Allora, come lo vogliamo questo docente?
Competente, affabile, simpatico, comprensivo, preciso, serioso, preparato, innovativo, creativo.
Sarebbe meglio fosse sempre disponibile e con un perenne sorriso sul volto a mascherare la stanchezza.
Dovrebbe poi mostrarsi attento ai bisogni delle famiglie e alla quantitàdi compiti assegnati per casa: abbastanza da ripassare gli argomenti ma non eccessivi da intralciare lo sport pomeridiano; egli poi dovrebbe essere sufficientemente accorto da redarguire talvolta l’alunno, ma senza arrivare al punto d’inserire note sul registro di classe, appassionato e devoto al proprio mestiere, esigente certo, tuttavia non così rigoroso dal sostenere un’eventuale bocciatura a fine anno.
Senza tralasciare le “skills” individuate dalla Commissione Europea che ogni professionista dell’educazione dovrebbe avere intrinseche nel DNA, quali l’affabulazione, l’essere resilienti, possedere un’ottima gestione dello stress ed una buona abilità nel comunicare e nel cooperare; vi sono inoltre altre caratteristiche, richieste dall’opinione comune, che riguardano la capacità d’iniziativa, di pianificazione e autonomia nel lavoro, nonché discreta attitudine al problem solving ed all’auto analisi. Chiude questo infinito elenco di richieste l’ovvia e dovuta vocazione atta ad intrattenere e affascinare classi colme di adolescenti, propensi a mantenere l’attenzione per massimo cinque minuti e ormai disinteressati a quasi tutto ciò che li circonda.
Ora che abbiamo scelto il personale, passiamo oltre: come la vogliamo questa scuola?
Digitale o antiquata, con o senza zaino, con meno o più vacanze?
Vi dico la verità, cari lettori, l’impressione –personale ovviamente- èche le pretese stiano aumentando a dismisura, così come le prese di posizione per questi “diritti” che però mai s’accompagnano ai sacrosanti “doveri”.
E in questo singolare momento storico, in cui, per la prima volta, viene effettivamente messa in discussione l’essenziale importanza dell’istituzione scolastica, per la crescita e la formazione dell’individuo in qualità di futuro cittadino, pare che tutti si sentano in diritto di enunciare la propria verità riguardo a tale sistema educativo, ormai considerato vetusto ed inadeguato.
Mi sento di ribadirlo: le uniche persone in grado ed in dovere –qualora lo ritenessero opportuno- di pronunciarsi a proposito di cambiamenti e modifiche al sistema scolastico, sono quelle medesime figure attualmente impiegate negli istituti d’istruzione, che giornalmente s’imbattono in numerosi studenti, di età disparate, ciascuno con le proprie peculiarità e le specifiche attitudini.
Un fatto rimane, la scuola di oggi non solo non è quella di ieri, ma non potrà mai diventarlo.
Viviamo ormai in una società che comporta e richiede dei cambiamenti, tra i quali un rinnovato approccio pedagogico-educativo, volto ad accompagnare i giovani nativi digitali lungo il loro percorso di crescita, attraverso un’azione formativa che si dimostri al pari con i tempi.
La sfida che devono affrontare i professori oggi è tutt’altro che semplice, evenienza che forse richiederebbe un po’ più d’attenzione e, perché no, un rispetto maggiore.
Ecco il motivo per cui ritengo che una riflessione sia d’obbligo.
In questo contesto di evidente mutamento, è facile salire in cattedra –permettetemi l’espressione- e giudicare le azioni e le decisioni prese dai professori, che talvolta possono passare per superficiali, affrettate o addirittura sbagliate, eppure l’errore più grande, commesso dai più, sta nel dimenticarsi che si tratta di professionisti, esperti del settore educativo, pedagogico e relazionale e, soprattutto, individui abituati a condividere tempo e spazi con i ragazzi, i quali –ripeto- hanno abitudini e visioni diverse rispetto a quelle degli adolescenti delle generazioni precedenti.
L’uso invasivo dei media e la costante presenza dei social nell’esistenza di tutti, nonché la generale perdita del riconoscimento dei ruoli istituzionali e familiari, fanno sì che anche la norma che regola la vita di classe esiga delle trasformazioni, tra queste anche un innovativo rapporto studente-docente.
Ed ecco l’inghippo: qual è la modalità giusta per avvicinare le nuove generazioni, per ottenere un rispetto che fino a poco tempo fa era dato per scontato, per guadagnarsi la fiducia degli alunni, come conquistare attenzione e collaborare?
Mi hanno molto colpito le parole di Roberto Vecchioni, pronunciate su La 7 a “In altre Parole”, il programma condotto dal giornalista Massimo Gramellini: “L’insegnante non deve essere amico degli studenti. Il docente ha un ruolo e un’autorità. Agli studenti deve dare certezze”.
L’affermazione si inscrive in un discorso più ampio, riguardante l’episodio avvenuto in una scuola bolognese, in cui la Dirigente ha proposto precise sanzioni disciplinari per gli studenti bulli, che si sarebbero ritrovati a dover zappare l’orto dell’edificio scolastico mentre rimuginavano sulle proprie malefatte.
In qualità di docente mi trovo più che d’accordo sul fatto che non possa nascere una vera e propria “amicizia” tra professori ed allievi, non solo per i ruoli formali degli uni e degli altri, ma per una serie di altre motivazioni non meno importanti, quali ad esempio la differenza d’età, la diversa prospettiva di vita o le difformi abitudini quotidiane che diversificano il mondo gli adulti da quello dei giovani.
In tutta sincerità credo che se è necessario un tale appunto, forse siamo ormai estranei al concetto stesso di amicizia.
