Sì alle Olimpiadi, ma senza ripetere gli errori del passato (a costo di smitizzare il 2006)

AVVISTAMENTI  di EffeVi
Torino è messa talmente male che tentare i Giochi è una strada obbligata: ma attenzione ad evitare sprechi, spese folli, cattedrali nel deserto e danni alle imprese piemontesi. Un po’ di memoria, a costo di smitizzare il 2006

Se si ha il coraggio di guardare i dati socioeconomici di Torino, l’opzione di tentare la candidatura alle Olimpiadi del 2026 appare senza alternativa, e le controindicazioni all’operazione (ché ce ne sono parecchie, anche sulla scorta degli errori commessi nel 2006 e tuttora negati dai protagonisti dell’epoca) risultano comunque secondarie: meglio una scommessa azzardata che una morte per strangolamento, neppure tanto lento. I numeri sono impietosi, onestamente ricordati persino dal giornale cittadino tradizionalmente più sensibile al pudico orgoglio provinciale subalpino: poco più di 220mila imprese registrate, il dato più basso dal 2003; demografia delle imprese in saldo negativo di 3.000 unità; disoccupazione al 12,3% per gli uomini e al 12,8% per le donne, disoccupazione giovanile sopra il 40%. Formazione generale della forza lavoro bassa, alto indice di invecchiamento e di dipendenza. Numeri che collocano la capitale sabauda, già vertice del triangolo industriale del Nord, ai livelli di Napoli, Catania e Messina.

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Perciò, ben venga la scommessa delle Olimpiadi, nella consapevolezza che la strada è lunga e irta di ostacoli, e che bisognerà evitare che, dopo la prevedibile euforia e il boom immediato – ingenerato dalle peraltro sempre più scarne iniezioni di denaro pubblico – non sia seguito da uno scenario di fallimento tecnico, visti i precedenti. Con la differenza che la Torino del 2018 (già al limite del crack solo per il debito di GTT) non è la rutilante capitale del 2006.Gli ostacoli politici, intanto: non sappiamo quale sarà la composizione dei Governi che dovranno gestire in prima persona la candidatura e, eventualmente, il dossier se Torino dovesse vincere. Sappiamo che c’è un partito di maggioranza relativa, a Torino come a Roma, in cui la diffidenza per le Olimpiadi è diffusa, per essere gentili. Un partito la cui pancia profonda non risponde né al suo padre fondatore (l’appello di Grillo è stato smentito dal pronunciamento dei gruppi consiliari in Sala Rossa – un aspetto minore del generale distacco della creatura dal suo demiurgo) né alla volenterosa Chiara Appendino, che tra mille difficoltà si è accorta di quanto sia difficile interpretare Evita Peròn sotto la Mole.

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E’ curioso, infatti, che Il Sindaco, che siede al suo posto sorretta da un monocolore grillino, possa pensare di tirare dritto contro la maggioranza (tutta) che la sostiene. Ieri (lunedì) è stata respinta, col voto compatto dei grillini in Aula, una mozione del Pd a favore delle Olimpiadi. E questo, dopo che Appendino, contro la maggioranza a partito unico che l’ha portata lì e la sostiene, ha deciso di inoltrare autonomamente la lettera di manifestazione di interesse. Se ciò sia possibile in punto di diritto, richiederebbe l’impegno di illustri amministrativisti, ma in politica siamo alla prima elementare: un Sindaco che va contro la maggioranza si dimette, o chiede la verifica. E se la maggioranza si adegua – come apparentemente hanno fatto i consiglieri grillini – poi non può votare di nuovo contro se stessa due giorni dopo. Veniamo ora ai caveat, perché è inutile fingere che le Olimpiadi siano una festa a costo zero (con l’unica eccezione di Salt Lake City, che generò un surplus) e che la gestione dei conti e degli impianti non comporti un rischio di aggravio per decenni a carico della città ospite. Se siamo onesti, va detto che Torino 2006 fu globalmente un successo, non esente da ombre. L’Agenzia Torino 2006, che si è occupata degli impianti, delle infrastrutture a supporto e delle cosiddette “compensazioni”, ha fatto un buon lavoro, lasciando anche un surplus di 33 milioni finiti in parte al capoluogo in parte ai comuni di montagna. Non mancano le ombre: intanto i costi, che si sono moltiplicati dai 616 milioni di dollari a quasi 3 miliardi di Euro a consuntivo. E poi le grandi incompiute, impianti costosi insostenibili nella funzione originaria, come la pista da bob di Cesana (costo: 105 milioni), il trampolino di Pragelato (34 milioni), l’Oval (70 milioni) o il Palavela (50 milioni).

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Ritrovare una funzione economicamente sostenibile per questi impianti si è rivelato un esercizio al di sopra delle capacità dei nostri amministratori. E resta, ciliegina sulla torta, il villaggio MOI, una ferita aperta in città che tutti i candidati Sindaco del 2016 (a cominciare da Appendino) avevano promesso di sgombrare. Fateci un giro, se ne avete il coraggio. Ci sarebbe da stendere un velo pietoso sulla performance del TOROC, il comitato Olimpico presieduto da Valentino Castellani, incaricato della gestione degli eventi. Ma avendo visto una incredibile intervista dello stesso, forse varrà la pena di rinfrescare la memoria. Sotto la gestione del prof. Castellani – il cui compenso (che non fu mai ufficialmente comunicato, ma secondo un’inchiesta de “Il Giornale” poteva avvicinarsi al milione l’anno) – si mise in piedi una macchina di oltre mille dipendenti in cui non era difficile ritrovare impiegate intere famiglie, perché, (secondo la dottrina Castellani – espressa nella successiva vicenda dello scandalo di parentopoli sulle consulenze del Comune)“la città non è grandissima, l’ambiente è quello che è, diventa persino difficile non rapportarsi sempre agli stessi” (Castellani a Il Giornale, 14/11/2012).

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Tra un’indagine della Procura sugli affidamenti, le dimissioni mai chiarite del potente Vicedirettore Pochettino, successive iniezioni di denaro pubblico dovute all’incapacità di reperire sponsor (forse è difficile se ci si contenta di regnare con questi metodi su una “città non grandissima”), il Toroc tirò a campare, i suoi vertici neanche troppo male, fino alla conclusione. Furono necessari ben due commissariamenti di fatto (il primo, cosiddetta “cabina di regia”, vide l’allora Sindaco Chiamparino doversi far carico di cercare, lui, gli sponsor privati; il secondo fu più robusto, legato all’ennesimo salvataggio pubblico del barcollante Comitato Olimpico, e affidò le redini al sottosegretario Mario Pescante, nominato ad hoc, che non esitò a dichiarare: “Ci sono liti da cortile, tra persone inadeguate, che danneggiano i Giochi” (ANSA, 4 marzo 2005). L’ultimo regalo del Toroc fu mandare in fallimento 200 imprese locali di fornitori. Fu creata una società ad hoc, la Consortium (con modalità piuttosto curiose, un capitale sociale irrisorio e nessun dipendente), con il mandato di gestire i rapporti di fornitura. Dichiarò fallimento lasciandosi un buco da venti milioni e qualche centinaio di lavoratori piemontesi e torinesi che, forse, non hanno un buon ricordo delle Olimpiadi.
N.B. – I dati sopra riportati si riferiscono a documenti ufficiali e virgolettati da organi di stampa. Se a qualche autoproclamato padre della patria venisse il tarlo della querela, procuri prima di collazionare correttamente le fonti.

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