Tra canzoni e musiche da Oscar, l’omaggio al cinema di un tempo

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Ce n’ha messo di tempo Damien Chazelle a convincere i produttori per questo suo La La Land, la risposta di tutti era che un musical costruito su note jazz non avrebbe interessato nessuno, non nella nostra epoca, l’intera storia andava cambiata, vista sotto un occhio diverso. Ma Chazelle non mollava, si dedicava a Whiplash che gli avrebbe fatto portare a casa tre Oscar nel 2015, ma sul suo musical, così come lui l’aveva sognato in compagnia del suo compagno d’università Justin Hurwitz, l’autore delle musiche, proprio non mollava. Adesso che La La Land è sugli schermi, con code di persone che vogliono vedere e ascoltare e innamorarsi della storia, si capisce quanto avesse ragione lui. Poco più che trentenne, è giunto al suo terzo film, ha vinto sette Golden Globe il mese scorso e con 14 nomination s’avvicina alla data degli Oscar con il cuore certo non troppo in tumulto.

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Ha costruito un omaggio ai titoli di un tempo, con quel tanto di nostalgia che non guasta, ai maestri Donen e Minnelli tenendo uno sguardo fisso sui Parapluies de Cherbourg del troppo presto dimenticato Jacques Demy, l’ha riempito di colori e di ritmo, di due personaggi principali ben descritti e fatti vivere, di un eccellente colonna sonora e di un aspetto coreografico davvero scoppiettante e rivelatore (sarebbe sufficiente la scena iniziale, con i coloratissimi automobilisti imbottigliati nel traffico dell’autostrada, sarebbero sufficienti un paio di assoli dei protagonisti per sentirci rimmersi a pieno titolo nella bellezza di certi classici vecchio stile: come non si dovrebbe dimenticare la “facilità” narrativa che scivola via sul versante drammatico, prendendo a prestito come anello d’unione quei pochi attimi di Gioventù bruciata di Ray). Suddivisa lungo un intero anno e le sue quattro stagioni, con un epilogo cinque anni dopo (con tanto di “sliding doors”), è la storia di Mia e Sebastian, lei aspirante attrice ferita nei continui devastanti provini senza successo che la obbligano a scommettere con la vita servendo caffè in un bar della Mecca del cinema e ad autoprodursi un monologo in teatro visto dai soliti quattro gatti, lui che sogna la sua musica e un jazz club tutto suo ma che si adatta a essere il tastierista di un gruppo di cui non ama né la musica né il leader tentatore.

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Siccome la parola d’ordine è “brindiamo ai sognatori per quanto matti possano essere”, ecco che l’amore ha inizio con il sogno caparbio di crescere, di dar vita a quanto di più intimo si vuol costruire: ma è anche vero che i sogni finiscono, o finiscono all’alba come diceva qualcuno, i sogni sono lontani dalla esistenza di ogni giorno, distruttibili (Sebastian in giro in tournée, Mia con la convinzione sempre più forte di rimanere per tutta la vita “un volto tra la folla”, al palo), quando ci si ritrova su un pavimento di stelle immediatamente si scende, un romantico passo a due sopra le luci della città può venire interrotto inaspettatamente dal trillo di un telefonino, canzoni belle come “City of Stars” e “Audition”, entrambe nominate agli Oscar, struggenti per i cuori sensibili, sono la voce triste delle situazioni di lui e di lei. Il tutto è magicamente vero, il legame tra il quotidiano con i piedi per terra e quello sospeso sulle note di una canzone è ben saldo, Chazelle ha il buon senso di tenersi in ogni inquadratura lontano dalla retorica e quel finale portato sulle note di un pianoforte è amaro ma è allo stesso tempo stemperato da un debole sorriso che racchiude la filosofia chiaroscurale dell’intera vicenda.

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Se il termine capolavoro non è sempre facilmente spendibile, questa volta credo si possa scrivere e pronunciare il termine a voce sicura. E quel capolavoro non sarebbe tale se Chazelle, riconosciuta appieno la sua conquistata maturità nel tener ben salde le redini e le componenti del film, non si fosse circondato di persone che hanno perfettamente avvertito il suo progetto e il suo intento, rivisitando con grande bravura un’epoca. Le musiche di Hurwitz, la fotografia folgorante con i suoi blu e gialli e verdi di Linus Sandgren, le coreografie di Mandy Moore e ancora il perfetto, scattante montaggio che si deve a Tom Cross, tutti segnano il successo di La La Land. Quanto sia stata lunga la preparazione per canzoni e numeri danzati solo loro lo sanno, ma anche Emma Stone e Ryan Gosling – lei già Coppa Volpi a Venezia, entrambi vincitori ai Globe e ora in prima linea per gli ambiti Oscar – hanno fatto centro, leggeri quanto basta, forse da preferire lui a lei se si volesse spaccare il capello a metà, che richiamano alla memoria gli immancabili Fred Astaire e Ginger Rogers ma senza fotocopiarli, camminando robustamente in piena libertà sulle proprie gambe e mettendo in campo personalità, umori, speranze e delusioni di una veridicità sorprendente.  

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