STORIA- Pagina 8

“Anatomia di un inizio”

Per i suoi ragguardevoli 300 anni d’età, il “Museo di Antichità” arricchisce con due straordinari reperti il suo percorso espositivo della sezione “Archeologia”

Visibile dallo scorso 17 ottobre

L’evento è sicuramente un prezioso cadeau per la celebrazione del suo terzo centenario. Sotto il titolo di “Anatomia di un inizio. Alle radici dell’Archeologia Scientifica in Piemonte”, il torinese “Museo di Antichità – Musei Reali”, propone, dallo scorso giovedì 17 ottobre, l’interessante ampliamento, a cura dell’archeologa Elisa Panero, del percorso espositivo della sezione “Archeologia a Torino”. Ampliamento reso possibile grazie ad un accordo triennale con il “Museo di Antropologia ed Etnografia” dell’Università di Torino (“MAET”) e al sostegno di “Reale Mutua”, che vede per la prima volta messe a confronto – in un nuovo allestimento progettato dall’architetto Carlotta Matta dei “Musei Reali” –  due straordinarie sepolture, testimonianze di due contesti culturali e geografici molto diversi tra loro: una “tomba neolitica” scoperta a Montjovet, in Valle d’Aosta, e la “mummia” di un giovane uomo rannicchiato, rinvenuta nei pressi di Luxor, in Egitto.

Scoperta nel 1909 in una piccola necropoli a inumazione, scavata dall’egittologo piemontese Ernesto Schiaparelli (1856-1928), direttore dell’allora “Regio Museo di Antichità Greche, Romane ed Egizie” – l’attuale “Museo di Antichità – e “Soprintendente alle Antichità del Piemonte” (“Istituto di tutela” che comprendeva anche la Valle d’Aosta e la Liguria), la “tomba neolitica” di Montjovet, subito “musealizzata” nella sua interezza, proprio cent’anni fa (il 17 ottobre del 1924) fu studiata e pubblicata da Giulio Emanuele Rizzo, professore straordinario di “Archeologia”, e da Mario Carrara, docente di “Medicina Legale” alla “Regia Università” di Torino. Prima “tomba riconosciuta” venne allocata nella nuova sala della “Preistoria Piemontese e Ligure”, a cura di Pietro Barocelli, archeologo dalla “grande modernità professionale”. Riproposta nel secondo dopoguerra, nel riordino museale attuato nel 1949 sotto la direzione del “Soprintendente” Carlo Carducci, negli ultimi 50 anni è stata conservata nei depositi del “Museo di Antichità”: oggi il pubblico dei “Musei Reali” può finalmente ammirarla grazie al nuovo riallestimento.

Secondo, altrettanto importante, reperto, la mummia di un giovane uomo rannicchiato”, fu invece rinvenuta nel 1920 dalla “Missione Archeologica Italiana” diretta sempre da Ernesto Schiaparelli, coadiuvato dall’antropologo Giovanni Marro (1875-1952), nel sito di “Gebelein”a circa 30 chilometri a sud dell’odierna città di Luxor, sulla riva ovest del Nilo. Databile alla “IV dinastia”tra il 2578 e il 2477 a.C., è confluita all’“Istituto e Museo di Antropologia”, oggi “Museo di Antropologia ed Etnografia” dell’“Università di Torino”, fondato nel 1926 proprio per accogliere in un’unica sede le raccolte scientifiche di Marro e gli oggetti provenienti dalle campagne di scavo condotte dalla “Missione” in Egitto.

Sulle due sepolture sono state condotte recenti indagini inerenti alla datazione e al restauro: per la prima, dai “Musei Reali” con l’ “Università degli Studi di Torino” e dell’ “Università di Berna”, in Svizzera; per la seconda, oltre che dal “DBios – Dipartimento Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi” e dal “Museo di Antropologia ed Etnografia” dell’ “Ateneo torinese”, anche dalla “Fondazione Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale”.

Indagini assolutamente interessanti, che “hanno permesso di gettare ‘nuova luce’ su questi resti e ‘nuove considerazioni’ storiche e allestitive, partendo dalla temperie culturale del primo ventennio del Novecento quando, anche in Piemonte, intervenne una ‘svolta decisiva nello studio e nella percezione dell’archeologia’, non più considerata come una ricerca avventurosa, ma una ‘disciplina scientifica volta a rispondere ai bisogni primari dell’uomo’ e a raccontare le storie del suo passato”.

I resti umani – sottolineano ancora gli studiosi – rappresentano qualcosa di fondamentale, in quanto documento di una storia individuale e tassello della storia evolutiva umana”.

Considerazioni che trovano il loro punto di avvio proprio agli inizi del Novecento nel “mondo archeologico piemontese”, gravitante intorno al nostro “Museo di Antichità” e all’attività del direttore d’allora, Ernesto Schiaparelli, insieme a grandi studiosi che, intorno a lui, hanno contribuito a dettagliare pioneristicamente proprio l’Anatomia di un inizio nell’ambito della ricerca archeologico – scientifica.

g.m.

