Addio a Adriana Innocenti, grande attrice di teatro

Torna oggi alla mente quel che Testori le disse, all’indomani della messa in scena di Erodiade: “Adesso so che la tua arte va oltre la grandezza e si pone su quella soglia, per me rarissima, in cui l’interprete confina con la Testimone. Ho conosciuto qualche grande attrice (poche per la verità); ma nessuna che sapesse essere tanto più umile quanto più grande si faceva sulla scena, come invece tu sei stata, di giorno in giorno, e sei”

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Restano tanti ricordi, oggi, di Adriana Innocenti, scomparsa ieri mentre passo dopo passo, sempre più incerti, stava raggiungendo il traguardo dei novanta. Resta quel carattere indomabile, quella sua voce potente che sembrava ogni volta venir su dalle viscere del palcoscenico, quel viso mobilissimo e quegli occhi che dopo le frasi di rito, penso a certe conferenze stampa, risputavano una smorfia da monella, uno sberleffo, una battuta, resta quella gran voglia di viverlo il palcoscenico, quasi con rabbia, sempre con passione, non staccarsi da lì, di prolungare i tempi e gli spazi, mentre il compagno Piero Nuti la tirava via, con un sorriso, caldo, pieno d’affetto. Restano gli appuntamenti più recenti, perché alzi la mano chi non se l’è goduta, fino a ieri, negli appuntamenti di fine anno con Trappola per topi della Christie o grazie alla tragedia greca con cui apriva ogni anno la stagione dell’Erba, facendone anche una palestra per i nuovi attori. Resta il ricordo personale di chi scrive, quando in una lontanissima stagione dello Stabile torinese guidato da Franco Enriquez scopriva con la Mascia del Gabbiano cecoviano quell’interprete altissima che contribuiva a rinforzare una passione per il teatro che era nata da poco, quel carattere, quel temperamento alleggerito in quell’istante da una dolcezza e da un sogno senza confini, sul fondo della scena, capacissima a rubarla, mentre in primo piano Brignone e Mauri, Moriconi e Pani costruivano il mondo di rinunce dello scrittore. Resta soprattutto una lunga storia di teatro, di televisione, di radio e di cinema, a dire come l’attrice abbia attraversato senza inciampi tutte le strade dello spettacolo italiano. S’era diplomata all’Accademia INNOCENTI1Nazionale d’Arte Drammatica e aveva debuttato in teatro con La cena delle beffe nella compagnia di Annibale Ninchi, immediatamente dopo la guerra. Poi una lunga gavetta, tanti titoli e tanti personaggi, sino ad approdare allo Stabile di Torino, prima con Gianfranco De Bosio, con i testi (riscoperti) ruzantiani dell’Anconitana e dei Dialoghi, e con Enriquez poi, passando da Shakespeare alla Locandiera goldoniana agli autori contemporanei come il Wesker di Radici. Tra i registi che l’hanno diretta ricorderemo almeno ancora Luchino Visconti, Vittorio De Sica (“Liolà”), Luigi Squarzina, il sodalizio con Nuti e Maurizio Scaparro per il Teatro Popolare di Roma (“La vendetta della vecchia signora” di Dürrenmatt diretto da Pino Micol), come per il cinema s’affidò a Monicelli, Comencini, Pupi Avati, Ettore Scola, Lizzani, ad Alberto Bevilacqua per Attenti al buffone. Giorgio Strehler la chiamò al Piccolo di Milano per l’opera da tre soldi e per tre intere stagioni fu la signora Peachum, condivise con Sandro Massimini, Elio Pandolfi e Aurora Banfi l’amore per l’operetta, dalla Principessa della Czarda al Paese dei campanelli, fu insignita di premi prestigiosi come il San Genesio (per la Venexiana) o gli Idi annuali a Saint Vincent, incrociò la strada di Giovanni Testori che per lei scrisse l’applauditissimo e richiestissimo Erodiade, rappresentato anche all’estero, mise su pagina i suoi ricordi di vita e di arte in A piedi nudi nel teatro parafrasando con allegria Neil Simon. Sul finire del secolo scorso trovò nuove amicizie ed una casa a Torino. Germana Erba e Gian Mesturino la considerarono come la colonna di Torino Spettacoli.

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Nascono tra gli altri Arsenico e vecchi merletti di Kesserling, Agatha, signora degli enigmi di Groppali, Le troiane, Il Calapranzi di Pinter in abiti maschili, il goldoniano Osteria della posta. Una vita intera ad amare la propria professione, a inventare, a passare da un tempo all’altro, a rivisitare gli antichi e a scoprire i moderni, tra caparbia e affetto. Torna oggi alla mente quel che Testori le disse, all’indomani della messa in scena di Erodiade: “Adesso so che la tua arte va oltre la grandezza e si pone su quella soglia, per me rarissima, in cui l’interprete confina con la Testimone. Ho conosciuto qualche grande attrice (poche per la verità); ma nessuna che sapesse essere tanto più umile quanto più grande si faceva sulla scena, come invece tu sei stata, di giorno in giorno, e sei”.

Elio Rabbione

 

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