L’or des pharaons

L’esposizione nello shop, che precede la mostra, di (molte) collanine, gioielli, statuette e talvolta statuone a tema egizio e di (pochi) libri o altri souvenir di maggior valore culturale può far inizialmente temere di assistere ad una opulenta celebrazione del lusso monegasco, dove la storia e l’archeologia finiscono in secondo piano rispetto all’estetica degli oggetti o, peggio ancora, al valore venale da capogiro di reperti egizi plurimillennari, in trasferta dai principali musei del mondo ma, in particolare dal Museo Egizio del Cairo, al Forum Grimaldi di Montecarlo dal 7 luglio al 9 settembre prossimo.Tuttavia la mostra riesce a vincere la sfida con se stessa e a non limitarsi all’accumulo e all’abbacinare i propri visitatori: i curatori riaffermano la scientificità dell’allestimento a partire dalle prime sale, dove vengono brevemente riassunti gli aspetti strettamente petrografici e mineralogici dei materiali che la mano umana ha poi trasformato in gioielli, per uomini e donne, sia nel piú fine cesello di oggetti di qualche centimetro sia nella creazione di pesantissimi e complessi monili rituali.  Ma, d’altra parte, la mostra “L’or des pharaons” è costretta, dal luogo che la ospita e dal tema su cui è imperniata, ad esibire l’opulenza di una antica civiltá di cui, si diceva, l’oro è la polvere delle proprie strade. Vedere in un unico luogo cosí tanti reperti, cosí celebri ed in un contesto che ne consente di goderne appieno, con luci soffuse, teche antiriflesso che si possono osservare a tutto tondo, è un’occasione più unica che rara, favorita dai lavori di trasferimento dello storico Museo Egizio del Cairo al nuovo museo ai piedi delle piramidi.

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Il tema centrale è l’oro, ma anche le pietre preziose, il lapislazzuli, l’argento e l’intera maestria degli orefici egizi che per 3000 anni seppero fondere, incrostare, cesellare, inventare e scolpire minerali e metalli trasformandoli in gioielli dal significato religioso e magico, inno alla vita, all’immortalitá e alla divinità, perché l’oro e il lapislazzuli, non bisogna dimenticarlo, sono la materia di cui sono fatte le membra degli dei. La mostra, lunga e bellissima, inevitabilmente vince con la carta della ricchezza rispetto al concetto dell’esibizione museale consueta, ai tanti ragionamenti sulla prosopografia alla base del nostro Museo Egizio, alle chicche letterarie che si conservano a Berlino, alle grandiose statuarie del Louvre o del British Museum: in questa esposizione si celebra, in un certo senso, la lungimirante regolamentazione che, sin dall’Ottocento, grazie ai primi direttori del Museo cairota, Mariette e Maspero, previde il rigoroso controllo e la prelazione sulle scoperte delle tante missioni archeologiche, che permise di trattenere sul territorio nazionale le opere di fattura piú squisita, i capolavori piú ricchi in materiali e bellezza; ben pochi sfuggirono alla sorveglianza, come la celebre statua di Nefertiti imbruttita con il fango e contrabbandata ai limiti della clandestinità in Germania. Sono dunque rimasti in Egitto, e portati in Europa solo per la mostra, i pochi corredi faraonici sopravvissuti al saccheggio e quelli dei privati, come quello di Yuya e Tuya, il quale, pur nella maggiore ricchezza, è coevo e molto simile nello stile a quello della tomba torinese di Kha e Merit, la quale dunque non sfigura e si può godere a Torino, confrontando le due rispettive stupende e vivide maschere femminili. C’è poi il grande paradosso, il fatto che tali tesori non siano che una minima parte di tutto ciò che è stato saccheggiato in antichità: queste ricchezze sono dunque delle fortunate sopravvissute, cui dobbiamo guardare riconoscenti verso la sorte, immaginando che cosa dovessero essere i gioielli dei grandissimi faraoni dell’Antico, Medio e Nuovo Regno, di cui ci sono giunti soltanto scampoli, o neppure quelli, guardare il tesoro di Tutankhamon costringe a un impossibile esercizio di induzione per figurarsi quello di un Ramses, di un Thutmosi o di un Amenhotep, contemplare il raffinato diadema di una principessa del Medio Regno le corone poste sul capo di Cheope o Nefertari, le cui teste protette dal cobra che vegliava il loro popolo concepirono le vicende storiche della civiltà del Nilo.