“Anatomia di un inizio. Alle radici dell’Archeologia Scientifica in Piemonte”

Museo di Antichità-Musei Reali, piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5212251 o www.museireali.beniculturali.it

Dal 17 ottobre

Orari: dal mart. alla dom. 9/19; chiuso il lunedì

 

Nelle foto: “Anatomia di un inizio”, Credits Edoardo Piva / DB Studio Agency

“Il viaggio delle piante”, al Museo della Frutta Francesco Garnier Valletti

La mostra temporanea “Il viaggio delle piante”, apertasi il primo ottobre scorso e visitabile fino a martedì 26 novembre prossimo è parte della decima edizione di Art Site Fest, e si snoda attraverso la peregrinazione del mondo vegetale. In un’epoca in cui l’uomo non è più al centro della narrazione, l’artista Elizabeth Aro invita il pubblico a riflettere sulla rete di interdipendenze che unisce le diverse forme di vita. Le sue opere diventano uno strumento per esplorare un mondo complesso che sfida le categorizzazioni. Aro riprende la breve e intensa poesia del poeta spagnolo Ramón Jímenez “Radici e ali”, ma che le ali mettano radici e le radici volino. La mostra è idealmente suddivisa in tre capitoli, il primo esplora il tema delle radici, il secondo è dedicato al viaggio e rende omaggio alla biodiversità sudamericana e alla tradizione botanica espressa nei taccuini e nei disegni dei primi esploratori; infine, il terzo capitolo, celebra l’esuberanza della vita vegetale, un inno alla crescita e alla vitalità. Elizabeth Aro è nata a Buenos Aires e risiede a Milano, ha esposto in importanti istituzioni quali il Museo Reina Sofia di Madrid, la GAM di Torino, il Mamba di Buenos Aires e il Macro di Rosario.

Museo della Frutta Francesco Garnier Valletti – via Pietro Giuria 15, Torino

Tel: 011 6708195

Orari: da lunedì a sabato 10-18 / domenica chiuso

 

Mara Martellotta

Con Andrea Ferraris e Andrea Serio, discettando di immaginario resistenziale

«E lei, che è antifascista si può dire dalla nascita, ha mai giocato con suo figlio ai partigiani? Si è mai acquattato dietro il letto fingendo di essere nelle Langhe e gridando attenzione, da destra arriva la Brigata Nera, rastrellamento, rastrellamento si spara, fuoco sui nazi?!

Così caro Stefano, ti regalerò dei fucili. E ti insegnerò a giocare guerre molto complesse, in cui la verità non sta mai da una parte sola, in cui all’occorrenza si debbano organizzare degli otto settembre. Ti sfogherai, nei tuoi anni giovani, ti confonderai un poco le idee, ma ti nasceranno lentamente delle persuasioni. Poi adulto, crederai che sia stata tutta una favola, Cappuccetto Rosso, Cenerentola, i fucili, i cannoni, l’uomo contro l’uomo,la strega contro i sette nani,gli eserciti contro gli eserciti.
Ma se per avventura, quando sarai grande vi saranno ancora le mostruose figure dei tuoi sogni infantili, le streghe, i coboldi, le armate, le bombe, le leve obbligatorie chissà che tu non abbia assunto una coscienza critica verso le fiabe e che non impari a muoverti criticamente nella realtà». Umberto Eco, Lettera a mio figlio,1964.
Così con l’intento di Eco ad Alba, su questa falsa riga, si è svolto il talk tra Andrea Ferraris e Andrea Serio, discettando di immaginario resistenziale nella letteratura di Beppe Fenoglio (Johnny siamo noi…padri e figli, Bella Ciao che partiamo) di trasmigrazione visiva dalla illustrazione al testo scritto e viceversa. Di come la fascinazione del lettore, porti più a conoscere il fatto letterario, che il fatto storico , in senso stretto. O come invece dico qui io ,Fenoglio confluì nelle Penne Nere alpine di Martini Mauri , lui più di sinistra gappista ,  aggregandosi, ai centristi bianchi del Partito d’Azione e di Giustizia e Libertà. Oggi diciamo storytelling, o la narrazione dominante. Ogni tempo ha la sua linguistica, il suo idioletto e le graphic novel, devono oggi ,essere modello di memoria da rinfrescare per gli adulti e modello di sviluppo e formazione per le nuove generazioni.Così domenica 22 settembre 2024 si è svolto il talk tra i due al Palazzo della Banca d’Alba, organizzato dal Centro Studi Beppe Fenoglio dal nome “Le strade del fumetto dalle Alpi al Mar Ligure” con moderazione di Chiara Stival.

Andrea Ferraris è una vecchia conoscenza del torinese.it, Andrea Serio è illustratore e fumettista, direttore della scuola internazionale di comics di Torino ,classe1973 carrarese.Per ricordare i 23 giorni della città di Alba ( 10 ottobre -20 novembre 1944) i suoi disegni esposti fino al 20 ottobre 2024. Duri giorni dall’ esito incerto e ricordando il mio caro nonno paterno Aldo come me, comandante partigiano nella Brigata Matteotti in val Germanasca, in val Chisone e colle del Lys. Riporto dal trattato dei Pikvei Avot (Talmud , ”le massime dei padri”):« Se io non sono per me, chi è per me? E se io sono solo per me stesso,cosa sono? E se non ora , quando?».

