New York (come non l’avete mai vista) e le sue storie

new york cognettinew york cognetti coperttinaNon è un caso che il 37enne scrittore milanese sia stato l’ospite d’onore della serata “Xmas in New York” organizzata dal Circolo dei lettori di Torino che, per l’occasione, si è trasformato nella città delle mille luci, tra musiche, installazioni video e libri

 

New York come non l’avete mai vista: attraverso 22 racconti di grandi autori che lo scrittore Paolo Cognetti ha scelto e condensato in “New York Stories” (Einaudi). Una bussola letteraria per orientarvi tra le pagine più belle sulla Grande Mela nel 900. Dagli anni ruggenti di F.S. Fitzgerald e Dorothy Parker alla grande migrazione, passando dall’”isola che galleggia su acqua di fiume come un’iceberg di brillanti” di Truman Capote all’età ribelle di Grace Paley e Joan Didion, per finire alla luminosa decadenza nelle pagine di Delillo e Whitehead.

 

Non è un caso che il 37enne scrittore milanese sia stato l’ospite d’onore della serata “Xmas in New York” organizzata dal Circolo dei lettori di Torino che, per l’occasione, si è trasformato nella città delle mille luci, tra musiche, installazioni video e libri.

 

Cognetti è infatti il condottiero ideale per scoprire gli angoli meno turistici della Grande Mela 2.0. Appassionato di letteratura americana (soprattutto ebraico – newyorkese) da anni esplora la capitale dei suoi libri e scrittori preferiti. L’ha raccontata in “Tutte le mie preghiere guardano verso ovest” (Edt) alla scoperta dei sapori della Big Apple; “New York è una finestra senza tende” (Laterza); e nella serie “Scrivere/New York” da cui è tratto il documentario “Il lato sbagliato del ponte”, affascinante viaggio tra gli scrittori di Brooklyn (nel dvd allegato al libro “New York è una finestra senza tende”)

Tra le tante definizioni letterarie, Cognetti preferisce quelle che delineano “una città in cui si arriva dopo un lungo viaggio, degli emigranti”; adotta volentieri il soprannome Gotham, con cui nell’800 Washington Irving, (alludendo alla cittadina inglese i cui abitanti si finsero pazzi per non pagare le tasse) ironizzava sull’eccentrica popolazione newyorkese; e a sua volta la definisce «Capitale del desiderio, di gente che vuole qualcosa, nella vita e nel lavoro. Quasi nessuno è nato lì, quasi tutti sono arrivati da altrove e questo loro desiderare è l’energia tipica che si sente moltissimo».

 

Tu a New York cosa cerchi, e l’hai trovato?

«Ci vado almeno una volta all’anno per scrivere e cerco di sfruttare i 3 mesi del visto. La vivo molto in solitudine, camminando nelle mie zone preferite. Scrivo tantissimo perché l’energia della città, e delle persone che ce la stanno mettendo tutta, è contagiosa e mi spinge a lavorare».

 

Il modo migliore per scoprirla?

«Fermarsi non solo a Manhattan. Stare vicino all’acqua, camminare lungo i moli e vedere cosa succede lì. Andare dall’altra parte dell’East River, a Brooklyn e nel Queens, per capire cos’era New York una volta. Il Queens ha oltre 3 milioni di abitanti di 15 etnie diverse: la linea 7, l’International Express, è la sopraelevata che lo attraversa fino a Flushing: il giro del mondo in 21 fermate.Scoprirlo dall’alto è un buon modo. Poi magari scendere ed esplorare qualche quartiere etnico».

 

Il tuo primo flash e le tue cartoline preferite della città?

«Le scale antincendio e le cisterne di acqua sui tetti sono il primissimo ricordo e le cartoline che, insieme ai ponti e al porto, amo di più. Sono legato all’idea novecentesca industriale di New York».

 

Il tuo posto del cuore e quello in cui, invece, ti senti più solo?

«Amo Red Hook, il vecchio porto di Brooklyn, dismesso dagli anni 60 in poi quando le navi erano troppo grandi per attraccare. Ma tutta la costa di New York è un immenso porto abbandonato, riprogettato in parchi, capannoni, gallerie d’arte e ristoranti. Mi sento solo a Times Square e nelle zone del turismo mondiale votato al consumismo più bieco».

 

Cosa potrebbe piacere della New York odierna a Fitgerald e Dorothy Parker?

«Temo ben poco perché negli ultimi 15 anni si è molto imborghesita ed è meno interessante».

 

Se potessi incontrare i tuoi scrittori preferiti cosa gli chiederesti?

«Più che altro vorrei fare delle cose con loro. Con Hemingway una partita di pesca, prendermi una bella sbronza con Carver, meglio ancora con Bukowsky. Farei l’autostop con Keruac e con la Parker andrei in qualche bettola di sua conoscenza».

 

Perché l’epicentro letterario oggi è Park Slope a Brooklyn e non Manhattan?

«Brooklyn, grande il triplo di Milano, ha quartieri di ogni tipo, tra cui Park Slope, dove molti artisti si sono spostati in base al mercato immobiliare più favorevole. Manhattan è carissima, proibitiva soprattutto per chi ha famiglia e vuole una casa più grande. Già nell’800 Park Slope fu progettato come quartiere per ricchi e gli architetti che hanno creato Central Park sono gli stessi che hanno pensato a Prospect Park come sua evoluzione».

 

Hai incontrato e filmato gli scrittori di Park Slope, che emozione è stata?

«Era necessario stare almeno una settimana con ogni autore. Alcuni, come Auster e McInerney dissero di no; in compenso quelli che acconsentirono, furono molto gentili e mi colpì la loro disponibilità. Ho scoperto che sono gran lavoratori, si alzano la mattina presto e si danno da fare. Niente a che vedere con l’idea romantica del genio ubriacone che scrive alle 3 di notte. E sono rimasto molto legato a Rick Moody».

 

Dove vivi a Brooklyn?

«Sempre nella casa di un amico italoamericano. Un luogo pacifico che ha le 2 anime di Brooklyn: se ti affacci da un lato vedi i classici back garden, bellissimi giardini interni con barbecue, orto e piscine gonfiabili; dall’altro invece la superstrada che taglia in due il quartiere, con il passaggio dei camion che fa vibrare la casa».

 

Tu hai due passioni, la montagna e NewYork: come le concili?

«Sono entrambi luoghi avventurosi e selvaggi, dove spesso sto volontariamente da solo. Dei ritiri in cui concentrarmi sulla scrittura. Ho sempre con me un quaderno e quando sono a Brooklyn, più che prendere appunti, mi capita di sedermi in un bar e scrivere sulla montagna; viceversa, sui monti, guardo i boschi e scrivo di Brooklyn. Mi serve una certa distanza dalle cose».

 

Il tuo prossimo viaggio a Gotham?

«Spero molto presto, per presentare il libro».

 

Consigli di lettura per scoprire la città?

«Libri non scontati. Tutti quelli di Mario Maffi, “Bartebly lo scrivano” di Melville, e per chi legge in inglese “Up in the old hotel” di Joseph Mitchell».

 

E i musei?

«Quelli sull’immigrazione. A Ellis Island; poi il Tenement Museum sulle case popolari, nel lower east side; e l’African Buriel Ground, vicino a Wall Street, costruito su uno dei primi cimiteri afroamericani del 700».

 

Laura Goria

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