Giansiro e il tesoro dell’isola di San Giulio

Giansiro guardava orgoglioso la sua barca. Sulla chiglia – anche se le lettere erano un po’ sbiadite – si leggeva ancora il nome: “Lampreda IV”. Una gran bella lancia da lago: poco meno di quattro metri tra prua e poppa. Per lui era la vita

Figlio di un pescatore, aveva anche lui il lago nel sangue. Quell’acqua che durante i giorni di tempesta – rari e bellissimi – diventava di un verde ramarro, era anche la chiave dei suoi sogni. E, come gli accadeva da anni, quasi tutte le notti di bel tempo, saliva in barca per guardare le stelle e sognare. Molti anni prima, appena calavano le prime ombre sul lago, mollava gli ormeggi dal porticciolo di Oira e, lentamente, con un ritmico cadenzare, remava al largo, verso l’isola di S. Giulio. Lì, dove le due coste erano solo strisce nere con pochi puntini luminosi, lasciava cadere in acqua le sue reti per poi lasciarsi cullare dalle onde e aspettare – fumando la pipa – che la brezza del mattino lo svegliasse, soffiando via gli astri dal cielo. “Bei tempi, quelli…”, si diceva Giansiro, masticando la pipa e scuotendo lievemente il capo. Ora, con i capelli bianchi e una faccia rugosa scavata dagli anni, quando prendeva il largo non portava più con sé le reti. Di pesce non ce n’era più nemmeno l’ombra. “Colpa di quei maledetti e delle loro fabbriche – imprecava il vecchio – ; ci hanno buttato di tutto nel lago: acidi, solventi, ammoniaca e chissà quante altre schifezze…”. Ora, salendo in barca, pensava solo a sognare. E, con i sogni, correva lontano. Solcava le acque del Cusio, il buon Giansiro, con le vele spiegate del suo immaginario tre alberi, sfruttando ogni piccolo refolo del mergozzolo che soffiava, generoso, dai monti. S’immaginava così, capitano di lungo corso, al timone di un vascello, intento a percorrere il lago d’Orta in lungo e in largo, a caccia di tesori e ricchezze che a volte non sono proprio come s’immaginano, ma si nascondono più facilmente nell’animo degli uomini piuttosto che in solidissimi forzieri. Giansiro sognava, ma i suoi sogni fantastici non li teneva solo per sé. Gli piacevano i bambini. E a loro, nei pomeriggi d’autunno, quando il lago prendeva il colore malinconico delle foglie ingiallite e la scuola era chiusa, raccontava ai suoi piccoli amici le sue avventure. I ragazzini, seduti sulle vecchie sedie di paglia nell’ampia cucina della sua casa sul lago, lo ascoltavano a bocca aperta, rapiti. Tra le storie che suscitavano maggior interesse c’era quella di Norberto Lanfranchi, conte di Brolo, diventato pirata alla ricerca del tesoro dell’isola di S. Giulio. Giansiro, a richiesta, avviava la narrazione con voce calma e profonda.“Erano i tempi in cui Norberto aveva fissato la sua dimora sull’altra sponda del lago, tra lmolo e Gozzano, dentro le mura della Torre di Buccione, una fortezza che saliva alta verso il cielo.  Da lassù, nelle giornate serene, il suo sguardo si perdeva sul lago e sui monti che lo circondano. Il conte, scacciato dai signori di Nonio – il Duca Filippo De Lampis e suo fratello Gedeone – si era ripromesso terribili vendette e da signorotto abituato a cavalcare sulle sue terre e oziare, aveva cambiato vita, diventando un pirata”. Purtroppo, per triste che fosse, era quella una consuetudine assai diffusa in quel tempo, soprattutto sul Lago Maggiore dove i pirati Mazzarditi dei castelli di Cannero avevano – tanto per fare un esempio – dettato legge sulle coste lombarde, piemontesi e persino svizzere per molti anni.  “Norberto , nottetempo, con la sua ciurma arruolata nei paesi vicini, scivolava come un’ombra tra i paesi, compiendo saccheggi e rapine”, raccontava Giansiro. “ La sua fama incuteva terrore. L’eco di queste gesta  ben presto valicò il Mottarone, lambendo le sponde del Maggiore e salendo su per le valli ossolane, fin dentro i casolari di montagna. Norberto, incattivito dall’avidità, desiderava possedere sempre di più. E nei paesi, tra artigiani e pescatori, quel di più era quasi impossibile da trovare. Fu così che decise, dopo aver ascoltato il racconto di un viandante, di dare la caccia al tesoro dell’isola di S. Giulio. Si diceva, infatti, che i frati del Sacromonte che sorgeva alle spalle di Orta avessero raccolto un grande tesoro, celandolo dentro una cripta nascosta sull’isola. Non un tesoro qualsiasi, gli aveva confidato il viandante, ma un forziere colmo di gioie: brillanti, rubini, ori, zaffiri, e monili di ogni fattezza”. Norberto non dormiva la notte; quel tesoro, per lui, era come un incubo. Un desiderio che gli bruciava il corpo e la mente, togliendogli il sonno. In realtà – reputando insicura l’isola – i frati (aiutati da alcuni pescatori del posto) avevano, in una notte senza luna, trasportato il forziere sulla terra ferma. Un viaggio breve, che durò però parecchio tempo. Con lenti movimenti, facendo finta di gettare le reti, due pescatori e una coppia di frati, condussero l’imbarcazione fino alle porte di Omegna,  ormeggiarono a Borca e da lì, su un carro tirato da un grosso bue, salirono verso Agrano. In un paese di poche anime e poche case, a lato della strada che saliva inerpicandosi tra i boschi  verso Armeno e il Mottarone, il tesoro sarebbe stato al sicuro tra le solide mura del vecchio castello di Agrano. “Ma dov’è questo castello? C’è ancora?”, chiese uno dei bambini. Giansiro –  che i più piccoli, un po’ per l’età e un po’ per i capelli bianchi che quasi gli cadevano sugli occhi, chiamavano nonno – interrotto, spiegò subito. “Vedete, quel castello ora non c’è più. Ma vi posso dire dove si trovava. Avete presente il campo da gioco di Agrano?”. “Sì, sì – gridarono in coro i bambini – ; E’ quello dove si gioca al pallone e dove c’è lo scivolo” – disse uno dai capelli rossi e dalle gote cosparse di lentiggini.  “Esatto – rispose Giansiro -, è proprio quello. Ecco vedete, tutti pensavano che tra quelle mura il tesoro fosse al riparo dalle scorrerie di Norberto e dei suoi pirati. Anche perché i contadini non erano armati solo di forconi e bastoni, ma anche di una bella spingarda e di qualche archibugio. Però, e c’è sempre un però, non avevano fatto i conti con l’oste “. Infatti, l’oste della locanda del “Ferro di Cavallo”, una specie di ristoro per i viaggiatori proprio a Borca, aveva visto tutto. Quella notte, soffrendo d’insonnia, era uscito sul balcone per prendere un po’ d’aria quando, proprio lì sotto, passarono i pescatori, i frati e il carro trainato dal bue con sopra il forziere. Insospettitosi, l’oste seguì di nascosto, a una certa distanza, quella silenziosa processione. E, ascoltando da dietro un albero il parlottare sommesso dei frati, scoprì il segreto. L’oste, tornato di corsa verso casa, chiuso l’uscio dietro alle spalle, si precipitò in cucina. Dopo aver bevuto non uno e nemmeno due, ma ben tre (o forse quattro? Mah! ..) boccali di vino, per farsi coraggio, prese il mantello e, una volta sellato il cavallo, partì al galoppo verso la Torre di Buccione. Giansiro continuò il racconto. “ Non si sa se l’oste sciolse la lingua – spifferando a Norberto tutto quanto aveva visto – per paura delle scorrerie del pirata o dietro il miraggio di un lauto compenso. E non si sa nemmeno se Norberto ricompensò in moneta sonante l’oste impaurito e chiacchierone. E’ certo, in ogni caso, che quella locanda – con i suoi letti, il suo vino e il nostro oste – rimase aperta per molti anni ancora. Ma torniamo al nostro Conte di Brolo che, appena appresa la notizia, iniziò a camminare in lungo e in largo per la sua stanza, tormentandosi la barbetta nera che gli incorniciava il volto. Come arrivare ad Agrano? Passando per la strada costiera, no di certo: era fin troppo facile essere avvistati. Non restava che una via: il lago. Certo, era una buona idea. Bastava attendere una notte piovosa, di quelle in cui nessuno caccia il naso fuori di casa e, voilà, il gioco era fatto. Salire fino ad Agrano sarebbe stato il meno”. E così fece. Due giorni dopo sulla zona del lago pioveva a