Aldo Colonna

Nella foto di copertina:

Autunno 1944, Borgata Fontane (val Germanasca). Il partigiano a destra è Eugenio Juvenal [Archivio famiglia Serafino]

Pinerolo, i tesori nascosti del Fai

Sono arrivate a piedi o a dorso di mulo dal Monastero della Visitazione di Annecy e di Embrun nel 1634. Un lungo tragitto per una decina di suore visitandine che attraverso il colle del Monginevro sono scese a Sauze di Cesana e da qui hanno raggiunto Sestriere, Pragelato, Fenestrelle e Pinerolo. A Pinerolo si sono sistemate in una casetta del borgo in affitto dove ora si trovano la chiesa e il monastero della Visitazione, sulla collina della cittadina. Il monastero della Visitazione sorse nel 1643 al posto del Palazzo dei Conti Porporato. Ogni pietra del monastero e della chiesa parla di San Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra e, giova ricordarlo, patrono dei giornalisti, che dopo aver fondato il convento di Annecy, di passaggio a Pinerolo, durante una funzione religiosa preannunciò, pochi mesi prima di morire, l’arrivo in città delle suore visitandine e l’edificazione del complesso religioso.
La vita del convento iniziò effettivamente con l’arrivo delle suore nel 1634 quando Pinerolo era sotto la dominazione francese. Il monastero e la vicina chiesa sono due dei tanti “tesori nascosti” che il Fai, Fondo ambiente italiano, ha aperto al pubblico in occasione delle Giornate Fai d’autunno. Da quattro secoli la vita delle monache è intrecciata con la vita di Pinerolo, un legame fatto di storia, di preghiera e di ringraziamenti a Dio. Le suore visitandine erano povere e gli aiuti non tardarono ad arrivare. Ottennero donazioni importanti da persone facoltose del territorio e anche dal re di Francia, Luigi XIV, e dal governatore di Pinerolo Antonio Brouillez che consentirono di costruire parte del monastero. Pinerolo era a quel tempo la Pignerol francese essendo occupata dai sovrani d’Oltralpe che occuparono la città altre volte tra il Seicento e l’inizio dell’Ottocento.
Oggi le suore di clausura sono otto e, attraverso un ingresso interno, accedono alla chiesa della Visitazione costruita alla fine del Seicento, un piccolo gioiello del barocco piemontese, con una tela del torinese Claudio Francesco Beaumont, regio pittore. A poca distanza da Pinerolo, nella frazione Baudenasca, il Fai, d’intesa con i proprietari della tenuta, ha spalancato le porte del complesso delle Cascine Nuove che comprende la residenza nobiliare con una meridiana del 1763, la cappella del Settecento, la casa del pane con l’antico forno, la cucina con un grande camino del Seicento, le cascine agricole, l’orto, la scuderia e il giardino trasformato nel 1800 a pianta ovale. Una dimora storica vissuta e abitata tuttora che ha mantenuto intatto il fascino di una casa d’altri tempi.
Filippo Re
nelle foto:

Baudenasca la villa del complesso delle Cascine Nuove, il Monastero della Visitazione, la Chiesa del convento a Pinerolo.

Le tavole didattiche storiche dell’Università

Venerdì 25 ottobre alle ore 21, l’Accademia di Medicina di Torino terrà una seduta scientifica, sia in presenza, sia in modalità webinar, dal titolo “Le tavole didattiche storiche dell’Università degli Studi di Torino: un connubio tra arte e scienza”. Dopo i saluti di Stefano Geuna, Rettore Università degli Studi di Torino e di Giancarlo Isaia, Presidente dell’Accademia, interverrà Claudia Bocca, Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, referente scientifico del progetto ART IN MED, L’Arte nella divulgazione delle Scienze Mediche. Seguiranno i contributi di Marco Galloni, già Professore di Anatomia e Veterinaria, Direttore ASTUT (Archivio Scientifico e Tecnologico), Mara Fausone, responsabile ASTUT, SMA (Sistema Museale di Ateneo) e Andrea Valle, Professore, Dipartimento Studi Umanistici. Tutti i relatori afferiscono all’Università degli Studi di Torino. Modera Giuseppe Poli, Professore di Patologia generale e membro dell’Accademia di Medicina.

Le tavole parietali sono entrate nell’uso della didattica tra ‘800 e ‘900 ed ebbero notevole successo nelle Università, soprattutto per l’insegnamento delle Scienze Mediche e Veterinarie, dove rappresentavano fondamentali supporti visivi, antesignani di quelli multimediali attuali. Esse costituivano uno strumento di comunicazione molto diffuso, che dava modo ai docenti di illustrare in aula le loro ricerche. L’Università di Torino conserva numerose collezioni di tavole realizzate in ambiti scientifici diversi, tra cui alcune disegnate da illustri scienziati, quali Giulio Bizzozero, scopritore delle piastrine del sangue. Le tavole riproducono le strutture dell’organismo in un mirabile connubio tra arte e scienza e costituiscono un prezioso patrimonio storico-scientifico, poco conosciuto e da valorizzare.

