STORIA- Pagina 55

I 100 anni del “Principe di Piemonte” di Viareggio

Di Pier Franco Quaglieni

Quest’anno compie cent’anni il mitico “Principe di Piemonte” di Viareggio ed è anche uscito un libro per ricordarlo e si tengono manifestazioni speciali di tipo mondano – culturale di un certo spessore, anche se è difficile competere con la “Versiliana”.

Il “Principe“ e’ un luogo caro a me e alla mia famiglia. Conservo delle fotografie di mio padre vestito di un abito estivo elegantissimo scattate davanti all’hotel. Ci sono stato io stesso molte volte e sempre mi provoca una certa emozione soggiornare al “Principe” che in effetti assunse questo nome nel 1938 anche se nacque nel 1922.
Viareggio oggi è in piena decadenza e quell’ hotel tiene alto il nome di una grande tradizione turistica di una élite che non c’è più.  Stare in una delle sue suite e’ quasi come immergersi proustianamente nel tempo perduto, malgrado la massiccia ristrutturazione fatta dopo gli anni della crisi. A Viareggio sono riusciti a mantenere quel clima elegante che mi descriveva mio padre, mentre la riapertura recente del Grand Hotel di Alassio,
che sorse alla fine dell’Ottocento, ha coinciso con una trasformazione così forte che per me, che ci andavo bambino, appare totalmente cambiato, adatto ad un turismo di massa come è accaduto fino a poco tempo fa con gli oligarchi russi che non hanno proprio nulla da spartire con l’aristocrazia russa raffinata che frequentava l’albergo agli albori del secolo, prima della Rivoluzione d’ottobre.  Il “Principe di Piemonte” sembra celebrare il suo centenario quasi un po’ vergognandosi della sua intitolazione. Viene ricordato il soggiorno del radical chic al caviale Fabrizio De Andre’ che sapeva trattarsi bene, malgrado il suo detestabile estremismo settario, ma non si ricorda in modo adeguato il nome del Principe Umberto di Savoia a cui è intitolato l’hotel. Nella Viareggio di forte tradizione repubblicana e’ già tanto che nessuno- almeno che sappia io -abbia proposto di censurare il nome dell’ultimo Re d’Italia, ma forse è ancora difficile rievocare un’intitolazione storica che è stata motivo di orgoglio per noi piemontesi, che in Versilia abbiamo sempre privilegiato quell’Hotel. Mio padre mi ricordava che nel salone di ingresso c’era un grande ritratto del Principe ereditario Umberto che non era certo amato dal regime fascista e che per il centenario dovrebbe ricomparire. Sono personalmente pronto ad offrire un ritratto del giovane Principe di Piemonte. Vittorio Sgarbi che come me in gioventù e’ stato di sentimenti monarchici, dovrebbe intervenire con la sua autorevolezza ( ha scritto un bel saggio nel libro rievocativo del centenario ) per far sì che il ricordo del Principe di Piemonte sia adeguatamente rinverdito. L’altro ieri agli incontri promossi dall’hotel è stato ospite Calenda con la sua campagna politica, una scelta del tutto inopportuna in periodo elettorale perché c’erano decine di ospiti più autorevoli di lui da invitare. Ma c’è sempre tempo per rimediare e fare meglio. Ritornerò presto all’Hotel dove risiedo abitualmente quando presento i miei libri in Versilia. Non credo sia un assurdo che chi ha pubblicato quest’anno “I doveri“ di Mazzini si faccia promotore di un ricordo sabaudo. La storia è quella e va rispettata. Senza quel nome quell’hotel sarebbe un elegante hotel della Versilia,  ma nulla di più.  Non va dimenticato che i vecchi piemontesi, ad esempio la famiglia di Mario Soldati, preferivano la Versilia alla più vicina Liguria in un rapporto che forse nessuno ha ancora adeguatamente studiato.

Napoli Milionaria: l’attualissima lezione di Eduardo 

Sono trascorsi 38 anni da quel 31 ottobre del 1984 in cui moriva Eduardo De Filippo. Drammaturgo, attore teatrale e cinematografico, regista e sceneggiatore, grande poeta: Eduardo  è stato tra  i massimi esponenti della cultura italiana del Novecento. Dotato di personalità schiva, burbera, lontana dalle mondanità, ebbe un grande pregio: teneva in grande considerazione i giovani.

