Lo sguardo tutto al femminile della Comencini e gli operai che arrivano dal Portogallo

DAL NOSTRO INVIATO  Elio Rabbione

Che ci sta a fare Daniel Craig nel pasticcio di Kings della regista di origine turca Deniz Gamze Ergüven ospitato al TFF 35 all’interno della sezione Festa Mobile? Sta, unico e povero bianco arrabbiatissimo, in un grande quartiere a sud di Los Angeles, nella primavera del 1992, spazio per le tensioni e le lotte razziali all’indomani dell’assoluzione di quattro poliziotti bianchi colpevoli d’aver pestato a sangue Rodney King, un tassista di colore. Morti sul campo, feriti e arresti di grandi proporzioni. In un infuocato panorama, che meriterebbe il taglio del documento – Bigelow insegna – e l’asprezza della morte colta in ogni strada, come i saccheggi, come le imboscate, Ergüven imbocca la strada della storiella facile facile, che poggia malamente su di una sceneggiatura zoppa e a tratti degna della peggior commedia, laddove lo sbiadito personaggio dello 007 per eccellenza in quest’ultimo decennio gioca nelle prime scene a fare l’energumeno che fascia mobili, per poi sparire e ricomparire nell’ultima mezz’ora a dar man forte, bell’innamorato, ad una Halle Berry che una volta per sbaglio si portò a casa un Oscar. Sarebbe sufficiente la scena nella quale i due si liberano delle manette con cui i poliziotti li hanno legati ad un lampione, sotto lo sguardo di un campionario dei ragazzini già teppistelli che la donna ospita in casa propria, per classificare con facilità il film nel reparto del puro svago comico. Ed è davvero troppo cercare quel “piglio energico” annunciato tra le promesse del film.

A metà del concorso, quando già le speranze sembrano sparire, ci si imbatte nel portoghese A fabbrica de nada, opera prima robusta e bella che si deve alla collaborazione di cinque cineasti che hanno fondato otto anni fa una società cinematografica di grandi aspirazioni e alla firma di uno di essi, Pedro Pinho. 177’ per descrivere tra finzione e trascrizione iperrealista, ma questa supera di gran lunga quella, la “dismissione” – sembrano davvero le stesse radici di Rea – di una fabbrica di ascensori a Lisbona (una metafora degli alti e dei bassi dell’esistenza), dei primi dubbi degli operai che vedono i macchinari lasciare i reparti e le immediate certezze, gli sfilacciamenti e le incomprensioni familiari, delle coppie e dei genitori, gli scontri tra chi vuole abbandonare e portarsi a casa quel che al momento la direzione offre, domani di soldi non ci potrebbe essere più nemmeno l’ombra, e quanti vorrebbero una lotta a oltranza, chiusure, occupazioni. È un racconto limpido quello del regista, che neppure si sogna di lasciar cadere ideologie dall’alto ma analizza con umanità, quella vera, quella quotidiana, quella dell’elemento pressante alla sopravvivenza, fisica e materiale e degli affetti (significativi i momenti di un padre “di vacanza” e del ragazzino che non gli è figlio), lo svolgimento della storia. Ed è un racconto che non vuol essere soltanto la rappresentazione di “quella” storia, ma sogna di raccontare dall’interno anche la crisi che il Portogallo attraversa dal 2008. Importante, costruito con grande partecipazione da quanti “sono” gli operai, documentato, capace di farti apprezzare quanto le parole siano importanti.

Irritante al contrario Amori che non sanno stare al mondo che Francesca Archibugi ha tratto dal suo romanzo omonimo, scritto per lo schermo in compagnia di Laura Paolucci e Francesca Manieri. Due esseri, un uomo e una donna, due docenti universitari, una conferenza di lui, Flavio, che fa imbestialire lei, Claudia, per le idee vecchie e contorte, salvo la scena successiva lei innamorata cotta che è lì al tavolo, davanti al suo piatto di pasta, a giurargli amore eterna. Invece di filarsela a gambe come qualunque normale mortale avrebbe fatto, Flavio intreccia una relazione fatta di passione e di litigi, di travolgimenti e di stravolgimenti, di affetti e di distruzioni. Finché nascono nuovi amori, altrettanto infuocati, lui con una ragazza molto più giovane, lei si perde tra le braccia di un’allieva, tutto quanto raccontato in un poco entusiasmante susseguirsi di altalenanti passaggi temporali e soprattutto con dialoghi e situazioni riempitive (le tre amiche a scambiarsi confidente e no all’interno di un bagno) che suonano false, costruite a tavolino, troppo letterarie. Si tenta l’evoluzione dei personaggi, ma Flavio continua a starsene chiuso nelle proprie paure e Claudia, caposaldo di uno sguardo tutto al femminile, brandito come uno spadone che mena colpi senza pudore, rimane la folle, guerriera, ossessiva, arruffata donna da cui in molti fuggiremmo. Lucia Mascino e Thomas Trabacchi sembrano affrontare la storia con convinzione: siamo noi a uscire dalla sala insoddisfatti, bruciati da quel troppo di prosopopea che la regista ci ha buttato in faccia.

 

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