Si potrà seguire l’incontro sia accedendo all’Aula Magna dell’Accademia di Medicina di Torino (via Po 18, Torino), sia collegandosi da remoto al sito www.accademiadimedicina.unito.it.

La marchesa Beatrice Bergera Gozzani. Da Chieri a Casale Monferrato

 

 
Genealogia di un territorio e il canto 
popolare di Cavoretto 
Le proprietà della nobildonna torinese residente nel palazzo Gozzani San Giorgio di Casale Monferrato furono molto ambite e oggetto di svariate controversie e cause civili tra l’avvicendamento dei successori e le comunità di Asti e Villanova d’Asti (vassalla di Dusino) per la giurisdizione del territorio del Ducato di Savoia e Principato di Piemonte. Il feudo di Cly nel comitato di Aosta risalente al XII° secolo che comprendeva Verrayes, Dièmoz, Saint-Denis, Chambave, Torgnon e tutta la Valtournenche apparteneva alla famiglia Bosoni Challant visconti di Aosta, signori di Cly e Châtillon. Pietro, ultimo esponente Challant, ereditò il feudo dal padre Bonifacio ma il conte verde Amedeo IV° di Savoia confiscò i suoi beni per fellonia nel 1376, privandolo del titolo a causa della collera, prepotenza e tirannia verso i sudditi. Il conte, visto l’atteggiamento nei suoi confronti, cedette per transazione allo Challant il feudo di Chatel Saint-Denis nel 1384, amministrato dai suoi castellani fino al 1500, in cambio del mandamento di Cly assunto dai signori di Vernier. Il feudo di Cly fu venduto dal duca Carlo III° di Savoia, il despota illuminato, a Cesareo Cristoforo Morales nel 1550, capitano delle truppe spagnole in guerra contro i francesi ed in seguito confinato a Lipari per tradimento.
Il duca Emanuele Filiberto di Savoia lo vendette con beneficio di riscatto al suo segretario di Stato Giovanni Fabbri di Aosta nel 1562, baroni di Cly fino al 1637. Il marchese di Caselle Pietro Filiberto Roncas ereditò la proprietà nel 1638 trasferendo i resti delle vecchie mura del castello di Cly segnandone l’inevitabile declino per edificare il proprio palazzo con torre a scalare. Il feudo fu ereditato dal barone Giacomo Francesco Antonio Bergera nel 1735, marito di Giovanna Margherita dei conti Possavino di Chieri, conti di Brassicarda dal 1580 e baroni di Cly. Beatrice Teresa Bergera marchesa di San Giorgio Monferrato, contessa di Cly e Brassicarda fu infeudata dei territori nel 1778 con il marito Giovanni Battista Gozzani marchese di San Giorgio, Perletto e Pontestura, detto il marchese d’Olmo Gentile che edificarono i palazzi San Giorgio di Casale e Torino. I feudi furono ereditati da Carlo Antonio Gozzani e da Sofia Doria di Ciriè, immortalati nei ritratti casalesi di Vittorio Amedeo Grassi di Agliè, pittore ufficiale di Corte a Torino e nel 1816 da Carlo Giovanni Gozzani, cresciuto sotto tutela della zia Clara Gozzani contessa di San Giorgio.
Il groviglio feudale si concluse con Evasio Gozzani detto il cavaliere di Brassicarda (Roma 1838-Pisa 1913) nipote del più famoso Evasio detto il marchese pazzo, amministratore del principe Camillo Borghese e di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone. Da ricordare il vescovo di Torino Giulio Cesare Bergera (1593-1660) dei conti di Beinasco, Piobesi e consignori di Villarbasse e Cavallerleone che ingrandì la chiesa di Chieri. La bergera è anche un canto arcaico dal testo pastorale amoroso in  dialetto piemontese originario della collina di Cavoretto, elaborato secondo la lirica da camera tedesca senza stravolgere la forma da Leone Sinigaglia, compositore torinese dell’alta borghesia ebraica perseguitato dal nazifascismo. Trasferitosi a Vienna incontrò Brahms, Mahler e a Praga conobbe Dvorák, da cui ereditò l’interesse per il canto popolare, raccogliendo oltre 500 melodie  quasi scomparse. Il brano fa parte del repertorio del Casale Coro diretto dal maestro Giulio Castagnoli. Per ricordarlo è stata posta una pietra d’inciampo davanti al Conservatorio di Torino dove fu direttore del liceo musicale e Chivasso gli ha intitolato un istituto musicale comunale.
Armano Luigi Gozzano

Il Toret: quando i simboli dissetano

 

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina daltri tempi che non accetta di piegarsi allestetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre larancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano allirruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo a misura duomo, con tutti i pro e i controche tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma lantica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri sudaticcima ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

 

1. Torino capitale… anche del cinema!

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce lha la piazza più grande dEuropa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Portapalazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando leleganza si fa ferro

