Il film della delusione, ovvero un omaggio sbagliato al mondo del cinema

Sugli schermi “Notti magiche” di Paolo Virzì

 

La colonna sonora ha le voci della Nannini e di Bennato, la voce è quella di Bruno Pizzul a commentare il rigore sbagliato di Serena e il tiro micidiale di Maradona che sbaraglia l’Italia e fa volare l’Argentina. Dal lungotevere vola anche, giù nel fiume, una grossa macchina di colore scuro, tra l’indifferenza pressoché totale di chi, sotto le luci di un piccolo chiosco, sta imprecando contro la disfatta dei Mondiali 90. Inizia così Notti magiche che Paolo Virzì ha diretto e sceneggiato con Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, una sorta di amarcord personale (come non riandare anche al giovane Sergio Rubini che con il tram raggiungeva Cinecittà nell’Intervista felliniana) e di viaggio all’indietro, di quando il regista da Livorno se ne andò nella capitale a respirare l’aria del cinema, a tentare storie, a immergersi nel mondo fatto di negri e negrieri, di quegli uffici, a mezza strada tra la casa e la protezione quotidiana, dove tutti scrivono sotto lo sguardo di Ennio (De Concini: un sornione Paolo Bonacelli) e Furio (Scarpelli: un grandioso Roberto Herlitzka)). Un’autobiografia sulla carta fatta di ricordi e di volti, di notti passate a dare forma a fatti e personaggi, un romanzo di formazione, veloce veloce, senza andar troppo per il sottile, arruffato e disordinato, tutto rivolto all’insegna del pressapochismo letterario, (forse) un omaggio ad un mondo che in quegli anni, se non andava incontro a qualcosa di simile alla sconfitta calcistica italiana, improvvisa e bruciante, certo stava a poco a poco adagiandosi, spegnendosi, immiserendosi, rinculando a suon di storielle e di persone sempre pronte a sguazzare negli affari, lasciando l’arte da qualche altro canto, tra le feste in villa con la ragazza coccodè – che magari vuole pure bene al produttore, anche quando i debiti gli vengono a vuotar casa di ogni premio e mobile – e con le braciole a cuocere, tra le grandi bellezze al tramonto, come quelle di Sorrentino nel nuovo millennio, con le terrazze illuminate e la musica e i trenini: ma un omaggio sbagliato, deragliato sui binari di quegli stessi ricordi. Perché ci vorrebbe una scrittura, e qui l’ordine di una scrittura non c’è. C’è l’abbozzo, c’è la scenetta, c’è l’imbarbarimento e il contributo scollacciato fine a se stesso (povera Muti costretta ad alzare la gonna per dimostrare che di mutandine manco a parlarne!) che non è sufficiente a descrivere un mondo. C’è la rappresentazione laica dei gruppi e dei gruppuscoli (la vestale è la Giovanna di Ludovica Modugno, bravissima), c’è la curiosità per la prima mezz’ora a fare il gioco chi fa chi, chi è questo chi è quello, a catturare Mastroianni che piange per la Deneuve che l’ha lasciato o a stupirsi di uno pseudo Antonioni (l’Arlecchino di sempre Ferruccio Soleri) che mangia tutto solo in trattoria e da anni non spiccica una parola, o dell’autore che vive come un barbone in un seminterrato per non essere entrato appieno negli ingranaggi dell’industria (ma chi sarà mai? inventato? reale?). Ritrattini che si perdono nel niente. Tutto vorrebbe essere acido o ossequioso (i due mondi in Virzì convivono benissimo) ma suona piuttosto barzelletta. O didascalico come un pugno nello stomaco mal assestato, vedi il dito puntato nel finale dal capitano Sassanelli che dall’alto impartisce la benedizione con il refrain “guardate fuori dalla finestra”, a far presente ai tre giovani sceneggiatori – che dovrebbero essere il fulcro della vicenda e che sono capitati in commissariato, dopo un primo incontro al premio Solinas, per essere ritenuti i colpevoli dell’assassinio del produttore Giancarlo Giannini – che il cinema non dev’essere fatto di soli autori ma pure di spettatori o, molto meglio, di autori che devono provare il piacere di essere spettatori. Lo ha preceduto un surreale Fellini, nel buio del suo ultimo set, La voce della luna, a sussurrare “io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…”, sorta di tomba a ricoprire tutto il circo dentro cui sino a quel momento ci siamo ritrovati immersi.Notti magiche è anche il film della delusione (non soltanto nostra, un colpo basso dall’autore di Tutta la vita davanti, della Pazza gioia, della Prima cosa bella), per quei tre ragazzi intrisi di speranze e sentimenti che sembrano usciti dallo Scola di C’eravamo tanto amati. Anch’essi malserviti, Irene Vetere ragazza della Roma bene, chiusa in camera a piangere e bisognosa d’affetto, personaggio irrealizzato cui i due compagni rubano spazio, Mauro Lamantia logorroico sino all’inverosimile, copia sbiadita e perennemente eguale del Nicola Palumbo di Satta Flores (ancora il film di Scola) e Giovanni Toscano, volto nuovissimo allo schermo, godereccio toscano, sciupafemmine e manomorta sempre in movimento, quello cui l’avventura romana brucia di più, con il suo ritorno sul treno per Piombino, i vecchi lavoratori della fabbrica, l’impensabile compagno comunista con la lacrima facile: quella ragazza che lo aveva raggiunto, che lui ha sempre trattato con sufficienza, lei sì che potrebbe mettere un piede nel panorama fatto di chiaroscuri del cinema italiano.

 

 

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