Quanta strada per l’Arca Azzurra. Sono sui palcoscenici dall’inizio degli anni Ottanta, credo una famiglia, dove i padri fondatori non hanno mai avuto il desiderio di scappare e di rifarsi una vita, un nume tutelare e un poeta che ha l’intelligenza di Ugo Chiti, autore e regista – parecchie incursioni nel cinema con premi, a dar man forte all’amico Alessandro benvenuti, a Giovanni Veronesi, a Francesco Nuti, a Matteo Garrone -, la voglia di recitare insieme. Certi titoli, da quegli anni, uno non se li scorda, La provincia di Jimmy e Allegretto… perbene ma non troppo soprattutto, per arrivare a certe riproposte del Decamerone o della Clizia o della Mandragola di Machiavelli, a Benvenuti in casa Gori a 4 bombe in tasca, per non tacere del fatto che anche il grande Shakespeare è stato rivisitato. Certi spettacoli dei piccoli capolavori, i testi presi dalla cronaca come dalla letteratura, l’amalgama perfetto che si era creato, i personaggi inventati, la glorificazione della terra toscana e ben oltre. Fino a domenica sono all’Erba e questa compagnia, se ancora non la conosceste, dovreste davvero andare ad applaudirla. Propongono L’avaro di Molière ed è un piacere riascoltarli. Chiti, da buon deus ex machina si accaparra adattamento, regia, l’intero spazio scenico (un interno grigio pronto a farsi piccolo giardino con le sue belle piante ornamentali, certe porte sghembe che non sarebbero spiaciute ai futuristi) e pure i costumi, questi ultimi in combutta con la veterana Giuliana Colzi, pronta pure a vestire gli abiti e i mantelli della mezzana Frosina: ed è un pezzo da antologia il suo dialogo di donna abituata a maneggiare matrimoni e con la pretesa di ricavarci qualcosa con il protagonista Arpagone. Quanto lo conosce Molière il buon Chiti! Lo conosce così tanto che non gli pesa affatto rigirarselo tra le mani, attualizzarne la lingua e gli ammiccamenti al pubblico, usare la parola con ogni freschezza possibile, vivacizzare oltremodo gli amori contrastati tra le due giovani coppie in scena, i figli vittime di un padre per cui ogni più piccola spesa viene intesa come un capestro e ogni dote da accompagnare al matrimonio un supplizio che lo porta alla tomba, un’agnizione finale che è trattata come un frettoloso sberleffo drammaturgico, inventarsi un prologo e soprattutto un epilogo che quasi annienta lo spilorcio sotto il peso del proprio denaro, forsennatamente raccolto nelle saccocce del suo abito nero. È un giocare continuo sul personaggio principale, i suoi sbalzi d’umore, il terrore che gli si legge in viso al solo pensiero che quel tesoro nascosto nella cassetta sepolta in giardino gli venga sottratto, la sua gioia quando crede d’aver trovato un alleato, il ritratto dell’Egoismo e della Cupidigia. Alessandro Benvenuti, primo attore che non ha bisogno di sgomitare ma che si mette al servizio del regista e della insostituibile bravura dei propri compagni, provoca la risata, usa intelligenza e divertimento, dà l’immagine concreta di quella che è una malattia, occhieggia al pubblico, rumina tra sé e bofonchia giudizi e speranze, si perde quasi con felicità in quelle splendenti monete ritrovate. Della mezzana tratteggiata con grande bravura dalla Colzi s’è detto, come Dimitri Frosali è un perfetto mastro Giacomo e la presenza di Massimo Salvianti riaccompagna alla Commedia dell’Arte. Con le più giovani leve hanno fatto il successo della serata, durante e al termine accompagnata da interminabili applausi.
Elio Rabbione
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