 

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

Eccoci quasi arrivati alla fine del ciclo di articoli sui primati torinesi, e come in tutti gli elenchi ho voluto lasciare “il meglio” per ultimo.
Lo sapete da dove deriva la parola “rubinetto”? Questa la definizione dal dizionario: “Dal fr. robinet, der. di robin, nome dato pop. ai montoni, perché le chiavette, in passato, avevano spesso la forma di una testa di montone •sec. XVI.” Si, l’etimologia fa riferimento ai “montoni”, forse proprio per questo motivo le fontane costruite tra il Quattrocento e il Cinquecento hanno spesso forma di testa di animale, tale tradizione svanisce tuttavia nel corso dei secoli, per lasciare spazio a costruzioni più semplici e lineari. Questo accade quasi dappertutto, tranne che in una città, indovinate quale?
Il record di cui vorrei raccontarvi oggi è assai peculiare, nonché decisamente riconducibile alla nostra urbe, mi riferisco ai famosi “torèt”.
Credo che per noi abitanti del luogo, tale dettaglio urbano, sia qualcosa di “abituale”, una presenza quasi scontata e banale, perché come tutti siamo anestetizzati e distaccati nei confronti dei beni che già possediamo, mentre tutto il nostro desiderio si rivolge costantemente alle meraviglie che si trovano dall’altra parte del mondo.
Quando re-impareremo a guardare, ci accorgeremo del minuzioso incanto delle fontanelle che pullulano tra le nostre piazze e le nostre vie, mi riferisco a quelle strutture a forma di “torèt” che i turisti si fermano a fotografare, spesso divertiti e stupiti, giacché non capita in molte altre metropoli di imbattersi in simili fonti d’acqua.


Anche il numero di tali impianti è sbalorditivo: sono 800 i “piccoli tori” che si occupano senza sosta di dissetare gratuitamente la cittadinanza e i visitatori.
È bene ricordare che la comunità pedemontana continua a costruire le proprie sorgenti cittadine, sempre con tali sembianze, da più di centosessant’anni, rifacendosi all’antica tradizione che associa per assonanza – e altre motivazioni relative alla mitologia- l’effige del toro e la denominazione “Torino”.
Si sa, l’acqua corrente non è sempre stata disponibile presso le abitazioni del popolo. Nell’Ottocento le persone prelevavano l’acqua dai pozzi dislocati nei vari cortili o in quelli artesiani, dove le acque sotterranee emergevano naturalmente, senza bisogno di specifici strumenti di estrazione. Tale abitudine comportava però problemi igienico-sanitari, annessi ad esempio all’inquinamento delle fonti o alle eventuali contamizioni delle falde.
La città sabauda allora – che ci piaccia o meno- si ispira ad un progetto diffusosi nelle capitali della Francia, ossia
un sistema idrico costituito da fontanelle che forniscono acqua 24 ore su 24. Per differenziarsi dai nemici-amici gallici i torinesi ideano una specifica forma, tutta nostrana, per sorgenti urbane: ecco la nascita del “torèt”.


Grazie a tali invenzioni, anche nel capoluogo piemontese, diventa possibile ovviare alle numerose difficoltà quotidiane incontrate dalla popolazione. Intorno al 1859, viene progettato il primo acquedotto che irrori svariate fontanelle pubbliche, inoltre, nel 1861 – dopo un mese dall’unità d’Italia- la Giunta Comunale individua ben 81 zone da predisporre proprio come “punti d’acqua” potabile.
Un anno dopo vengono presentati i famigerati progetti delle “fontanelle”, tali e quali a quelli che tutt’ora possiamo visionare passeggiando per le strade. Da subito vengono redatte delle mappe per rendere più facilmente trovabili queste costruzioni, all’inizio si contano ben 45 “torèt”, poi nel tempo, il numero delle fontane aumenta sempre più, fino a raggiungere la moltitudine da record odierna.
Il primo esemplare viene edificato all’angolo tra via San Donato e via Balbis, nei pressi di Piazza Statuto; oggi però la struttura appare piuttosto nuova, questo perchè dopo più di cent’anni di onorato servizio il piccolo toro originale è stato sostituito, la collocazione però è rimasta la medesima.
Il “torèt” si presenta sempre uguale in ciascuna delle sue copie: forma parallelepipeda di circa un metro d’altezza, l’estremità superiore è arcuata, con una griglia di scolo in basso, spesso dotata di una conca centrale da cui possono bere anche gli amici a quattro zampe. Il materiale utilizzato è la ghisa, il colore che ricopre la lega ferrosa è un particolare tono di verde, facilmente definibile “verde bottiglia”. E poi c’è ovviamente l’elemento distintivo:
il rubinetto a forma di testa di toro.


