Aprire gli scuri e trovarsi di fronte il golfo Borromeo e le sue isole è un’emozione che si rinnova ogni volta che torno a Baveno. Con il passare degli anni i ritorni a casa sono diventati meno frequenti e, quasi a compensazione di queste assenze, si è rafforzata quella sensazione tenue e piuttosto languida che ho sempre negato di provare e che i più chiamano nostalgia. La casa della zia Nina, in fondo al lungolago, a ridosso della curva della Marescialla, in direzione di Stresa, confina con l’imponente parco della villa Branca e offre, dalle sue finestre, un ottima vista del lago. Non importa se oggi pioviggina ( non è una novità, in primavera).
L’isola Pescatori, con la sua forma allungata di antico pesce, galleggia nella bruma lattiginosa, sospesa sull’acqua; l’isolino s’intravede a malapena, mentre il profilo imponente dell’Isola Bella offre allo sguardo la parte superiore del palazzo Borromeo, con la bandiera rosso blu che riposa, zuppa d’acqua, sul pennone. La pioggia non offende la bellezza del lago; semmai la esalta, rendendo più morbidi e flessuosi i contorni delle rive nei riflessi sull’acqua. Come le nostre montagne che, nei giorni del bel tempo, si specchiano nel Verbano, rimirandosi compiaciute e un poco vanitose. Dall’altra parte del lago, più a sud di Laveno, oltre Santa Caterina del Sasso, tra Leggiuno e Angera, dei timidi raggi di sole illuminano i particolari della “sponda magra” fin nelle calette più riparate. Nebbia invece, e pure fitta, verso Fondotoce e l’isola Madre. Scherzi del lago che fa di testa sua, offrendo alla vista ciò che vuole, acquattandosi nella bruma primaverile come un gatto in attesa di spiccare un salto. Dal balconcino, riparato dallo spiovente del tetto, posso vedere la piazza dell’imbarcadero. Il battello delle 8,15, provenendo da Pallanza , dopo aver fatto scalo all’isola Madre, sta per attraccare al molo. Più che vederlo lo s’intuisce, complice la nebbia che avvolge quel tratto di lago, dal singhiozzare strozzato della sirena. Annuncia la sua presenza prima ancora che s’intravveda la sua mole biancastra. Pochi minuti e, con rapida manovra di sagole, verrà fissata la fiancata ai piloni d’attracco consentendo al signor Alvaro di far scorrere la passerella dal molo all’imbarcazione.
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La signorina Carlina, con passo rapido, a dispetto dell’età, scenderà a terra per andare a prestar servizio dal Conte. In più di quarant’anni, mai un assenza, mai un giorno di riposo che non fosse il secondo mercoledì di ogni mese. Una dedizione più unica che rara, certamente non motivata dal magro salario che l’anziano nobiluomo le elargisce. Ah, eccola! Con la borsetta stretta in grembo e la camminata che sbarella lievemente sulla sinistra, testimonianza visiva e traditrice che la dice lunga del peso degli anni e dei lavori domestici. Il bar dell’Uva Matta ha già soddisfatto le abitudini dei suoi clienti più mattinieri. I barcaioli, in attesa di qualche cliente da traghettare sulle isole, chiacchierano tra di loro sotto la pensilina in stile liberty. Sciogliere l’ormeggio dei motoscafi per scorazzare clienti, con questo tempo, non sarà impresa facile. L’unica speranza è che ci siano in giro dei sudditi di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, abituati al clima uggioso. Tullio, il giornalaio, commenta le ultime notizie con Ezio, il barbiere.
