CRIMINI & MISFATTI ALL’OMBRA DELLA MOLE
A tutti affascina l’oscuro. C’è chi lo insegue, lo rincorre e chi, invece, ne ha paura e lo guarda da lontano, ma come un magnete si sente attratto e combatte con tutte le sue forze per non caderci dentro.
L’oscuro è l’altra parte di noi, quella che ci spinge verso il basso, verso la distruzione. Qualsiasi sia la nostra posizione a riguardo, quella parte di noi esiste. Ed proprio quella parte che aveva preso il sopravvento nella quotidianità di Franca Demichela. Quarantotto anni, il portafogli pieno di carte di credito, un cognome tanto altisonante quanto ingombrante. Una vita di eccessi, intervallati da una routine grigia e poco soddisfacente. Il suo corpo senza vita fu ritrovato in una discarica, sulla strada che porta a Moncalieri, una domenica pomeriggio di fine estate. Il medico legale dirà che la causa della morte è “un’asfissia polmonare dovuta a strangolamento”. Torino la ricorda come “la dama in rosso”, per quell’abito di seta a balze che indossava quando, pallida e ormai senza vita, fu ritrovata da un barbone. Non è mai stato trovato un colpevole per quest’omicidio e, stranamente, anche sfogliando le pagine dei giornali, non si riesce a trovare molto su questa vicenda, se non qualche riga sulle insolite abitudini della bella signora della collina. Eh già, perché Franca Demichela conosceva i piani alti della società torinese, ma altrettanto bene conosceva quelli bassi. Amava stupire e creare scompiglio. Amava alimentare il chiacchiericcio, ma soprattutto amava sapere che, fin quando quel chiacchiericcio esisteva, voleva significare che la sua piccola e personale lotta al perbenismo si stava compiendo. Girava per i bar, per i locali notturni, per le boutique con accompagnatori insoliti, nomadi, slavi. Era spesso in compagnia di prostitute. Niente che ci si aspetti dalla figlia di uno dei più grandi dirigenti della Fiat. Il bipolarismo della sua vita si è andato via via scontrando con la sua irrequietezza d’animo, e quelle due facce di sé, prima energicamente tenute distanti, ora si stavano confondendo e fondendo. Probabilmente questi eccessi non si limitavano a qualche passeggiata sotto i portici della città con persone poco raccomandabili; probabilmente la trasgressione della notte aveva preso il sopravvento. Lei stessa diceva di sé “sono magica e immortale, la reincarnazione di Nefertiti, la dea Egizia”. Si definiva quindi la regina della notte, ma quella notte l’ha pian piano inghiottita. Dalle poche informazioni che si hanno su quest’evento tanto tragico, quanto misterioso di sicuro si possono dedurre i conflitti, prima di tutto interiori, vissuti dalla donna. L’eccesso, in tutte le sue forme, nasconde l’instabilità. Alcune volte nella sua forma sana, quella necessaria all’uomo per darsi una scossa e promuovere un cambiamento personale, altre volte nella sua forma malata, patologica, quella che lo porta ad essere sempre “di più”, sempre più beffardo della vita, sempre più oltre il limite. E così la droga, l’alcol, il sesso con uno sconosciuto e a pagamento divengono un modo per sentirsi liberi. Nefertiti si sentiva oppressa in un ruolo non suo, la sua mente, ormai, sembrava vagasse nella fantasia di una vita senza catene. Da donna e nel rispetto di una donna non credo sia questa la sede dove potersi dilungare in diagnosi psicologiche fittizie e post mortem, mi sento, però, di riconoscere che quella “vita” così ostentata probabilmente nascondeva un vuoto abissale in cui non era difficile perdersi. E probabilmente di fronte a questo vuoto così magicamente camuffato si sentiva inerme anche Giorgio Capra, marito sulla carta, estraneo nella quotidianità. Dal 1977 i due erano legati da questo sacramento che di sacro aveva ben poco. La donna lo maltrattava di continuo, incurante della gente che poteva ascoltare, lo sbeffeggiava e derideva. Lui, uomo mite, contabile della stessa azienda di cui il suocero gestiva i piani superiori, quegli stessi piani di cui la moglie conosceva ogni segreto e chiave d’accesso e che lui guardava da lontano. Succube di un amore che lo ha travolto. Succube di una donna che lo ha travolto anche morendo. Lui il giorno, piovoso, grigio e freddo, lei la notte magica, misteriosa, passionale. Passione, che non li ha mai visti complici. Probabilmente una coppia con istinti capaci di intrecciarsi in un modo tutto loro, dove il vittimismo e la sudditanza da un lato e il sadismo e la violenza dall’altro, diventano l’unica forma di piacere.
