Un sogno, all’inizio: “Vidi in esso un cortile profondo e senza uscita, e da questa immagine paurosa nacque Così è (se vi pare)”, confessò un giorno Luigi Pirandello
Un’immagine che, prima della “parabola in tre atti”, avrebbe avuto il suo primo svolgimento in La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, la novella che dava un nome, Valdana, al luogo della vicenda e che affidava al solo genere femminile quell’ansia di sapere, di interrogare, di arrivare finalmente ad una verità inarrivabile. Poi – nell’aprile del 1917 – l’autore confidava al figlio Stefano, prigioniero in mano agli austriaci, di aver dato al palcoscenico (andrà in scena due mesi dopo) una nuova commedia, con il confronto non secondario con le teorie freudiane e con la vita familiare che in quegli anni ruotava attorno alla pazzia e al definitivo ricovero della moglie Antonietta Portulano. È composta da tanti preamboli questa “parabola”, in incastri geometrici, che osserva freddamente e con passione allo stesso tempo un più anonimo “capoluogo di provincia” in cui s’installano, sfuggiti a quel terremoto che distrusse un secolo fa la Marsica con un peso di oltre trenta mila vittime, il nuovo segretario prefettizio Ponza, la suocera e la moglie del Ponza, mai vista quest’ultima da nessuno nei primi mesi di permanenza: affermando i primi due, sotto il pungolo della curiosità del paese – e chiusi anch’essi in quella “stanza della tortura” che lega personaggi e situazioni del teatro pirandelliano -, di tener segregata la moglie in casa (dice lui) e di vietarle di vedere, se non di lontano, la madre, perché quella giovane donna altri non è che la sua seconda moglie mentre la vecchia, impazzita, la crede sua figlia, quando al contrario, in una incomparabile protezione per il genero, sostiene lei, sua figlia è viva e il pazzo è Ponza che la crede morta, sottrattagli in un primo tempo “per soverchio amore” e ricoverata in una casa di salute, da cui ritornò, dovendosi allora simulare un secondo matrimonio per farla accettare a lui. Al centro il raisonneur Laudisi, che ha i tratti di Pirandello, con i suoi spiazzamenti, con le risate a far da firma ai tre atti e gli sberleffi, con l’affermare e il negare, con il suo continuo prendersi gioco di tutto e di tutti. Mentre un intero paese attende di conoscere la verità. Anche l’esistenza teatrale, sul versante pirandelliano, di Filippo Dini, nato in scuola genovese, recalcitrante metteur en scène di questo Così è (se vi pare) – il suo primo – tra le produzioni della stagione dello Stabile torinese (lunga tenitura, fino al 6 gennaio al Carignano), è punteggiata di preamboli. Un confessato “sguardo snob” nei confronti dell’autore, come tanti altri nomi della sua generazione (di quarantenni avanzati), di una lingua “vecchia e insopportabile” e “che ci ha soltanto annoiato”, di trame contorte e di pistolotti e fumisticherie finali che denunciavano tutta la insopportabilità possibile: poi la rivelazione di “segreti pieni di fascino e di novità” (magari sopravvivendo l’insano desiderio di cancellare dal palcoscenico il personaggio “terribile” di Laudisi che guarda ogni cosa dall’alto). E allora Dini scava, nel bene e nel male, vuole andare oltre, senza timori. Non ce lo fa certo trattare come trattarono Pirandello gli spettatori dei Sei personaggi al debutto del Valle se scompone i tre atti in due parti e suggerisce un nuovo ordine cronologico suddiviso in giornate, se abolisce personaggi (secondarissimi), se inserisce panorami e rimandi religiosi sin dal titolo o si riallaccia al surrealismo di Bunuel: guardiamo fin dall’inizio con attenzione e allo stesso tempo con una certa ritrosia la strada che s’è messo a seguire, nella domanda continua di dove andrà a finire. Quando scatta l’intervallo, è chiaro che un certo disappunto esiste e sta per prendere il sopravvento. Guardato come lo spartiacque dello spettacolo, il monologo di Laudisi è ancora dinanzi allo specchio, qui deformato, con un microfono a raccogliere echi e sbavature della voce, il personaggio ritto in piedi, mentre finora lo si è visto su una sedia a rotelle, accudito da un’infermiera. Il tutto è risolto in un sogno (un sogno che credo nessun altro aveva immaginato in precedenza) che per un attimo invade la partitura. Idea difficile da accettare, per un Laudisi assai solido e sempre sul filo del ragionamento, che non appartiene alla tragicità dei “diversi”, di quelli che vengono da lontano e neppure al cicaleccio pettegolo della comunità, all’informazione ad ogni costo. “Un problema alle gambe”, ci suggerisce Dini, forse un malato immaginario, psicanalisi aiutandoci, allargando subito quella instabilità fisica e mentale che alloggia nella casa borghese, nella famiglia. Non soltanto l’eterno sospetto quindi che o il signor Ponza o la signora Frola sia il pazzo – o in opposto il suggerimento ora che quella pietà in cui si sono raccolti e hanno trovato un equilibrio dia loro la patente della “ragione” -, anche i cittadini coltivano quel tarlo: un cameriere (inventato da Dini, tra pulizie e svolazzi, all’occorrenza, coi kleenex, pronto ad abbandonare la casa con il collega come la servitù nell’Angelo sterminatore) o la padrona di casa, che va e viene a suon di bicchierini e pillole, tutti quanti ad essere nel finale quasi schiacciati dalla scenografia di Laura Benzi (quasi un luogo sacrale, una fuga molto bella di stanze e corridoi scamozziani, un intreccio di sguardi multipli, di ti vedo e non ti vedo, quale sia il posto dello spettatore in platea o in un palco, a camuffare ancor di più la precarietà della realtà, l’inesistenza della verità), ridisegnati come gli ospiti di un ospedale psichiatrico. “Oggi”, sottolineerebbe l’autore, la pazzia è altra e altrove, si batterebbe ancora in “una sfida alle sue – (del pubblico) – opinioni e soprattutto alla sua quieta morale”. Un percorso registico difficile da accettare nella sua completezza, una rispettabile “ricostruzione” che a volte stride nelle invenzioni, nelle forzature, nel linguaggio corretto anche da soluzioni nuove, da frammenti di dialogo che in Pirandello non trovereste mai. Dini aggiusta, Dini ricompone. Allora, Dini o l’autore legittimo? Ma un percorso e una rilettura che spingono a cercare immagini, dettagli importanti, soluzioni inattese, a ribaltamenti mai suggeriti cui concorrono le eccellenti interpretazioni di un corposo quanto fragile e disperato Giuseppe Battiston, di Maria Paiato segnata dal dolore e dalla remissione, dello stesso Dini che ritaglia per sé il ruolo di Laudisi, intaccato come s’è detto dal “disordine”. S’adattano con anima e corpo, perfettamente, alle silhouette che il regista ha inventato per loro Nicola Pannelli, Mariangela Granelli, Ilaria Falini e Orietta Notari, a ricevere con i loro compagni gli applausi nelle varie chiamate e anche qualche fischio, assai più timido tuttavia, come ai vecchi tempi.
Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Bepi Caroli; nell’ordine Benedetta Parisi, Maria Paiato e Giuseppe Battiston; Giuseppe Battiston con Nicola Pannelli, Orietta Notari, Ilaria Falini, Dario Iubatti, Filippo Dini e Francesca Agostini; Maria Paiato e Giuseppe Battiston; Filippo Dini e Benedetta Parisi; una scena d’insieme
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