeguatezza intima verso se stessi e verso gli altri. I “Mostri” i serial – killer, hanno tutti un’origine, ma non nascono tali. Non si nasce pluriomicidi. Nella pancia della mamma nessuno viene addestrato alla strage. Nascono da qualcosa e da qualcuno dopo, quando vengono al mondo ed entrano in contatto con altre coscienze già formate. Ed è una catena difficile da spezzare. Sembra quasi che la possibilità di diventare persone “pericolose” dipenda dal luogo in cui nasci e da chi si occupa di te. In parte è così, il resto poi ce lo mette a disposizione l’inclinazione genetica di cui siamo fatti. La prima regola, matrice della vita nel sistema natura, è la sopravvivenza. Se veniamo a contatto con pensieri che ci mostrano come qualcuno o qualcosa possa opporsi alla nostra qualità o quantità di vita inizieremo a pensare che quello è il nostro male, quello è il nostro nemico e lo tratteremo in quanto tale, generando dentro di noi una coscienza atta a concepire pensieri di ribellione verso ciò che è stato raccontato come pericolo alla nostra sopravvivenza. Nazismo, razzismo, serialità omicida, possiamo chiamarli come vogliamo, anche cambiargli di nome, restano comunque atti di violenza pura che sorgono laddove non c’è racconto di umanità. E sono stati tanti, e lo sono tutt’ora, i luoghi nel mondo in cui non sono contemplati la parola umanità e rispetto di essa e della vita che comporta. Tanti luoghi, tante Nazioni, tanti paesi e tante famiglie in cui non esiste e non viene raccontato, ne’ preso come valore, il rispetto dell’altro come “vita”. Per arrivare ai giorni di commemorazione di atroci passati storici si passa dai piccoli gesti di violenza individuale, familiare, domestica, sociale di quello che è stato o è il vivere quotidiano. Inizia tutto con lo scaricare le proprie angosce e frustrazioni, facendo male all’altro, proiettandole sull’altro perché non in grado di elaborarle interiormente. Il corpo umano è una macchina che va allenata a vivere, niente è già memorizzato, se non l’istinto di sopravvivenza, che vede nella relazione con l’altro il proseguo della specie tramite accoppiamento, ma vede anche la violenza come elemento per salvarsi. Dunque bisogna allenarsi allo stesso modo sia nel volersi bene sia a gestire le proprie capacità di espressione rabbiosa, senza darle per scontate con la famosa frase “sono un tipo tranquillo” oppure “era una persona perbene”.

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Esistono le persone, esistiamo noi e la nostra capacità individuale di fare scelte accanto ad altre persone uguali o diverse da noi, non cambia, la vita è vita sempre, quindi impossibile giustificare l’atto violento, la forzatura verso l’altro, perché non ci sono scusanti all’atrocità e all’infliggere sofferenza fisica ed emotiva per scaricare le nostre angosce. Sia uomini che donne sono in grado, se provano, ad infliggere sofferenza all’altro, dipende sempre dalle scelte che si fanno. Si può sbagliare anche soffrendo o per troppa sofferenza passata o presente, ma si deve imparare da ciò,trarre qualcosa di utile per il nostro animo, altrimenti la strada è già definita. Guerra per guerra, vendetta per vendetta, morte per morte, cosa resterà? Per sopravvivenza e consumo finì lentamente l’essere umano. Dobbiamo prendere coscienza e consapevolezza del nostro intimo e biologico ardore, prima ancora di prendere responsabilità del nostro agito. Pesa sicuramente, peserà di più piuttosto che proiettare tutto con ingiustizie esterne che, seppur possano vestirsi di verità, non faranno mai parte di un atteggiamento sano ma anzi, lasciate come motore principale di ciò che sta per accadere per mezzo delle nostre mani, non salverà mai e non fermerà mai un braccio teso, armato, un’intimidazione psicologica, un abuso sessuale, un ricatto morale, uno sterminio di massa. Educazione, rispetto, studio, sana accettazione culturale, civiltà, regole, confini sani quei valori che dovremmo provare a ricostruire dove mancano e a salvaguardare dove esistono poiché l’unica certezza, se la pena non è certa, è che violenza senza controllo porta alla fine di una storia. La nostra storia. Possiamo riferire che l’altro non lo fa, che non ci rispetta e quindi perché farlo noi per primi. Possiamo raccontarci che, se non teniamo la guardia alta, saremo violentati da chiunque. Sì, possiamo farlo ma non migliorerà le cose, anzi. È necessario riscoprire uno stato di coscienza sano, funzionale alla vita che chiede aiuto piuttosto che farsi giustizia da solo. Serve una cultura del sostegno, della possibilità di aprirsi e raccontare a qualcuno il nostro disagio. Serve una cultura di umana sostenibilità reciproca, in cui chiedere aiuto diventi un atto di volontà coraggiosa e non un mero gesto di omertà o paura emotiva. Serve la cultura dell’accoglienza e dell’amore del diverso come arricchimento e non come limite. Serve rispettare la vita come indice primario di cultura del vivere. Servono “sguardi diversi”, con cui guardarsi nel mondo, e non è detto che non possiamo trovarli.

Davide Berardi

 

*Dott. Davide Berardi,

Psicologo – Psicoterapeuta,

Psicologo, Psicoterapeuta ad Indirizzo Relazionale Sistemico, Docente Corsi di Accompagnamento al parto, Psicologo della riabilitazione e del sostegno nella terapia individuale e familiare, Terapeuta del coraggio emotivo.

Mail: davide_berardi_78@yahoo.it      

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