La patata si diffuse e fu, insieme alla castagna, il cibo principe di molte popolazioni in quegli anni difficili. Prima dell’avvento della patata, un nucleo familiare contadino per potersi garantire l’autosufficienza, dal punto di vista alimentare, necessitava di una discreta zona di terra, dove per lo più seminava segale e piantava fagioli, piselli e cavoli; un piatto molto comune era appunto una sorta di stufato composto da piselli e fagioli, radici o cavoli, qualche erba e raramente della carne
“Per prolungare un tempo senza fine la durata dei Pomi di terra in sostanza, bisogna farli bollire un poco in acqua alquanto salata; ciò che dicesi volgarmente bianchire e quindi tagliarli in fette, ed esporli sopra un forno da pane. Essi allora acquisteranno secchezza, e trasparenza d’un corno: messi quindi in un vaso con un poco d’acqua o d’altro liquore, sopra un fuoco dolce, somministrano un alimento sano, uguale alla radice fresca. Riducendoli in polvere danno una zuppa, ed un brodo molto salutar Questo mezzo porge il grandissimo vantaggio di conservare da pertutto e per secoli senza pena e senza spesa,il superfluo della provvigione diciascun mese“. Pubblicato cinque anni dopo la Rivoluzione Francese ( “Istruzioni sopra la coltura e gli usi dei Pomi di terra”, Cognet, Nizza 1794 ), questo metodo per conservare a lungo le patate, il “pane dei poveri”, dà l’idea di come si stesse diffondendo all’epoca, per necessità prima ancora che per scelta, l’uso alimentare di uno dei tuberi più famosi. I tempi di allora dispensavano carestia e povertà, soprattutto in montagna e nelle campagne. Così la patata si diffuse e fu, insieme alla castagna, il cibo principe di molte popolazioni in quegli anni difficili. Prima dell’avvento della patata, un nucleo familiare contadino per potersi garantire l’autosufficienza, dal punto di vista alimentare, necessitava di una discreta zona di terra, dove per lo più seminava segale e piantava fagioli, piselli e cavoli; un piatto molto comune era appunto una sorta di stufato composto da piselli e fagioli, radici o cavoli, qualche erba e raramente della carne. A pari superficie coltivata, le patate producevano una quantità d’amido che era da due a tre volte superiore alla segale. E non era cosa da poco. In Europa, furono gli irlandesi tra i primi ad usare come nutrimento umano la patata, non perché fossero più furbi, ma perché stavano letteralmente morendo di fame. In Inghilterra la massima espansione della patata si registrò tra il 1770 e il 1860. In Germania già nella prima metà del ‘700 si mangiavano patate. Nei Paesi Bassi, nel 1800, era l’alimento nazionale. In Francia, al contrario dei paesi ora menzionati, nonostante la pubblicità della famiglia reale (Maria Antonietta ne portava addirittura i fiori sul corpetto) non ebbe grande successo. I cugini d’oltralpe, chissà poi perché, continuarono ad essere eccessivamente diffidenti nei confronti della patata, che definivano “strano ortaggio”. In Italia la patata fece la sua comparsa in punta di piedi, all’inizio del secolo dei Lumi, introdotta dal granduca Ferdinando II di Toscana. Ma , appena affacciatasi sulle “terre alte”, la patata contribuì a rivoluzionare l’alimentazione nelle alpi. Anzi, fu proprio dalle nostre zone montane che venne diffusa nel resto d’Europa. Gli italiani la chiamarono “tartuffolo”, da cui la traduzione in tedesco Tartofflen e Kartoffen. Inizialmente, il popolo non la conosceva o pensava che potesse portare malattie come la lebbra. Veniva coltivata solo in periodo di guerra o carestia e, in montagna, cominciò ad essere usata solo dal XVIII secolo, nonostante avesse caratteristiche ideali per l’alta quota (ad esempio, resisteva alla grandine e al freddo). Il primo documento sulla coltivazione della patata nelle zone alpine risale al 20 settembre del 1741, mentre sembra che, nel 1759, la patata sia entrata a far parte della “grande decima” (cioè venne istituita una tassazione su di essa). Le testimonianze dell’epoca ci raccontano che, grazie alla