Discussione animata, a quanto vedo: si sbracciano, gesticolano. Si daranno torto o ragione? Boh! E chi lo sa? Intanto, arrancando sui pedali, passa Ermete Righelli, l’anziano postino. La schiena, piegata dal borsone di cuoio a tracolla che, pur non essendo più gonfio di lettere come un tempo, lo fa apparire come un antico ciclista, di quelli con il palmer a tracolla , portato alla cacciatora, che salivano con sforzi indicibili le vette più aspre del Giro e del Tour. Già, le lettere… Oggi se ne scrivono sempre meno. Solo posta elettronica, messaggini, comunicazioni su Facebook. Ormai solo le cartoline illustrate resistono, baluardo francobollato contro l’immateriale modernità. Ma per quanto, ancora? Eppure nelle lettere, scritte a mano, con gli sbaffi d’inchiostro e gli errori corretti tirandogli sopra una riga, si svelavano e s’intrecciavano storie e amori, avventure e ricordi. Ieri sera, appena rientrato dopo la “visita” alla cucina della Maria dell’Osteria dei Gabbiani ( quando arrivo da Torino, non manco mai all’appuntamento con la sua straordinaria frittura di lago ), sono salito in solaio per cercare qualche vecchia rivista da leggere. La zia ne ha conservate moltissime, insieme a pacchi impolverati di giornali d’epoca e antiche guide del Touring. Non le ho mai portate via da qui perché la soffitta ne soffrirebbe, mortificata da quelle assenze ,patendo un addio che ne impoverirebbe i ricordi. E una soffitta triste e svuotata da quel po’ di vita che conserva diventerebbe buia e inospitale. Insomma, morirebbe di solitudine e io non voglio che sotto il tetto della casa della zia ci si intristisca. Dunque, quando voglio leggere le vecchie carte, vengo qui e mi siedo sulla vecchia poltrona che fu del capitano Lenzetti, vecchio lupo di lago che dimorava in una stanza con vista lago affittatagli da zia Nina. Dopo una vita a solcare acque, sfidando tempeste e bonacce, aveva tirato in secca la sua vita per consumarsi in lunghe escursioni sui sentieri che salgono al Mottarone, allo Zughero e al Camoscio. Dietro alla porta m’attende la lampadina attaccata al filo con la peretta per l’accensione. Con le sue quaranta candele e un bel po’ di polvere addosso non illumina un granché ma la luce fioca s’addice alla soffitta.Rovistando qua e là ho messo da parte alcune vecchie copie della “Domenica del Corriere” con le copertine a colori disegnate da Achille Beltrame prima e da Walter Molino poi, efficacissime per raccontare le vicende di quei tempi.
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E’ un piccolo capitale, visto che oggi le copie sono ricercate da migliaia di appassionati. Non a caso si tratta del settimanale più collezionato d’Italia. La zia Nina ci teneva tanto alle sue copie della Domenica del Corriere, nata come inserto domenicale del Corriere della Sera, nel 1899, recapitata in omaggio agli abbonati del quotidiano ma anche venduta separatamente in edicola al prezzo iniziale di 20 centesimi.Il successo era dovuto al semplice fatto che, a differenza dei quotidiani dell’epoca, la Domenica del Corriere dava ampio spazio alle fotografie e ai disegni. Così, anche il fornaio Adelmo Brovelli e il boscaiolo Teresio Ognissanti, analfabeti loro malgrado, potevano farsi un’idea dei fatti del mondo mentre la zia e le sue amiche leggevano con avidità le cronache e gli articoli di grandi firme come Indro Montanelli che diresse il giornale fino al 1946.E’ sempre stato divertente guardare la tavole a colori e leggere le didascalie. Gran parte sono dedicate alle montagne, agli alpini, all’eroismo della grande Guerra e alle disgrazie. Curiosità e propaganda si mischiano e rendono bene l’idea di cosa si intendesse comunicare all’epoca. Mi fa sorridere la storia dei turisti assaliti da aquile sul Mottarone, illustrata da Beltrame sul numero che uscì a metà maggio del 1931. Anche la didascalia che accompagna il disegno offre l’immagine di una lotta senza quartiere: “Un gitante, suo fratello e la sua figlioletta, soffermatisi a riposare durante una escursione sul Mottarone, in località di dove si domina la vallata del Lago d’Orta, vennero assaliti da tre aquile, una delle quali tentò di ghermire la bambina, I due uomini iniziarono una battaglia a colpi di bastone, riuscendo, dopo lunga lotta, ad abbatterne e catturarne una, e a mettere in fuga le altre”. E che dire di quest’altra, degli inizi d’agosto di quel medesimo anno? “ Mentre guidava sul Lago Maggiore, presso Angera, un “fuori bordo„ appena acquistato, un ingegnere milanese, per una falsa mossa, cadeva in acqua e colpito dall’elica annegava. Una signorina che accompagnava l’ingegnere, terrorizzata, non seppe fermare il motore e allora l’imbarcazione prese a girare vorticosamente, evitando per miracolo