Fin dal principio tali gorghi mostrano un’estetica inconfondibile, divengono subito un caratteristico arredo urbano, tant’è che oggi sono addirittura acquistabili in formato di gadget-portachiavi, piccoli souvenir ideati dal Comune di Torino per promuovere l’immagine dell’antica città dei Savoia.
Dietro all’apparente frivolezza dell’oggetto si cela un’attenzione rivolta all’ambiente e alla salute, la manutenzione delle fontane è affidata alla SMAT (la Società Metropolitana Acque Torino), che si occupa di erogare agli avventori assetati acqua gratuita, di buona qualità e regolarmente controllata, il ricambio costante del flusso impedisce così la formazione di ristagni che potrebbero generare la proliferazione di batteri. È bene sottolineare inoltre che non vi è alcuno spreco idrico: l’acqua “non bevuta” ritorna infatti nelle falde sotterranee –
oltretutto in qualità ancora migliore rispetto a prima-.
Esistono anche dei “torèt” versione “ingrandita”, si tratta delle ironiche e bizzarre sculture realizzate da Nicola Russo a partire dal 2021. Il lavoro dell’artista nasce dall’idea che i piccoli tori possano rompere la fontanella che li tiene soggiogati, mostrandosi in tutta la propria possanza di mammifero artiodattilo. Le sculture possono apparire panciute e goffe, ma si sa, “noi del nord” non siamo noti per ilarità e autoironia, Nicola Russo ha così dovuto spiegare le proprie creazioni poste sul territorio cittadino: “il toret vede la sua amata città vivere un momento di difficoltà a causa del Covid e allora decide di uscire dal suo guscio in ghisa, per dare un segno di cambiamento e per spingere tutta la città a una rinascita.

 

Non importa se è panciuto e goffo, lui si mostra così com’è fatto per portare il suo messaggio di speranza. Il suo è quindi “un gesto di coraggio, perché senza coraggio non c’è futuro”.
È bene dunque superare lo scetticismo del primo sguardo, anche perchè l’iniziativa dello scultore ha un duplice intento virtuoso: da una parte egli si appoggia solo ad aziende piemontesi, in modo da incentivare una ricaduta economica sul territorio, dall’altra lo scultore ha deciso di devolvere parte dei ricavati alla Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro Onlus di Candiolo.
Anche stavolta mi viene da terminare con un “ Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι ” (“la favola insegna che”). Mai fermarsi alle apparenze, perché dietro la semplicità si cela sempre la preziosità di un grande insegnamento e nella goffaggine di un sorriso si può trovare la forza per proseguire ciascuno nel proprio percorso.

Alessia Cagnotto

La genialità senza tempo di Walt Disney

La mattina del 15 dicembre 1966, dieci giorni dopo il suo sessantacinquesimo compleanno, moriva Walter Elias Disney Junior.

Era l’uomo dei sogni, l’artista visionario che tutto il mondo conobbe con il nome di Walt Disney, il papà di Topolino e di tanti altri personaggi. Disney amava dire che “l’unico modo per iniziare a fare qualcosa è smettere di parlare e iniziare a fare”. Infaticabile, quarto dei cinque figli di Elias Disney e Flora Call, nato a Chicago ai primi di dicembre del 1901, agli albori del secolo breve applicò questa massima alle sue scelte. L’infanzia fu all’insegna dei trasferimenti con il duro lavoro nei campi del Missouri con il successivo approdo a Kansas City, dove aiutò il padre a consegnare i giornali per poi partecipare a sedici anni (falsificando la data di nascita sul passaporto) alla Grande Guerra come autista volontario di ambulanze della Croce Rossa statunitense in Francia. Al ritorno a Kansas City s’impegnò negli studi d’animazione, realizzando cortometraggi come Il Paese delle Meraviglie di Alice (Alice’s Wonderland). Disney nel 1923 partì alla volta della California con quaranta dollari in tasca, diventando in breve tempo imprenditore, produttore cinematografico, regista e animatore. Con Ubbe Ert Iwerks, bravissimo e straordinario disegnatore, iniziò i primi esperimenti e intuì che, se fosse riuscito a far muovere quei disegni inanimati, avrebbe rivoluzionato il mondo del disegno. Il nome di Walt Disney iniziò a farsi sempre più noto, ma ciò che lo rese davvero celebre, prima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo, fu la creazione delle piccole serie animate dove il protagonista era il coniglio Oswald. Il personaggio, inventato nel 1927,  diventò ben presto un’icona e il suo creatore riuscì a costituire la prima azienda col suo nome: la Walt Disney Company. Narrano le leggende che tutto prese avvio durante un viaggio in treno quando Walt Disney iniziò a disegnare uno schizzo di Oswald, cercando di semplificarne i tratti. La modifica più evidente era quella delle orecchie, che da lunghe diventarono piatte e tonde, decisamente più simili a quelle di un topo. Da quegli schizzi prese forma Mortimer Mouse, il personaggio che mandò in pensione Oswald. Tuttavia la compagnia decise di cambiarne il nome in Mickey Mouse. Ecco quindi Topolino, protagonista del primo film animato sonoro Steamboat Willie, con il famoso topo alla guida di un battello a vapore fluviale. Il cortometraggio ottenne un successo planetario che crebbe a dismisura quando arrivarono anche gli altri protagonisti: Paperino, Pluto, la fidanzata Minnie, Pippo e tutti i personaggi che hanno accompagnato la nostra infanzia.  “If you can dream it, you can do it”, amava ripetere Disney : ”se puoi sognarlo, puoi farlo”. Così nacque l’impero della fantasia e dell’immaginazione: non solo film e fumetti, parchi a tema e prodotti di consumo, ma anche media e spettacolo. Basti pensare al gruppo televisivo Disney-ABC, ai canali sportivi ESPN o agli studios d’animazione della Pixar. Già dal suo primo lungometraggio del 1937, Biancaneve e i sette nani (il primo film d’animazione prodotto in America, il primo ad essere stato prodotto completamente a colori), il mondo intero aveva intuito di aver a che fare con un genio sognatore. Non a caso, il giorno della sua scomparsa, l’allora governatore della California e futuro presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, in sette parole, diede voce al pensiero di tanti: “Da oggi il mondo è più povero”.