D’altro canto, dopo un’attenta riflessione basata sull’esperienza di questi anni d’insegnamento, mi sento di pormi come una sostenitrice di una tipologia di relazione “amichevole”, volta a creare un ambiente d’apprendimento positivo e propositivo, pur tenendo ovviamente conto dei doveri e dei limiti annessi non solo alla figura del docente, ma anche a quella dell’allievo.
Chi sceglie di fare questo mestiere ha ben chiara l’influenza che puòsuscitare un professore su un ragazzo in fase di crescita e sviluppo, in continua ricerca di approvazione e che si trova nel delicato momento di strutturazione della propria identità.
Per fornire solide basi culturali, l’insegnante si avvale delle proprie competenze disciplinari, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzative ma soprattutto relazionali, grazie a queste ultime infatti il docente cerca di risvegliare l’interesse negli studenti, tenta di appassionarli, di pungolare la curiosità e la voglia di conoscere, qualità che accompagneranno i fanciulli per tutti la vita.
La relazione dunque deve svolgere un ruolo di primaria importanza, èessenziale instaurare un clima accogliente e comprensivo, un contesto educativo adeguato allo svolgimento delle attività scolastiche e consono nel far sentire a proprio agio gli studenti.
Questa è la teoria, poi c’è la realtà dei fatti.
Come concretizzare questi buoni propositi? Come appassionare questi giovani, disillusi e apparentemente privi di interessi? Qual èl’atteggiamento più consono per avvicinare tali ragazzi, lasciati sempre più soli davanti agli schermi, eppure eccessivamente protetti, ed inaspettatamente non più abituati a relazionarsi, né tra pari né con gli adulti?
Nessuna verità inconfutabile, solo un’opinione personale.
Forse un atteggiamento disponibile e cordiale potrebbe essere una buona idea, qualche battuta per ridimensionare la distanza tra le parti, dei sorrisi per far comprendere che si è comunque parte di una squadra, anche se c’è chi guida e chi segue. Inoltre un comportamento “amichevole” non significa “amico” né vieta il diventare “autorevole”, qualora il momento lo renda necessario.
Sdrammatizzare la lezione, trattare con rispettosa leggerezza un dato argomento o condividere un momento “simpatico” con i propri studenti, non può di certo essere un male, al contrario, attraverso lo sfoggio di una gentilezza costante ed una condotta genuina e spontanea, si può entrare in relazione anche con gli individui piùostici, che, come sappiamo, sono spesso proprio coloro più bisognosi di attenzioni e fiducia.
E se, infine, dopo essersi compresi vicendevolmente, un alunno si sbilanciasse a “chiedere aiuto” al docente per una questione di cuore, che male ci sarebbe?
Aprire un dialogo sicuro su questioni più personali, che esulano prettamente dalla didattica, potrebbe essere un modo ulteriore per supportare l’adolescente nelle proprie scelte di vita, per sostenerlo di fronte ad una decisione difficile, magari un amore finito o uno appena incominciato, perché vedere in questa tipologia d’approccio un limite, un abbassamento del ruolo di docente e non un’opportunità in più, per dimostrasi ancora una volta una guida, un punto fermo, a cui i ragazzi possano far riferimento sempre, e non solo in ambiti nozionistici?
Le mie rimangono domande aperte, che tengono comunque conto del fatto che ogni istitutore, in qualità di professionista, è libero di scegliere il proprio modo di impostare la relazione con la classe, in tal senso gli alunni avranno altresì l’opportunità di visionare diverse tipologie d’approccio e potranno imparare a confrontarsi con diversi modelli, modulando il proprio atteggiamento nelle varie situazioni.
Troppo spesso ho sentito sminuire la problematica degli atteggiamenti scorretti degli studenti e troppo spesso ho letto che “la colpa” va data al professore, che non è in grado di gestire la classe, che non si èimposto sugli alunni, che non è stato capace e via discorrendo.
Il problema è decisamente più complesso e articolato, e riguarda un discorso educativo che non può essere relegato esclusivamente all’ambito scolastico, inoltre, siamo sicuri che serva davvero piùdistanza e maggiore severità per risolvere tale problematica riguardante un sempre più diffuso disagio giovanile?
La scuola è cambiata, la società anche, eppure i giovani, a mio modesto parere, hanno le medesime fragilità che abbiamo vissuto noi alla loro età, la differenza sta nel come i ragazzi oggi decidono di (non) affrontare gli ostacoli della vita, un po’ perché il mondo oggi vuole individui inattivi e controllabili, un po’ perché noi adulti ci crogioliamo in questa contemporanea sindrome dell’infermiere.
Io me li ricordo i miei professori, ognuno con il proprio metodo educativo, e mi rammento bene di come io ed i miei compagni ci comportavamo in maniera differente a seconda di chi entrava in classe.
Anche grazie agli esempi dei docenti che mi hanno accompagnato lungo il mio percorso scolastico sono oggi in grado di ragionare criticamente sulla modalità di relazione da adottare in classe, appoggiandomi alla tipologia educativa che ritengo più vicina al mio modo di essere.
A distanza di tempo mi rendo altresì conto di come non ci sia in realtàun unico archetipo corretto, ogni personale attitudine influisce sulla formazione del carattere dello studente, lo forgia e lo sostiene nei diversi bisogni della vita.
Quel che ricordo bene inoltre è che nessun docente si è mai permesso di giudicare apertamente un collega su come gestiva la classe, né un genitore o una qualunque persona estranea all’ambito scolastico. Ricordo che l’azione educativa non era mai messa in discussione, nétantomeno la figura stessa del docente.
Questo è forse il vero limite da rispettare.
ALESSIA CAGNOTTO
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