patata, si combattevano meglio le carestie La patata, infatti, poteva essere coltivata fino a quasi duemila metri, assicurando sempre un minimo di raccolto; si conservava a lungo e, garantiva un buon contenuto proteico. Non solo: la patata poteva anche migliorare la produzione del pane e ridurre il consumo di granaglie, così preziose nell’economia alpina. Inoltre, vennero scoperti nuovi tipi di patate; tra queste vale la pena di ricordare la patata di Formazza , “titolare” di un colore rossastro e di una pasta giallo-scura, medio-piccola e tondeggiante, dal fiore viola e dal fusto sottile e robusto. La patata, dunque, dava da vivere. Ecco perché venne considerata la “benedizione della montagna”. A sostenerne la diffusione furono sempre i motivi di necessità, in concomitanza con gli elevati prezzi dei cereali ( che aumentavano per i crolli di produzione causati quasi sempre o dalle guerre o da annate segnate da gelate primaverili, grandinate, alluvioni e siccità).Così, nel tempo, le migliori, le più belle e saporite patate hanno contribuito a salvare dall’esodo le vallate alpine. Da quando fece la sua comparsa in Europa, “emigrante” dalle Americhe, ha suscitato prima curiosità e poi, via via , ammirazione e riconoscenza, soprattutto da parte di chi, grazie a “lei”, ha evitato di morire di fame. Per la diffusione della sua coltivazione da noi bisogna arrivare però alla fine del ‘700, quando un intraprendente cuneese – l’ing. Giovanni Vincenzo Virginio -, contemporaneamente al botanico francese Parmentier, ne propagandò la coltivazione in Piemonte, offrendo – tra l’altro – i tuberi gratuitamente sul mercato di Torino nel 1803. Da quel momento la pataticoltura si diffuse, moltiplicando le “cultivar” locali, tra le quali la “Rossella” , tipica delle vallate del nord del Piemonte. Sotto il profilo dei caratteri botanici, la patata ( “solanum tuberosum” ) appartiene alla famiglia delle solanacee – come il pomodoro -, ed è una pianta perenne anche se da noi viene tenuta in coltura per un solo anno. Si propaga per tubero (costituito da un 75% di acqua e da un 20% di amido ), ha un apparato radicale di notevole sviluppo, i suoi fiori – raccolti in corimbi – sono bianchi o violacei. La patata fruttifica poco ed in modo irregolare: il “frutto” è una bacca più o meno sferica, giallastra quando matura. Nelle parti verdi e nel tubero, contiene un alcaloide velenoso, la “solanina”. Abbiamo poi patate molto precoci – che durano in vegetazione settanta giorni – ed altre molto tardive, che impiegano a svilupparsi oltre cinque mesi . Per il terreno è di “bocca buona”, non ha grandi esigenze: basta che sia fresco ed un poco, ma poco, acido. Predilige i climi freschi, i cieli coperti, un buon rifornimento idrico ma senza esagerare. Infatti, se l’umidità è eccessiva il prodotto è scadente e poco conservabile, mentre nei terreni troppo sciolti o piuttosto aridi, i tuberi rimangono piccoli. La patata è una coltura da rinnovo e quindi esige delle accurate lavorazioni, un ottima e generosa concimazione. Si “avvicenda”con alcuni cereali e nelle vallate piemontesi un tipico esempio è offerto dal “tandem” patata-segale. Si coltiva in ogni latitudine e ad ogni altitudine, a conferma della sua grande adattabilità. Salvo che in giugno e luglio, si seminano le patate in tutti i mesi ( in montagna, tra aprile e maggio): la quantità di seme dipende, ovviamente, dalla qualità e dalla varietà del terreno, ma una media ragionevole è di circa 15 quintali per ettaro, vale a dire da 6 a 10 piantine per metro quadro. Dai tempi in cui donna Teresa Castiglioni de Ciceri – dama lombarda, nata nell’ottobre del 1750 ad Angera, sulla sponda “magra” del lago Maggiore – affascinata dal progresso delle scienze e grande amica di Alessandro Volta, ne introdusse la coltivazione nelle terre dei laghi dell’Insubria, è passata moltissima acqua sotto i ponti e, più che altro, una infinità di quintali di patate nelle nostre cucine.
Marco Travaglini
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