dirotto. Con la sua ciurma, Norberto si imbarcò sulla “Anguilla nera”, la sua nave da scorreria. In un battibaleno raggiunse Borca e, lasciata l’imbarcazione alla fonda, salì, alla testa di un manipolo di uomini decisi a tutto, la strada di montagna. Fu per caso che Giovanni Buonanima, un pastore che viveva proprio ad Agrano, vide quella torva masnada salire i tornanti. Gli era scappata una pecora dall’ovile e, mentre cercava di recuperare la sua Bianchina, si arrestò di colpo, dietro un cespuglio. Cento metri (la distanza è approssimativa, data l’ora e il tempo da lupi) più sotto, una trentina di persone avvolte in lunghi mantelli neri come la pece, saliva di buon passo. Non erano certo dei pellegrini che andavano al Santuario della Madonna di Luciago, pensò Giovanni, con il cuore in gola. E corse via, con le gambe in spalla, verso il paese. Il racconto di Giansiro lasciava i ragazzini a bocca aperta. “Giovanni conosceva due o tre scorciatoie che gli risparmiarono un bel pezzo di strada e quando arrivò alle porte di Agrano avvertì i due contadini che erano di sentinella, uno con in mano una falce e l’altro armato di un archibugio più grande di lui. Quando anche Norberto fu in vista di Agrano, non tardò a capire che era già pronto il “comitato di benvenuto”. La strada, sbarrata da un carro di fieno messo lì di traverso e quelle fiaccole che illuminavano i volti arcigni e segnati dalla fatica del lavoro nei campi. I loro sguardi valevano più di ogni discorso. Sfumata la possibilità di agire con il vantaggio della sorpresa, non restava che la soluzione di forza. Cos’avrebbero potuto, dopotutto, alcune decine di poveracci, armati degli attrezzi di lavoro, contro trenta uomini armati fino ai denti? E invece, Norberto sbagliò i suoi conti”. I contadini si batterono bene. Fin troppo. E anche quando la masnada riuscì a sgombrare la strada, incendiando il carro di fieno, i contadini non mollarono. Anzi, rinserratisi tra le mura del castello, avevano azionato la colubrina, sparando a destra e manca a mitraglia: chiodi, pezzi di piombo, persino la ghiaia. E ogni volta che i masnadieri si avvicinavano alle mura, dovevano scappare in fretta per non buscarsi una pioggia di olio bollente. La battaglia durò tre giorni e tre notti. E, alla fine, con la sua truppa ormai decimata, Norberto ridiscese la montagna, sconfitto. Ma non era finita lì. “ A Borca lo aspettava un’altra sorpresa. Due notti prima gli omegnesi – guidati da un tal Gilberto del Parogno – avevano, in quattro e quattr’otto, legato come dei salami i tre uomini di guardia e appiccato il fuoco alla “Anguilla Nera”. Quello che videro gli occhi di Norberto era uno scheletro di legno bruciacchiato, che affiorava per metà dall’acqua del lago. Colmo di rabbia, il Conte Norberto di Brolo si incamminò verso Buccione e nella torre si rinchiuse. Passò così i giorni che gli restavano, senza veder nessuno, roso dalla vergogna per lo smacco subito”. Di lui non si sentì più parlare e la vita tornò ad essere tranquilla per gli abitanti delle due sponde. Anche se qualcuno, per non rischiare, si mise ad aprire porte e finestre dalla parte del lago dove, a turno, stavano di vedetta tutti i familiari. E così per un po’ di tempo: quanto basta per smaltire ogni residuo di paura. Giansiro guardò i suoi piccoli amici, cogliendo nei loro sguardi un’ombra di perplessità. “Ah, già mi aspetto la vostra domanda, a questo punto. Anzi, sapete che faccio? Vi anticipo. Voi vi state chiedendo che fine abbia fatto il tesoro, non è vero? Ebbene, quei furboni dei frati, capito che il nascondiglio non era più un segreto e che, chissà, qualcun altro poteva avere grilli per la testa e voler seguire le orme di Norberto, magari riuscendo proprio dove lui aveva fallito, decisero che era tempo di cambiargli dimora. E stavolta fecero tutto da soli, senza intermediari o altri aiuti. Dove portarono il forziere non si seppe mai. Certo in un posto sicuro”. Da quel momento si persero le tracce del tesoro dell’isola