Il 29 luglio 1890 Vincent Van Gogh si spegneva nella piccola camera dell’Auberge Ravoux che aveva raffigurato più volte nei suoi quadri durante i mesi trascorsi ad Auvers sur Oise, comune francese situato nel dipartimento della Val d’Oise, nella regione dell’Ile de France.
Oggi, a distanza di 128 anni dal suicidio del grande artista olandese, tutto ad Auvers sur Oise continua a parlare degli ultimi mesi della vita tragica e intensa di Vincent, il genio visionario che stravolse l’arte e che riuscì, in pochi anni, a passare dalle cupe atmosfere fiamminghe dei “Mangiatori di patate” ai gialli intensi dell’abbacinante Provenza, dai paesaggi di chiara influenza impressionista ai rami di mandorlo in fiore che richiamano le stampe giapponesi, dono per un altro Vincent, il piccolo figlio dell’amato fratello Theo, fino all’ultimo quadro, il lascito testamentario, “Campo di grano con volo di corvi” dipinto poco prima di spararsi.
Fu Paul Gachet, medico, pittore dilettante e appassionato collezionista, a far conoscere all’artista di Zundert Groot, Auvers sur Oise, località dove possedeva una casa e dove avrebbe potuto aiutarlo a riprendere una vita normale dopo il periodo di internamento nel manicomio di Saint Remy a seguito del taglio dell’orecchio.
Van Gogh rimase colpito dalla bellezza bucolica della cittadina sull’Oise e andò ad alloggiare dai Ravoux, una famiglia che gestiva un albergo di fronte al municipio, con la quale si accordò per occupare una piccola stanza e consumare i pasti nella sala al piano terreno.
Il suo soggiorno durò dal mese di maggio fino al 29 luglio del 1890, giorno della sua morte.
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In questi mesi, Van Gogh dipinse in un modo frenetico e disperato che può essere perfettamente descritto da una frase contenuta nell’ultima lettera al fratello Theo che non potè mai spedire e che gli venne trovata in una tasca della giacca che indossava il giorno del suicidio: “…Per il mio lavoro rischio ogni giorno la vita e la ragione vi è naufragata a metà”. Del resto l’arte era stata la sua unica ragione di vita e Vincent sembrava sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di più grande, con lo sguardo rivolto lontano, troppo lontano su altri mondi dove le stelle sono vortici e controvortici, dove i colori sono tanto intensi da diventare abbacinanti, da fare male agli occhi, dove tutto si deforma e gli oggetti diventano vivi, come se il Pigmalione Vincent vi avesse trasfuso la sua stessa essenza e la sua stessa ragione, dove le sedie vuote diventano persone e le persone simboli di qualcosa di più alto, della disperazione, della malinconia, del dolore, un mondo che soltanto lui poteva vedere, che soltanto le sue tele potevano rappresentare con una forza devastante.
L’arte, dopo aver preteso metà della ragione arrivava a chiedere a Van Gogh l’estremo sacrificio e il perdere la vita non era più soltanto un rischio, ma una necessità ineluttabile. Perché l’arte potesse sopravvivere, l’uomo, l’artista doveva scomparire.
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Nel 1889 Van Gogh si chiedeva “Perché i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili delle città e dei villaggi, dei punti neri sulla carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella”, un presagio di quello che sarebbe accaduto forse o, semplicemente, la lucida consapevolezza che soltanto la morte avrebbe potuto restituire la pace al suo corpo stanco e alla sua anima tormentata.
Il viaggiatore che si reca ad Auvers sur Oise si trova, in modo naturale e spontaneo, a percorrere la via dolorosa dell’artista: esce dall’auberge Ravoux, si immerge nei boschi, costeggia la vecchia chiesa, resa immortale dall’“immagine in cui la costruzione sembra viola contro un cielo blu scuro, cobalto puro” e in cui “le finestre sembrano come macchie di blu oltremare, il tetto è violetto e in parte aranciato”, e i campi ancora coltivati a grano, raggiunge le tre strade raffigurate in “Campo di grano con volo di corvi”, poi, lentamente, entra nel piccolo camposanto di campagna.
In questo luogo di pace, in un angolo, contro il muro grigio, ci sono due tombe unite dall’edera, due lapidi di pietra grezza. Su una è inciso: “Ici repose Vincent Van Gogh, 1854-1890”, sull’altra “Ici repose Theodore Van Gogh, 1857 – 1891”. I due fratelli che si sono adorati in vita e che la morte ha potuto separare soltanto per pochi mesi, riposano qui, tra i campi di grano di quest’angolo remoto di Francia dove forse hanno raggiunto la pace ricercata e mai trovata nelle loro brevi esistenze.
Barbara Castellaro