Quando ci si trova dinnanzi ad una personalità così tanto variegata è facile immaginare i moventi plausibili che possano aver condotto all’omicidio. Ma perché il colpevole non è mai stato trovato? Era il 1991, la polizia non possedeva ancora gli strumenti tecnologici adatti per analizzare le prove e probabilmente è stata anche un po’ sfortunata. Perché in un’indagine non bastano i sospetti e quando le poche prove che si hanno si dirigono tutte in un’unica direzione è facile perdere di vista le altre mille esistenti. Cerchiamo ora di ricostruire insieme gli ultimi momenti di vita della donna. Era sabato sera, un altro sabato sera di divertimento. Una volante della polizia sostiene di aver visto, intorno alle 23.30, la donna in macchina accompagnata da tre slavi. Questi tre uomini (uno dei quali allora minorenne) hanno riferito, poi, di aver lasciato la donna in piazza San Carlo intorno all’una perché lei aveva un appuntamento con una persona di cui non conoscevano l’identità. La versione è stata confermata dal cameriere del bar della piazza il quale ha riferito che intorno allo stesso orario la donna avrebbe salutato gli amici e sarebbe salita sulla sua auto, una 126. Intorno alle due di notte una vicina di casa della donna riferirà poi di aver sentito le urla provenire dal portone di casa. Era un litigio. La voce della donna gridava:“Bastardo, ti faccio vedere io!” e una voce maschile replicava: “Ma io ti faccio interdire!”. Furono, nei giorni a seguire, immediatamente fermati i tre slavi rilasciati poi per insufficienza di prove. Il marito per quella sera aveva un alibi: dormiva dai suoi genitori. Quest’alibi verrà poi scardinato e messo in discussione, ma anche il ritrovamento dei gioielli della donna all’interno della macchina del marito non fu ritenuta una prova valida per convalidare il fermo. Era, infatti, plausibilmente vera la versione data dall’uomo, e cioè quella di tutelare la famiglia ed evitare che la moglie spendesse e continuasse a vendere, per il suo divertimento, tutti beni da loro posseduti.
Nessun colpevole, ma una donna strangolata. La testimonianza della vicina di casa, probabilmente l’indizio più importante, venne ritenuta attendibile ed è su quest’attendibilità che si dovrebbe far convergere l’attenzione. Il linguaggio usato nella lite era un linguaggio confidenziale, entrambi erano nel portone di casa della vittima quindi si presume che la donna conoscesse l’assassino. Si potrebbe a questo punto controbattere che la Signora era solita far salire anche sconosciuti a casa sua per pagarsi le sue ore di piacere, ma le parole usate dall’uomo indicano un legame. Quale sconosciuto userebbe la parola “interdire”? L’interdizione implica anche un tornaconto. Se una persona è pazza, posso chiedere l’interdizione per evitare che faccia qualche danno, a se stessa, agli altri e a me. Ad esempio se la vittima, con i suoi comportamenti, a tratti psicotici e deliranti, stava sperperando un patrimonio, qualcuno che l’amava magari voleva evitare che cadesse in rovina. La parola “interdizione”, inoltre, implica, una buona conoscenza della lingua, di conseguenza risulta difficile attribuirla a persone extracomunitarie. Lo strangolamento, come scelta per uccidere, nasconde sentimenti irrisolti di rabbia e rancore. È un omicidio non premeditato, impulsivo, fatto sulla scia di uno stato di coscienza presumibilmente alterato. Cosa poteva aver fatto la vittima per generare una reazione così tanto violenta? Di sicuro tale violenza non è legata ad una singola azione o gesto; con molta probabilità l’assassino covava questo sentimento già da tempo. Del resto anche gli inquirenti sospettavano che i vari soprusi subiti dal marito fossero il motivo per cui, esasperato, poteva esser giunto alla messa in atto di un reato. Non si vuole qui accusare nessuno né ipotizzarne il coinvolgimento in questa vicenda, ma credo che un possibile motivo per cui non è mai stato trovato un colpevole, sia riconducibile al fatto che le indagini non sono mai state, “allargate” al resto delle persone con cui la donna aveva un legame. Un legame di sangue, o di affetto o di lavoro. Ma un vero legame. Un legame così forte da giustificare tanta rabbia. Non per niente si definisce l’omicidio“il reato più intimo”. Erano così tanti gli intrecci possibili, i contatti e le conoscenze che la donna aveva, che i poliziotti si sono trovati di fronte ad un mare di sospetti che si dissolsero tragicamente nel nulla,perché erano così tanti quanto confusi e vaghi. Nefertiti vagava per le strade di notte, faceva nascere sorrisi, dispensava sogni. Di giorno, invece, erano tutti un po’ più adirati con lei.
Teresa De Magistris
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