di S. Giulio. Nessuno ne parlò più. Persino ad Agrano, dove si tramandarono per generazioni – dai padri ai figli – il ricordo di quei tre giorni e tre notti d’inferno. Solo qualche vecchio, nelle sere d’inverno all’osteria, davanti a un bicchiere di vino rosso, raccontava ancora questa storia. Ma chi gli stava attorno, pur dimostrando un discreto interesse per non irritarli, non credeva a quella leggenda. Sono tante, del resto, le storie che si raccontano sul lago e quasi nessuno si è mai curato di domandarsi dove stava il confine tra la realtà e la fantasia. Giansiro aveva in serbo una sorpresa e, con aria sorniona, disse: “Ragazzi, voglio farvi una confidenza. Una volta trasportai sulla mia “Lampreda” un vecchio frate del convento del Mesma che, a forza di ascoltare le mie domande, qualcosa disse. Pensate, nel forziere c’era davvero un tesoro, ma non di quelli che bramava Norberto o che diceva di aver visto il viandante o che credeva la gente. No, c’era un altro tipo di tesoro. Qualcosa che per noi pescatori valeva più degli ori e delle pietre preziose. Ah, vi vedo già a bocca aperta e con le orecchie ben dritte. Lo volete davvero sapere cosa c’era in quella cassa? C’erano delle ricette tra le più rare in cui si narravano i modi migliori per cucinare il pesce di lago: dalla tinca in umido coi piselli all’alborella in carpione, dalla trota al burro e salvia al coregone saltato in padella con le cipolle di stagione. Una delizia! Un tesoro per il palato e per la mente di chi ama davvero mangiar bene e vuol dimostrare l’affetto per il suo lago e per chi lo abita, anche quando è seduto a tavola. Questo mi disse il frate. Anzi, mi disse che fu proprio San Giulio a suggerire la stesura di questi antichi testi e  l’idea di conservarli per poterli un giorno tramandare a chi sarebbe venuto dopo. Non vi vedo molto convinti…ma vi assicuro che è davvero quello che hanno sentito le mie orecchie, quel giorno in barca. Magari sarà anche questa una storia, ma chissà.. mi piace pensare che davvero sia andata così. Ma ve la immaginate la faccia di Norberto, che – si dice – neppure mangiasse il pesce e arricciasse il naso solo a sentirlo nominare, qualora aperto il forziere, si fosse trovato in mano delle ricette?”. Giansiro e i ragazzini ridevano a crepapelle. Poi, dopo essersi passata due volte la mano sulla bocca e sorseggiato un bel fiato di vino, il vecchio pescatore guardò fuori dalla finestra. “ Sta diventando buio, bambini. E’ ora che torniate a casa, dai vostri genitori. Altrimenti staranno in pensiero non vedendovi arrivare”. I ragazzini lo salutarono. Qualcuno lo baciò sulla guancia irsuta. Quello con i capelli rossi gli disse: “Nonno, domani ci racconti un’altra storia?”. Il vecchio “lupo di lago” sorrise. “ Vedremo, eh. Vedremo. Intanto, mi raccomando: a scuola state attenti. E studiate anche la vostra terra, la gente di qua e l’ambiente che ci circonda. Non voglio sembrare un vecchio barboso, ma ricordatevi che questa natura non è solo nostra. Dobbiamo volerle bene, conoscerla e rispettarla. Anche per gli altri. E chissà, forse un giorno torneranno anche i peci nel lago e potremo andare insieme sulla barca a pescare. D’accordo? Adesso andate, su”. Rimasto solo, Giansiro si chiuse alle spalle l’uscio di casa e andò giù al molo. Con un tozzo di pane e un po’ di formaggio in tasca, la fiasca del vino sotto braccio, guardò il sole tramontare. Pareva una tonda palla che scendeva dietro alle montagne. Di un bel rosso. Un rosso vermiglio. “ Rosso di sera, bel tempo si spera”, mormorò tra sé e sé, spingendo in acqua la sua “Lampreda”. Si mise a remare, muovendo dolcemente l’acqua, da sempre sua amica. E quando fu lontano dalla riva, tirati i remi in barca, si sdraiò sul tavolato. Le vecchie ossa scricchiolarono un po’ ma non ci fece caso. Guardò scendere la sera, in attesa della notte. Aspettava le stelle. Per sognare un’altra storia. Per lui. E per i suoi ragazzi.

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