Grande successo del film, una metafora delle conseguenze in Italia di 50 anni di potere democristiano. Vanta la magistrale interpretazione di Herlitza
Sta riscuotendo un notevole successo nelle sale torinesi l’ultimo film di Marco Bellocchio, “Sangue del mio sangue”, ambientato a Bobbio, in val Trebbia, un luogo particolarmente caro al regista, dove la sua numerosa famiglia ha da sempre casa e trascorre la villeggiatura. Di qui la ragione del titolo e della scelta di ambientarvi, in passato, le sue storie più legate all’autobiografia, tra cui il documentario “Vacanze in val di Trebbia”. Il film si concentra su due episodi datati tra Il Seicento e Il Duemila, strettamente complementari, strutturati quasi secondo il procedimento della “mise en abyme”, del racconto nel racconto. La complementarietà nasce dal fatto che sono interpretati dagli stessi attori e figuranti. Nel passato una giovane piacente, una suora, è interpretata dalla Liberman, che ha sedotto il suo giovane confessore che, per il rimorso, si è ucciso annegandosi nel fiume. Il suo gemello soldato, Federico Mai, interpretato da Piergiorgio Bellocchio, bussa alla porta del convento per ottenere il seppellimento del fratello in terra consacrata, non possibile fino a quando la donna non confessera’ la colpa. Il luogo in cui è ambientato il film è un convento di clausura, rimasto chiuso per trent’anni, che, in realtà, ospitava detenuti per piccole pene, ma con un impianto scenografico simile a un carcere duro.
La figura della suora murata, nelle intenzioni del regista, vuol richiamare quella della monaca di Monza. “Sangue del mio sangue” però non presenta soltanto la sezione seicentesca, con il processo alla suora strega, nel convento di clausura, e con la decisione del Tribunale dell’Inquisizione di murarla viva, ma lascia largo spazio anche a un’altra figura, quella del conte-vampiro, interpretata magistralmente da Roberto Herlitza, che, secondo alcuni critici, non sarebbe niente altro che la rappresentazione del potere democristiano. Il regista non si è preoccupato nel film, come egli stesso ha dichiarato, dell’architettura drammaturgica, ma ha scelto una concatenazione delle sfere temporali; il dominio della Chiesa cattolica nel Seicento, paradossalmente, conclude la sua parabola con il dominio democristiano in Italia, che, pur permettendo un relativo benessere secondo il regista, avrebbe succhiato il sangue a quella che è stata una prospettiva di cambiamento e di novità per il nostro Paese, fingendo di garantire per cinquanta anni la democrazia in Italia.
Mara Martellotta
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