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La mostra prosegue alternando sezioni in cui basta “vedere” ed esaurire rapidamente il proprio vocabolario di aggettivi esprimenti apprezzamento estetico, a parti più da “leggere”, riflettendo sulla storia di una civiltà che, pure nella piena crisi delle ultime dinastie, riusciva a realizzare opere di primissimo ordine. Dopo una prima metà di mostra, la storia egizia viene ricapitolata in ordine cronologico dalla seconda metà della esposizione stessa in poi – che i curatori con la prima parte vogliano ironicamente esibirci tante ricchezze come se fossero un semplice assaggio o riscaldamento? – scoprendo le vicende giudiziarie dei ladri di tombe, con l’aiuto di una ricca papiroteca realizzata anche grazie ai documenti del Museo Egizio di Torino, che ci consente di mettere naso nella complessa burocrazia e nello spietato codice penale egizio, nella corruzione delle reti “mafiose” di ricettatori dei corredi trafugati e nella triste fine dei pesci piccoli che pagano per tutti. C’è spazio anche per la cultura materiale, sulla narrazione della quale si basa il museo torinese, con reperti da Deir el Medina, scorci familiari nella vita quotidiana degli artisti e la possibilità di ammirare gli attrezzi dell’orafo, crogiuoli in terracotta e semplici strumenti in metallo, completando, così, la scansione della mostra nelle due citate macro-sezioni, intervallate da una suggestiva veduta panoramica del Nilo nei pressi della Valle dei Re.Quando si sta quasi per tirare il fiato, ecco che si viene trascinati alla scoperta dell’ultimo grande tesoro, quello che Pierre Montet rinvenne a Tanis negli anni ‘30 (sí, “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta” è ispirato alle vicende dell’archeologo francese) nella tomba del faraone Psusennes, dove è l’argento, rarissimo in Egitto ed importato, e non l’oro, proveniente in grande quantità dalla Nubia ( regione il cui stesso nome viene dalla parola egizia per il biondo metallo, nebu), a farla da padrone, gettando luce su un’epoca decisamente poco nota dell’Egitto, il terzo periodo intermedio, caratterizzata da alti e bassi storici e non liquidabile, si parla pur sempre di un millennio, con il generico termine di decadenza. Quest’ultima sezione, a sé stante, sa riunire, ancora una volta, la vicenda archeologica con i tesori di oreficeria, ricostruendo, passo a passo, le scoperte di Montet, le planimetrie, i telegrammi alla famiglia, le foto e i documentari dell’epoca, fino all’imponente sarcofago in argento del sovrano.  L’occasione è unica per vedere tali reperti poco lontano dall’Italia, ancorché breve, l’ideale per una gita estiva.  L’ultimo consiglio è di ascoltare le raccomandazioni dell’azzimato e gentile usciere che vi accoglierà osservando che lungo il percorso farà “un peu de froid” : i reperti sono tenuti a temperature controllate che hanno ben poco di egiziano, occorre mettere almeno un maglione o approfittare delle ampie coperte (“scialli”), che vengono messi a disposizione all’ingresso, sono sconsigliate per la stessa ragione le scarpe aperte.

 

Andrea Rubiola

Dettagli: http://www.grimaldiforum.com/fr/agenda-manifestations-monaco/l-or-des-pharaons#.W2rxdiPOM0

 

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