Marco Travaglini

Il Museo dell’Automobile racconta i 125 anni di Fiat

Una  mostra che ne ripercorre più di un secolo di sperimentazioni.

Dal 15 novembre 2024 al 4 maggio 2025 al MAUTO Museo Nazionale dell’Automobile

 

 

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1923. Stabilimento Lingotto pista sopraelevata collaudo vetture

In occasione dell’anniversario dei 125 anni dalla fondazione della FIAT, il MAUTO – Museo Nazionale dell’Automobile presenta la mostra 125 VOLTE FIAT che ripercorre la lunga e avvincente storia, unica nel contesto industriale novecentesco, della fabbrica automobilistica torinese. Il progetto espositivo, curato da Giuliano Sergio e realizzato in collaborazione con Centro Storico FIAT e Heritage HUB, è visitabile dal 15 novembre 2024 al 4 maggio 2025 negli spazi al piano terra del Museo.

 

Nata nel 1899, la Fabbrica Italiana Automobili Torino ha saputo cogliere le opportunità della rivoluzione industriale e dell’unità nazionale italiana per imporsi come principale interprete privato della modernizzazione del paese nel secolo scorso. Attingendo al grandissimo patrimonio visivo prodotto o ispirato da FIAT, la mostra ripercorre il legame che ha unito l’azienda automobilistica torinese allo sviluppo culturale, industriale ed economico dell’Italia e racconta il modello di modernità immaginato, progettato e promosso da un’azienda che con la sua intraprendenza ha influenzato una larga parte della storia nazionale.

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Sx: 1956. Colonia estiva Fiat di  Marina di Massa in Toscana

Dx: 1957. Set cinematografico per la pubblicità della Fiat Nuova 500

In esposizione al MAUTO, otto vetture rappresentative della storia del celebre marchio italiano corredate da una ricchissima selezione di opere d’arte, bozzetti d’artista e manifesti pubblicitari, documenti d’archivio e materiali grafici, fotografici e audiovisivi d’eccezione che contribuiscono a definire l’immaginario visivo dell’azienda.

 

L’ambizione di questa mostra e del catalogo che la accompagna è di raccontare i 125 anni della Fiat attraverso un caleidoscopio di immagini, un turbinio di oggetti, una miriade di tracce e documenti inattesi. Vorremmo sorprendere un pubblico troppo avvezzo a considerare la Fiat come una semplice fabbrica di automobili e già pronto a ammirare la lunga e ordinata carrellata dei prodotti che hanno fatto la storia industriale italiana e internazionale. Dietro l’immaginario ufficiale e un po’ polveroso dell’ammiraglia nazionale dell’automotive si nasconde una storia sorprendente e mobile, la capacità che l’ha sempre contraddistinta di saper interpretare le tumultuose vicende storiche del Novecento per proiettarsi nel contemporaneo”. Giuliano Sergio, Curatore della mostra.

 

Un percorso espositivo che, attraverso la potenza evocativa degli oggetti e delle immagini, racconta oltre un secolo di storia e sperimentazioni – non solo in campo automobilistico – offrendo uno sguardo approfondito sul modello imprenditoriale unico di un’azienda che ha rappresentato la via italiana alla modernità.

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Sx: 1935 ca. Fiat. Collage. di F. Casorati

Centro: 1958. Elettrodomestici Fiat.  copertina dépliant pubb.

Dx: 1928. manifesto  per la Fiat 521 (Il discobolo) di J. Le Breton

La Maschera di Ferro tra storia e leggenda

Torna, a Pinerolo, la rievocazione di un mistero storico (o leggendario?) ancora oggi irrisolto e, anche quest’anno, non mancherà il classico gioco del “Chi è?”

