Un’umanità smemorata non va lontano o si ripiega nei propri errori

Anche le statue muoiono (?)

Anche le statue muoiono, senza punto interrogativo, è una delle mostre che la stagione culturale primaverile offre ai torinesi, divisa in tre parti, al Museo Egizio (fino al 9 settembre), ai Musei Reali (fino al 3 giugno) e alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (fino al 29 maggio).

Il segno di interpunzione lo aggiunge la mostra stessa, che interroga il visitatore sui temi del passato, della memoria e della conservazione. La sezione dell’iniziativa ospitata al Museo Egizio, nelle sale del terzo piano dedicate a Khaled Al Assad, il direttore del museo di Palmira ucciso dai militanti dell’Isis due anni fa, non è una esposizione di oggetti antichi, bensì di installazioni d’arte contemporanea nelle quali gli oggetti antichi sono spesso decontestualizzati, presentati sotto una luce fredda, in un alternarsi di stanze bianche e nere.

Non è una mostra in cui la bellezza faccia da padrone, tutt’altro: gli oggetti non si fanno ammirare, ma cercano di parlare con il loro fardello di storia, di secoli che si accumulano, di scorie del tempo di cui si fanno ricettacolo e vittima, come le fotografie di statue palmirene in stile greco romano che ci accolgono, una Medusa urlante di dolore e una divinità con uno strano sfregio che pare una lacrima.Però, attenzione, non si tratta di una mostra che voglia esprimere solo e soltanto un monito e una lamentazione su quell’antico concetto, all’improvviso e prepotentemente tornato a fior di labbra, l’iconoclastia: le statue, dice la mostra, non muoiono soltanto per colpa di fanatismi e ignoranza. Se, infatti, le città di quel Vicino Oriente fratello in Mare Nostrum della nostra Europa cadono sotto i colpi di mazze, bombe e dinamite guadagnandosi le prime pagine dei giornali e la nostra costernazione, tante altre opere d’arte sono andate perdute nei secoli per una quantità di altri motivi: per furto, per rivolte, perché simbolo di un potere odiato – sorte che accomuna gli antichi funzionari egizi alle statue gotiche delle cattedrali francesi sfregiate durante la Rivoluzione, fino alle statue dei dittatori che, ogni tanto, cadono negli schermi delle nostre televisioni tra le ali di folla festante – altre volte per incuria, per dimenticanza.

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O ancora, perché all’elenco delle colpe non manchi quello che si crede il civile Occidente, c’è lo sfregio operato dal viaggiatore che incide il proprio nome, entrando prepotentemente nella storia di un’opera, quello del mercante d’arte che modifica una poco appetibile statua -di per sé già antica – per darle un altro volto, onde renderla più appetibile al mercato, quella del piccolo commercio di contrabbando che smembra i corredi o le grandi campagne coloniali che fanno diventare l’archeologia una corsa all’oro tra nazioni concorrenti, senza esclusioni di colpi. E a volte, anche laddove l’etica è strettamente praticata, dove l’amore per gli oggetti indubbio e le cure le più meticolose, i fenomeni chimici o climatici sfuggono alla perizia del più scrupoloso dei curatori, e i reperti possono improvvisamente mutare, come succede ad alcuni oggetti che, imballati a Parigi, si mostrano in un modo e all’apertura delle casse negli Emirati Arabi hanno cambiato per sempre il loro volto, offrendo ad uno degli artisti autori delle installazioni l’estro di tentare una ricostruzione impossibile e straniante sovrapponendo tra loro fotografie di oggetti diversi. E poi, c’è la beffa più grande, quella del tempo che passa, che ci ricorda che ogni restauro può solamente prolungare la vita e conservare nello stato su cui si è agito un’opera d’arte, non impedire il degrado, né tanto meno portare all’indietro, all’ideale integrità, lucentezza, originalità, un oggetto: in questo senso sì, cento volte sì, anche le statue muoiono. Muoiono al punto che, in una delle installazioni filmate più inquietanti, Ali Cherri pone una domanda ancor più paradossale: ” quello che l’uomo da sempre fa è interrare e seppellire”, questo è il destino di ogni oggetto o corpo, ” che senso ha prendersi cura di una rovina, mettendola in museo in cui più rovina non sarà?”.

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E mentre queste parole, scandite in un mesto arabo sottotitolato, scorrono, appaiono immagini di tombe nelle quali le mani degli archeologi scavano, turbano sonni eterni, dissotterrano sepolture per destinarle alle teche dei musei, dove il defunto, l’uomo, fastidioso memento della nostra natura effimera, passa in secondo piano e tutti gli occhi si concentrano sul tesoro che lo accompagna. La domanda su che senso abbia fare archeologia, che senso abbia strappare alla terra che accoglie tante testimonianze di secoli e vite ormai perdute, che forse vorrebbero soltanto l’oblio. La risposta arriva nelle sale successive, di fronte alle foto dei bassorilievi di Nimrud scomparsi per sempre e immortalati com’erano nel 2001, negli oggetti in materiale povero, ricostruiti a forma di vaso greco ed etichettati come il loro modello, e nella ricostruzione in stampa 3d di alcune delle statue distrutte dall’Isis nelle ultime sale: nessuna di queste opere può sostituire l’originale, può solo suggerirci la forma, l’aspetto, alimentare la nostalgia e il senso di vuoto per quel testimone andato perduto. Ed è nostro dovere indagare la Storia, non lasciare allora che le sabbie coprano la nostra memoria, perché un’umanità smemorata non va lontano o si ripiega nei propri errori: l’importante è ricordare che anche le statue sono fragili, più longeve certo, ma pari a noi, e che non basta esporle, occorre farle parlare.

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Perchè, se c’è una cosa che forse resiste più delle statue e dei monumenti, questa è proprio la parola, scritta e detta, che attraversa i tempi facendosi, come si gloriava Orazio, aere perennius, più durevole del bronzo; e, se anche la lingua, una volta dimenticata, può darsi che taccia a lungo, c’è sempre la speranza che nasca un abile Champollion a rifarci udire voci perdute.

Quando una statua, in un’opera letteraria, parlava, i Greci dicevano che si realizzava la figura retorica della prosopopea e non è un caso che il direttore del Museo Egizio, Christian Greco, abbia più volte ribadito di voler fare del proprio museo (e della mostra che ospita, anche da lui curata) una narrazione continua, una prosopopea: solo in questo modo i poveri resti umani possono stare in esposizione senza morbosità o mancanza di rispetto, solo in questo modo le opere d’arte possono davvero raccontarci una storia.

Altrimenti tutto quello che ci resta è una vuota bellezza, come la statua del dignitario Upuautemḥat, completa e maestosa, alla fine della visita: completa e maestosa, sì, ma dagli occhi strappati, com’era la prassi dei tombaroli antichi, in questo modo privata della vita che le antiche magie egizie avevano voluto insufflarle.

 

Andrea Rubiola