Ne sapeva riconoscere il valore e il potenziale, dando a molti una chance. Non sopportava i furbetti o i meschini. Ricordarlo è importante. Oggi più che mai. Con una riflessione più larga. C’è chi ha scritto che il Paese uscirà  da questa crisi imposta dalla pandemia come da una guerra. In parte lo dicono i dati, le analisi, le previsioni. Ma ancora di più lo dice la dignità ferita di molti. Se così è occorre a maggior ragione ritornare a quello spirito di riscossa civile che segnò la stagione della ricostruzione dopo l’ultima vera guerra che gli italiani hanno vissuto. Pensando a questo e pensando al teatro di Eduardo, viene alla mente un episodio, una storia particolare, che parla di lui ma , al fondo,  parla anche di noi. Il 25 marzo del 1945 al San Carlo di Napoli  andò in scena la prima rappresentazione di Napoli Milionaria. La vicenda è nota. C’è Gennaro Jovine, che è un uomo perbene. E’ andato in guerra e quando torna a casa trova la moglie che si è arrangiata e ha fatto un po’ di denaro con la borsa nera. E il resto della famiglia più o meno lo stesso: la figlia maggiore è incinta di un soldato americano. L’altro figlio traffica con piccoli furti e persino la più piccola è stata contagiata dal clima. Il terzo atto è quasi una storia a sé. La bambina più piccola è malata, molto, e serve una medicina che non si trova in tutta Napoli. Il medico dispera quando entra il vicino – un uomo che Amalia ha rovinato con l’usura – e che adesso è lì con la medicina in mano. E il dialogo diventa duro. Lei gli chiede cosa vuole in cambio. Lui le risponde che non può restituirgli la vita che gli ha tolto e quindi in cambio non vuole nulla. Ma le apre gli occhi sull’oscenità di quel suo arricchimento. Poi consegna la medicina al dottore e se ne và. Per Amalia è il crollo di un mondo. O anche il risveglio da un incubo. Così quando rimangono soli, marito e moglie, finalmente Eduardo (Gennaro) parla e le dice quello che pensa. Di quella brama di ricchezza, di quei biglietti da mille accumulati sulle disgrazie degli altri. Glieli butta sul tavolo e le dice “vedi, a me queste mille lire non mi fanno battere il cuore. E a te? Com’è che te lo fanno battere?”. C’è del moralismo? Forse, ma può starci nel teatro di Eduardo. Ma il talento è talento, e stupisce. E allora Amalia, che si è svegliata dal suo sonno, risponde. Poche frasi nelle quali c’è tutto. Lei si chiede: “Ma che cosa è successo?Che cosa ha travolto così le nostre vite, le cose che avevamo, principi semplici ma puliti – e ripete – ma che è successo?”. Sono le battute finali. Il figlio torna a casa perché non è andato a rubare; la figlia maggiore terrà il bambino e Gennaro finalmente può darsi coraggio con quella battuta immortale sulla notte che deve passare (“Ha da passa’ ‘a nuttata” ). Per la bambina, per la sua famiglia, per il Paese. Eduardo disse che il terzo atto lo recitò impaurito e in un silenzio assoluto. E raccontò che calato il sipario il silenzio proseguì per qualche secondo. Dopo esplosero “un applauso furioso” e un “pianto irrefrenabile”. Piangevano tutti, attori, comparse, il pubblico, gli orchestrali nel golfo mistico. E anche Raffaele Viviani che era corso ad abbracciare il Maestro perché aveva interpretato il “dolore di tutti”. La domanda banale è chissà come sarebbe oggi avere Eduardo tra di noi. Lui o qualcuno capace come lui di mettere in prosa la stessa domanda: ma che è successo? Come è accaduto che in un paese con la nostra storia e cultura ci sia chi abbia perduto la rotta? E che chi ha avuto o ha il potere, o vorrebbe averlo abbia pensato o pensi di poter fare a meno del popolo, magari perché abbagliato dal potere stesso? Però, e crediamoci una buona volta, la “nottata” deve finire, anche per noi, ora. E con un tempo nuovo, crediamoci ancora, si dovranno riconquistare i principi, l’onestà e la speranza di futuro come la famiglia Jovine.

 Marco Travaglini

A Coassolo, toccante retrospettiva dedicata a Domenico Riccardo Peretti Griva

“Il mondo fotografico di Riccardo”, illustre magistrato e fotografo coassolese

Fino al 31 agosto

Coassolo (Torino)