Sabato 5 e domenica 6 ottobre

Sarà ancora un weekend di storica “suspense”a Pinerolo per la XXI edizione de “La Maschera di Ferro”, rievocazione in programma sabato 5 e domenica 6 ottobre, sotto l’organizzazione dell’Associazione Storico-Culturale “La Maschera di Ferro Aps” e con il patrocinio e il contributo degli “Enti Locali”. La rievocazione di uno dei più celebri enigmi storici, ancora oggi avvolti nel più fitto mistero, ha cadenza biennale e ruota attorno al famoso “prigioniero senza volto”che, durante il regno di Luigi XIV di Francia, “Le Roi Soleil”, fu portato in catene in Italia (dall’isola di Santa Margherita, di fronte a Cannes, sotto la custodia di un ex moschettiere, Benigne de Saint-Mars) per essere incarcerato al Forte di Exilles, in Valle Susa, e poi nella cittadella di Pinerolo (24 agosto 1669) dove rimase fino all’ottobre del 1681. Nel 1698, quando Saint-Mars fu nominato Governatore della “Bastiglia”, si racconta del suo ritorno in Francia attraverso le memorie di un ufficiale della celebre prigione parigina che affermava di aver visto arrivare il suo nuovo superiore accompagnato da un detenuto “che il governatore tiene sempre mascherato e il cui nome non pronuncia”. Chi era dunque questo misterioso prigioniero, passato alla storia come “La maschera di ferro?”. Leggenda narra che fosse così importante che Luigi XIV non ebbe il coraggio di farlo decapitare, ma reo di una colpa così grave da costringerlo a nascondere il suo volto, per l’appunto, in una “maschera di ferro”. Dopo varie peripezie, solo la sua morte, avvenuta alla “Bastiglia” il 19 novembre del 1703, mise a tacere per allora voci e congetture. Se non che, alcuni anni dopo il decesso, si scatenò nuovamente una vera caccia all’identità dell’uomo. Che coinvolse anche importanti studiosi e letterati. “Sarà il gemello del re”, avanzò Alexandre Dumas ne “Il visconte di Bragelonne”, opera cui si sono ispirati in seguito anche numerosi film. “Un mistero vivente, ombra, enigma” affermò Victor Hugo. Per Voltaire invece fu “un prigioniero sconosciuto, dalla taglia al di sopra dell’ordinario, giovane e dalla figura la più bella e la più nobile. Portava una maschera con delle strisce d’acciaio. I carcerieri avevano l’ordine di ucciderlo se l’avesse tolta”.

Orbene, nel prossimo weekend, in quel di Pinerolo, torneremo a rivivere, anche con curiosità e un pizzico di fantasia, questo super misterioso “cold case” lasciatoci in eredità dalla Storia di oltre tre secoli fa. E lo si farà affiancando alla “rievocazione” anche un “gioco” che è ormai peculiarità di ogni edizione, laddove si è ben pensato di far indossare a un “personaggio celebre” i panni del prigioniero. A voi scoprirlo, attraverso tre indizi dati dagli organizzatori. Primo: “Si tratta di un personaggio conosciuto a livello europeo”. Secondo: “La città di Pinerolo lo trova sovente ‘appassionato promotore’”. Terzo: “La sua passione è la bicicletta”. Attraverso queste tracce chiunque può partecipare al gioco online “Indovina chi?”. Basta iscriversi e indicare il nome di chi si pensa possa essere il personaggio misterioso.

Nel 2022 la “Maschera di Ferro” fu interpretata da Arturo Brachetti, che così aggiunse un nuovo personaggio alla sua collezione, nel 2018 dal campione di ciclismo del passato Francesco Moser, nel 2016 dall’attore Ettore Bassi e nel 2014 da Fabio Troiano. L’albo è disponibile online su https://mascheradiferro.net/albo-doro/ . La personalità celata dietro alla maschera anche quest’anno verrà svelata solo dopo la conclusione della rappresentazione.

Non sarà però questo l’unico gioco legato alla rievocazione. Infatti anche quest’anno si proporrà “Scatta La maschera – Secondo Trofeo Iose Busa” (nona edizione) che darà la possibilità a fotografi dilettanti di cimentarsi nel ritrarre personaggi e simboli durante le giornate della manifestazione. Regolamento e modulo iscrizione sul sito www.mascheradiferro.net.

Il programma in breve: il via sabato 5 ottobre,alle 16, con il “Bando” e i “Tamburini di Pignerol” per le strade e le spianate del centro storico.  Alle 16,30, esibizioni sportive, con Musici e “Sbandieratori Borgo Tanaro” del “Palio d’Asti”. Dalle 21 alle 23,30: “La misteriosa notte del ‘600”. Fra i momenti clou, i moschettieri che scortano il misterioso prigioniero e lo rinchiudono in carcere (previsto anche il cambio della guardia), in una serata davvero vivace con tutto il centro storico animato tra esibizioni, danze, gruppi storici, figuranti e la rievocazione del “Bordello” del ‘600.

Domenica 6 ottobre, la messa in cattedrale e poi, dalle 15, partenza dei cortei che coinvolgono centinaia di figuranti. L’arrivo di tutti i gruppi sarà in piazza Vittorio: qui arriva anche la “Maschera di Ferro” e alle 18,30verrà svelata l’identità.
A corredo non mancheranno taverne e punti ristoro in via Trento (per l’occasione rinominata “Rue Crème Chantilly”).

Per info e il programma dettagliato: www.mascheradiferro.net

g.m.

Nelle foto: immagini di repertorio e Arturo Brachetti per un anno “Maschera di Ferro”