Non si contano quasi più i nemici del “Sultano”. Sono talmente tanti che spuntano da ogni parte ma lui sembra incrollabile, granitico come un giannizzero imperiale, e pronto a rispondere colpo su colpo. La Bisanzio del terzo millennio, sfigurata e insanguinata, resiste agli assalti del Califfo, alle cannonate dei curdi, dei golpisti, dei fantomatici gulenisti e alle pressioni europee contro la deriva autoritaria in atto. Non mancano poi gli attacchi di quelle cosiddette forze oscure, un intreccio devastante di nazionalisti, estremisti di sinistra e servizi segreti deviati, che tramano tra le moschee di Sultanahmet e il Bosforo per colpire nel mucchio nei momenti più critici.
Non è forse un caso che l’assalto armato di una giovane recluta jihadista (secondo la tv di stato turca è originario del Kirghizistan, repubblica dell’Asia centrale) alla discoteca dei vip a Istanbul (almeno 39 morti), rivendicato dall’Isis con un messaggio scritto per la prima volta in lingua turca, sia avvenuto poche ore dopo l’entrata in vigore della tregua tra il regime siriano e i ribelli che dovrebbe porre fine alla guerra civile. Il voltafaccia di Erdogan, passato dal sostegno iniziale al Califfo allo scontro totale degli ultimi mesi, ha irritato non poco i miliziani dello “Stato Islamico” che lo accusano di tradimento e puntano il dito contro una Turchia definita dalla propaganda del Califfato perfino “apostata e sostenitrice dei cristiani infedeli”. L’obiettivo della neonata Triplice Intesa, Russia-Turchia-Iran, è quello di chiudere in fretta la crisi siriana e spartirsi il territorio in sfere di influenza ma prima bisogna cancellare la presenza dell’Isis in Siria.
La riconquista di Aleppo non significa la fine del conflitto. I combattenti jihadisti resistono nell’est del Paese, a Raqqa e a Deir el-Zor, nei sobborghi di Damasco e hanno da poco ripreso Palmira. Da metà luglio, dal giorno del fallito golpe contro Erdogan, il Paese della Mezzaluna vive praticamente sotto assedio con un netto calo di turisti stranieri terrorizzati dall’eventualità di saltare in aria visitando un museo, una moschea, una chiesa bizantina o un bazar. La Turchia è nel mirino non solo dei terroristi jihadisti ma anche degli estremisti curdi del Pkk e del Tak (i Falchi per la libertà del Kurdistan) che dieci anni fa sono usciti dal Pkk e hanno rivendicato stragi e attentati. Tra autobombe, kamikaze e attacchi terroristici è stato un anno e mezzo di sangue per la Turchia, dall’esplosione a Diyarbakir durante il raduno del partito filo-curdo Hdp, in piena campagna elettorale, il 5 giugno 2015 (4 morti e 400 feriti) alla strage nella notte di Capodanno al Reina di Istanbul. Il Fronte curdo ribolle di tensioni sia dentro la Turchia che nei Paesi limitrofi.
Con i curdi turchi, repressi e bombardati, è in corso una lunga guerra interna e una lotta separatista da oltre 30 anni. Nel giorno in cui l’uomo forte di Ankara aveva presentato in Parlamento la sua riforma presidenziale, il 10 dicembre scorso, con la quale potrebbe restare al comando del Paese fino al 2029, due esplosioni sconvolsero la zona davanti allo stadio del Besiktas ma il bersaglio dei terroristi non erano i tifosi ma la polizia anti-sommossa. Nell’attacco, firmato dai falchi del Tak, sono morte 38 persone tra cui 30 poliziotti. Il movimento curdo aveva già colpito in tre occasioni l’anno scorso, due volte ad Ankara e una volta a Istanbul. Dopo l’attentato le autorità turche hanno arrestato un centinaio di membri del partito filo-curdo che in una Turchia sempre più “sultanizzata” vanno ad aggiungersi alle oltre 40.000 persone incarcerate negli ultimi mesi con l’accusa di far parte di gruppi terroristici. Sono finiti in galera anche 200 giornalisti oltre a scrittori, accademici, economisti, decine di politici tra cui i leader della formazione curda presente in Parlamento e numerosi amici e collaboratori del predicatore Fethullah Gulen, in autoesilio negli Stati Uniti dopo essere stato per tanti anni alleato di Erdogan che ora lo accusa di essere l’ideatore del tentato colpo di stato del 15 luglio. Per non parlare della chiusura di almeno 150 organi di stampa e case editrici. Ora si guarda con preoccupazione alla riforma costituzionale voluta dal partito al potere, l’Akp (Giustizia e Sviluppo) che trasformerà il Paese in una repubblica presidenziale dando a Erdogan ampi poteri esecutivi. Potrà emanare decreti legge, sciogliere il Parlamento e decretare lo stato di emergenza. Rimarrà in carica per due mandati, dieci anni in totale. I primi voti favorevoli alla riforma sono già arrivati nei giorni scorsi dalla Commissione parlamentare sulla riforma costituzionale. Poi toccherà all’Assemblea legislativa, e se sarà approvata, la riforma sarà votata in un referendum nella prossima primavera. Il sultano potrebbe governare fino al 2029 con poteri speciali, più a lungo di Ataturk, ma nel frattempo la guerra di Erdogan contro i suoi mille nemici è destinata a continuare. Migliaia di combattenti sono tornati dalla Siria ma sono arrivati anche dal Caucaso e dall’Asia centrale e si apprestano a colpire la Mezzaluna che prima forniva loro le armi e il sostegno logistico per rovesciare il regime di Assad e adesso invece li combatte insieme alle potenze cristiane.
Le immagini dei camion, scortati dai militari turchi, diretti in Siria con missili e bombe per i jihadisti dell’Isis e i qaedisti di Al Nusra hanno fatto il giro del mondo. Le epurazioni di Erdogan contro i golpisti estivi hanno indebolito soprattutto le forze di sicurezza, le unità dell’esercito e i servizi di intelligence incarcerando o allontanando dal lavoro migliaia di persone tra poliziotti e alti ufficiali. Anche per questi motivi si apre una fase molto pericolosa, a rischio per la stabilità del Paese, e l’elenco degli attentati potrebbe allungarsi. E verrà il giorno del giudizio. “I grandi condottieri della storia ottomana, come Solimano il Magnifico, giudicheranno il mio operato”, ricorda il sultano, nostalgico di ottomanesimo. Nella realtà dei fatti però il presidente turco non si ispira tanto a Solimano ma ai sultani più sanguinari e tirannici dell’Impero.
Filippo Re
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Fonte: settimanale “La Voce e il Tempo”, domenica 8 gennaio 2017
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