FOCUS / di Filippo Re
Dalla Grande Moschea di Al Nuri a Mosul annunciò con un sermone al mondo la sua missione per realizzare un immenso Califfato nelle terre dell’Islam e quel giorno, il 29 giugno 2014, decise di farsi chiamarsi Califfo Abu Bakr al Baghdadi. Non a caso scelse l’antica moschea di Nur ed-din o Norandino, grande e potente nemico della Cristianità, il condottiero e sultano che nove secoli fa riunificò le forze musulmane tra il Nilo e l’Eufrate, tra l’Egitto e la Siria, per combattere i Crociati, con il Saladino alla testa dell’esercito e suo illustre successore. La rinascita del Califfato non ci sarà mai e in quella moschea di Mosul il Califfo del terrore non ci tornerà più. Ora quel santuario islamico è diventato un luogo simbolico per l’esercito iracheno e per le forze curde: si trova a Mosul ovest, poco oltre il Tigri, all’interno della Città vecchia, in un labirinto di viuzze in cui sarà difficile avanzare con i blindati e i carri armati e con gli stessi soldati a rischio di autobombe, kamikaze e sotto il tiro incessante dei cecchini. Quanti morti per Mosul ?
Perde terreno nelle città l’Isis ma rialza la testa nelle retrovie del sedicente Califfato. Dopo la presa dell’aeroporto le forze irachene sono entrate nei quartieri occidentali dell’antica Ninive difesi da 3-4000 miliziani dello “Stato islamico” nascosti nei vicoli e nei tunnel, confusi tra oltre 700.000 civili usati spesso come scudi umani, con bambini kamikaze, con violenze e stupri, con uomini, donne e ragazzi che assistono a decapitazioni e stragi quotidiane. Ci vorranno forse diverse settimane per liberare Mosul ovest e al tempo stesso occorrerà fare attenzione a non concentrare tutte le forze nell’area occidentale del Tigri rischiando di perdere la parte orientale della città appena conquistata dopo più di tre mesi di durissimi combattimenti costati almeno 2500 vittime.
Visto come è andata a Palmira, più volte occupata, persa e di nuovo conquistata, non si esclude la possibilità di un clamoroso ritorno dei miliziani neri sulla riva orientale mentre sulla sponda opposta bisognerà vedere come reagirà quella parte di popolazione sunnita che simpatizza per il Califfo preferendolo perfino al governo sciita di Baghdad e alle temute milizie iraniane. Riconquistare Mosul significa riprendersi non solo la seconda città irachena ma soprattutto tornare in possesso di un importante snodo commerciale e logistico verso la Siria nonchè assicurarsi il controllo delle risorse energetiche e idriche situate nel nord del Paese. Come la diga di Mosul, protetta da 500 militari italiani insieme agli americani e ai peshmerga curdi, in un’area ad alto rischio, per evitare che lo sbarramento possa essere colpito e distrutto dai terroristi (ci sono già stati momenti di tensione e scontri) e far sì che i lavori di risistemazione di questa infrastruttura fondamentale per il Paese procedano nella massima tranquillità. Nell’estate 2014 la diga era caduta nelle mani dell’Isis ma dopo pochi giorni era stata ripresa dai curdi con la copertura di raid aerei americani. Situazione sempre ingarbugliata anche ai tavoli del negoziato di Ginevra, ripreso dopo una lunga pausa, nonostante l’incrollabile ottimismo di Staffan de Mistura, l’inviato dell’Onu per la Siria, secondo cui ” il 2017 sarà sicuramente l’anno della fine del conflitto” ma prima di arrivarci sarà necessario un miracolo. Nella città svizzera proseguono fiaccamente i colloqui con la mediazione delle Nazioni Unite tra il regime di Damasco e i gruppi di opposizione (senza Isis e qaedisti) riuniti nell’Alto comitato per i negoziati. Sui colloqui incombe anche la minaccia del terrorismo che rischia di far saltare le trattative e avvelenare un clima già molto teso. Gli uomini del Califfo sono sulla difensiva anche in Siria e dopo aver perso Al Bab a nord e altri 15 villaggi liberati dai ribelli armati dalla Turchia, dai curdi e dalle truppe governative, reagiscono con attentati mentre i qaedisti seminano il terrore con gli stessi metodi sprofondando la Siria in un’altra stagione del terrore. Kamikaze si fanno esplodere presso Al Bab, vicino ad Aleppo, e a 30 km dal confine turco provocando oltre 60 morti, con la firma dell’Isis, e la paura torna a Homs, la terza città siriana rioccupata dall’esercito di Assad nel 2014 dopo un accordo con l’Onu, sconvolta da un attacco suicida, rivendicato dai qaedisti di Fateh al-Cham (ex al Nusra) contro la sede dei servizi segreti uccidendo almeno 42 persone tra cui il capo dell’intelligence di Assad, il generale Hassan Daaboul. La diplomazia è di nuovo al lavoro ma pochi se ne sono accorti. Si deve discutere di elezioni e della nuova Costituzione e di un percorso di transizione politica al presidente Assad ma il dialogo si blocca sovente per le accuse reciproche e i veti incrociati. Della nuova Carta costituzionale si sa poco: in base ai contenuti della bozza russa, che però deve essere accettata da tutte le parti in causa, dovrebbe essere eliminata la parola “araba”.
Lo Stato verrebbe indicato con il nome “Repubblica siriana” al posto dell’attuale “Repubblica araba siriana” e sparirebbe la dicitura: “la giurisprudenza islamica è la fonte principale della legislazione”. La novità più importante riguarderebbe tuttavia la possibilità di usare le lingue araba e curda come idiomi paritetici. La tregua sembra reggere ma si continua a combattere contro i gruppi jihadisti, dall’Isis ad Al Nusra, esclusi dal cessate il fuoco, il Paese è tutt’altro che pacificato, Assad vuole vincere la guerra e ci sta riuscendo mentre le opposizioni brancolano nel buio e nell’ambiguità, in attesa di una mossa del presidente Trump pronto a firmare il piano anti-Isis preparato dal Pentagono. Un altro scoglio da superare riguarda il ruolo degli iraniani nel futuro della Siria che gli oppositori rifiutano di accettare come interlocutori al tavolo della pace.
(dal settimanale “La Voce e il Tempo”)
Filippo Re