Lucidamente, l’attore ci rende un protagonista in maniera grandiosa, fatto di ragionamenti e di bassezze, di sorrisi e di crudeltà, lo costruisce e lo scompone, si trincera in esso per poi sgusciarne fuori sino al proprio annientamento, facendo con esso lucida distruzione di quanti gli stanno intorno, intrappolati davvero nella stanza della tortura
C’è quel “Buffoni, buffoni, buffoni”, c’è quel “Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo” a stabilire un prima e un poi, a decifrare la finzione e la realtà, la maschera della follia ed il concreto vivere quotidiano. Franco Branciaroli, nell’avvicinarsi all’Enrico IV pirandelliano (visto al Carignano per il cartellone dello Stabile torinese) nella doppia veste di regista e interprete, definisce nettamente questa duplice condizione. Da un lato, l’arrivo dei compagni di un tempo, su un divertente carrello-automobile che può ricordare certi marchingegni di scuola ronconiana, nel luogo dove l’antico gentiluomo ha nascosto la sua solitudine (quanto simile al definitivo Cotrone dei Giganti) e la propria pazzia simulata, con i loro abiti moderni, giustamente aggiornati con i difetti e le paure della società in cui noi stessi viviamo, con il loro tentare di inscenare quella recita che dovrebbe risvegliare il protagonista, lo stesso che circa vent’anni prima, durante una sfilata in costume, venne sbalzato da cavallo, battendo la testa e imprigionandosi da allora in quella maschera di Enrico IV che quel giorno portava per divertimento: un blocco che culmina nella “recita” del protagonista, di Enrico flagellato pronto a prodursi in una camaleontica gara con le proprie corde vocali, con i falsetti e con i tratti baritonali, con un gigionismo senza redini, con le esasperazioni e le burle intorno ad un teatro antico e polveroso, in uno sciorinare grandioso di sospetti, di ricordi vani e di tentativi tra il passato e il presente, di riconoscimenti lasciati intendere o negati.
Come ad un riaprirsi di sipario – complice la sghemba gabbia scenografica inventata da Margherita Palli, a tratti quasi soffocante, fatta di dipinti velati, di porte aperte sul nulla, di pedane zigzaganti, di cavalli in gran movimento e di stendardi, complice soprattutto quel disco di luna che s’insinua nella tristezza della narrazione, nei rimpianti e nella consapevolezza disincantata del piccolo mondo – il protagonista svela la sua nuova condizione e s’umanizza, mostra come già da tempo abbia abbandonato le vesti antiche e con esse la malattia, mette la compagnia dinanzi alle avventure di vent’anni prima, la marchesa Spina, il fatuo Belcredi ricco di gesti e di parole, il traditore, tutti gli altri, anche lo psichiatra che con le sue disquisizioni scientifiche si pone in attività di sarto, di confezionatore d’abiti intesi come involucro/maschera, lui venuto freudianamente a risolvere la questione. Ma è sufficiente un colpo di pugnale e il protagonista ricadrà nella maschera di folle, sarà per sempre costretto a rifugiarsi in quella pazzia da cui per un attimo ha tentato di sottrarsi: in tutta la intelligente bellezza del finale, quando il medico, lui issato su di un cavallo, gli pone in testa la corona, Enrico eterno.
Non è assurdo sottolineare, ripensando alle tante edizioni viste del dramma in passato, come sopra ogni altro Branciaroli abbia approfondito il discorso del “teatro nel teatro”, come sappia avvicinare Enrico agli spazi più ampi e da sempre canonizzati dei Sei personaggi, come il dramma sia una recita nella recita, come lui ami andare avanti lungo una strada che gli ha già fatto incrociare Harwood con il vecchio attore shakespeariano di Servo di scena o Il teatrante di Bernhard, come inglobi il pensiero pirandelliano dell’essere e dell’apparire in un più vasto e profondo discorso teatrale. Lucidamente, l’attore ci rende un protagonista in maniera grandiosa, fatto di ragionamenti e di bassezze, di sorrisi e di crudeltà, lo costruisce e lo scompone, si trincera in esso per poi sgusciarne fuori sino al proprio annientamento, facendo con esso lucida distruzione di quanti gli stanno intorno, intrappolati davvero nella stanza della tortura.
Elio Rabbione
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