una barca carica di bambini. Il battello andò poi a sfasciarsi contro la riva”. Morto l’ingegnere, salvi per il rotto della cuffia i pargoli, che fine aveva fatto la signorina che accompagnava lo sfortunato motoscafista? Una domanda che non avrà mai risposta. Girovagando nel sottotetto m’imbatto nello scaffale d’angolo, tra la finestrella dell’abbaino e l’attaccapanni dove giace, impolverato, un vecchio e liso soprabito. Ci sono diversi faldoni per archiviare i documenti. Su ognuno, in bella grafia e a grandi caratteri, è indicato il contenuto. Uno, in particolare, attira la mia attenzione. S’intitola “Lettere da Alpinia” e contiene un po’ di tutto. Mi colpisce una busta ingiallita dal tempo, bordata di fiorellini di un lilla ormai sbiadito. Contiene una vecchia lettera, scritta a mano da una calligrafia ordinata e ben leggibile. “Nina carissima, oggi Annarella e io,abbiamo visitato il nostro giardino Alpinia. Ti ricordi quante volte ci siamo state,insieme? Ora, nonostante tu non possa ancora muoverti da Baveno ( Ndr. La zia, a quell’epoca, complice una rovinosa caduta, era costretta a casa, “agli arresti domiciliari”, come raccontava a noi nipoti ) e non possa vederlo con i tuoi occhi, non preoccuparti: è sempre una meraviglia! Il dottor Iginio e il giardiniere Tronchetti lo tengono curato come un bijoux, con i vialetti puliti, le aiuole fiorite, ordinate, e tutte quelle piante alpine così minuscole e pure così forti e resistenti. Oggi c’è un bel sole e lo sguardo può sconfinare in Svizzera e sulla pianura padana. Dalla balconata del Belvedere, incombente sul lago Maggiore e sulle isole, si vedevano piccolissime le case di Stresa e Baveno e,ancor più in là, Pallanza e Intra. Nina, con un solo sguardo abbiamo abbracciato le principali vette della Val Grande, dal Togano alla Laurasca, dal Pedun fin giù nel Verbano dove domina la Zeda. E ancora, più in la, il monte Disgrazia,in Valtellina. E le Grigne, all’estremità delle Alpi Orobie che incombono dalla sponda orientale del Lago di Como, fino al Legnone , la cima più alta della zona di Lecco. Che imponenza, tutte queste vette! Che sarebbero i nostri laghi senza i monti? Così, sedute al tavolino dell’Alpino Fiorente, ci siamo dette: dai, scriviamo a Nina! So bene che tu vorresti buttar via le stampelle e incamminarti fin qui.. Ma, vedrai: è solo questione di tempo e di pazienza. Intanto, ti abbracciamo forte! A presto! Tua Clotilde… Ps. ( ti saluta anche Annarella)”.
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Alpinia è davvero un gioiello della natura. Un esempio più unico che raro di tutela di un bene pubblico sottratto alle grinfie dell’interesse privato. La collina dove sorge, con la sua affascinante posizione panoramica, alla fine del anni ‘20, faceva gola a tanti. Il terreno era comunale e furono offerti non più di venti centesimi al metro quadro. La proposta giunse alle orecchie di un gruppo di “innamorati della montagna” che, guidati da Iginio Ambrosini, convinse il Podestà stresiano a non cedere alle lusinghe e conservare al godimento pubblico quel dosso di terra acida e silicea, incolto e improduttivo. “Tanto magro è il suolo quanto pregiato l’ambiente”, si disse. Troppo bello perché ne godessero in pochi, lasciando tutti gli altri a bocca asciutta. Che farne? Venne lanciata un’idea: trasformarlo in un giardino di piante alpine. Così, il 28 gennaio del 1934, nell’aula di segreteria del Municipio di Stresa, vedeva la luce “Duxia” poi ribattezzato, dieci anni più tardi, in Alpinia. Un’avventura riassunta nelle lettere, ritagli di articoli, intere pagine delle riviste d’epoca, dettagliatissime mappe, corredate da minute osservazioni a matita e tante foto in bianco e nero e a colori,scattate con le prime Ferrania. Descrizione dei fiori e piante, appunti su semine e donazioni che arrivavano – grazie agli scambi con gli orti botanici universitari – dai quattro angoli del mondo. In alcuni quadernetti la zia aveva diligentemente annotato, tra l’altro, le essenze dell’orto di guerra, dove si coltivavano – tra il 1942 e il 1944 – piante ad uso alimentare mentre il giardino svolgeva un’azione di “portentoso calmante per lo spirito in questi tempi turbinosi”. Storie di piante pioniere, belle e tenaci. Piante montanare, capaci di vivere sul magro, unite strette nel difendersi, cedevoli alle carezze dell’aurora e resistenti all’infuriare della bufera. Le più adatte a rappresentare lo spirito della montagna. Intanto, dall’abbaino filtrano i raggi del sole che, timido, si fa strada tra le nuvole. Sbircio fuori: ha smesso anche di piovere. Prima di ripartire farò un salto al giardino.La zia, ne sono più che certo, approverebbe.
Marco Travaglini
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