A sessant’anni dalla scomparsa, avvenuta l’11 luglio del 1962, il Comune di Coassolo (dove nacque il 28 novembre del 1882) torna a ricordare il suo figlio più celebre ed indimenticato, Domenico Riccardo Peretti Griva, attraverso una ricca retrospettiva fotografica curata da Giovanna Galante Garrone, storica dell’arte e nipote delle stesso Peretti Griva, in cui si presentano fotografie facenti parte della collezione privata di famiglia (furono più di 25mila gli scatti a sua firma), riproduzioni da originali del “Museo Nazionale del Cinema” di Torino (che custodisce il fondo donato dalla figlia Maria Teresa) e del Comune di Lanzo Torinese, che già ospitò la mostra nel luglio scorso. Tutte riunite in un’unica esposizione, fino al prossimo mercoledì 31 agosto, presso la “Sala Consigliare” del Comune, “si tratta di opere – sottolinea Giovanna Galante Garrone – realizzate nella prima metà del secolo scorso e che restituiscono una preziosa sintesi delle predilezioni tematiche e delle scelte estetiche di Riccardo Peretti Griva”. “Le sue fotografie in bianco-nero – prosegue – testimoniano una forte attenzione al chiaroscuro che nel procedimento di stampa, assume caratteri pittorici di particolare liricità”. Magistrato, giurista, fervente antifascista e provetto alpinista – come l’amico magistrato Umberto Balestrieri, che lo iniziò alla passione per la fotografia – in magistratura Peretti Griva rimase per 43 anni, partendo come pretore di Morgando e arrivando (in una carriera per molti “scomoda”, da “magistrato del vecchio Piemonte” come ebbe a definirlo il genero Alessandro Galante Garrone) fino a ricoprire la carica di primo presidente della “Corte d’Appello” di Torino”. Sua costante compagna di strada, l’inesauribile passione per la Fotografia. Formatosi nella “Scuola Piemontese di Fotografia Artistica”, è nel 1905, sull’onda dell’“Esposizione Internazionale” tenutasi a Torino che inizia la sua incalzante avventura artistica, che lo porterà, fra il 1920 ed il 1950, ad essere considerato uno dei principali esponenti del cosiddetto “pittorialismo” italiano, attratto in particolare dal tema della natura, cristallizzata in poetiche atmosfere romantiche, attraverso la sofisticata tecnica al “bromolio”, con l’utilizzo di interventi manuali in grado di conferire alle foto le sembianze di un disegno a carboncino, e meno frequentemente con quella al “bromuro d’argento”. Nel 1923 viene premiato alla “Prima esposizione internazionale di fotografia, ottica e cinematografia” e da allora partecipa costantemente ai “Salons d’arte fotografica internazionale di Torino”, nonché a numerose altre manifestazioni in Italia e all’estero. Molte anche le mostre dedicategli in seguito.

Le più recenti, fra le postume, al “Museo Nazionale del Cinema” e al Museo “Arnaldo Tazzetti” di Usseglio (2018), a cura di Daniela Berta e di Giovanna Galante Garrone. Nel febbraio del 1962, gli venne assegnata l’onorificenza di “eccellenza” da parte della prestigiosa “Féderation internationale de l’art photographique”. E’ l’occhio della poesia, della semplicità e della sincerità che guidavano e guidano ancor oggi la vita dei contadini e dei suoi montanari, dall’Alpe Vaccarezza alla Cima dell’Angiolino fra le Valli Tesso e Malone, a “marchiare” in ogni angolo e prospettiva la sua opera. Dalla dolcezza compiaciuta della “madre” di Gubbio alla meravigliata curiosità della piccola di “Purità”fino ai due vecchietti intenti a leggere e a commentare un giornale in due sulla panchina posta davanti alla Chiesa del paese e al silente tappeto di neve, promessa generosa di frutti buoni che verranno. In ogni opera l’insegnamento delle radici.

L’onestà che guidò ogni gesto, ogni decisione, ogni attimo della sua vita. Congedandosi dalla Magistratura, il 19 aprile del 1953, Peretti Griva scriveva in un “Discorso ai Coassolesi”: “Io voglio bene a Coassolo…E’ qui che sono sempre accorso a rinfrancarmi…Qui mi rinfrescavo l’anima coi ricordi gentili nella grande pace non profanata dalle contese cittadine” . E ancora, ricordando il giorno in cui vi salì (“nelle limpidezze del piano di Coup”) quando a Torino arrivò il Duce: “Trovai un contadino che mi chiese ‘Come mai Riccardo si trova quassù mentre Mussolini è a Torino?’. Mi fu facile rispondere che ero lassù, nell’aria pura, proprio per liberarmi dall’aria asfissiante delle adunate forzate”.

Gianni Milani

“Il mondo fotografico di Riccardo”

Sala Consigliare Comune di Coassolo, via Capoluogo 198, Coassolo (Torino); tel 0122/45617 o www.comune.coassolo.to.it

Fino al 31 agosto

Orari: nei giorni feriali, 9/12

Nelle foto:

–       “Purità”, stampa alla gelatina ai sali d’argento, 1930 ca.

–       “La madre”, Gubbio, bromolio trasferto, 1939 ca.

–       “Il giornale”, bromolio trasferto, 1925-‘30

–       “La lunga attesa”, gelatina ai Sali d’argento, 1930-‘40

Piemontesi a Lepanto. La flotta sabauda nella battaglia del 1571

Tre galee e due giganti della storia subalpina, l’ammiraglio Andrea Provana di Leinì e il duca Emanuele Filiberto di Savoia.
Anche i piemontesi fecero la loro parte, si distinsero e combatterono come leoni nella battaglia di Lepanto. Quel giorno, il 7 ottobre 1571, oltre 400 galee e quasi 200.000 uomini si scontrarono nella più grande battaglia navale dell’Era moderna, 200 galee cristiane contro 200 galee turche, 90.000 cristiani contro 90.000 turchi. Come gran parte dei principi italiani, anche i Savoia inviarono navi e soldati per combattere i turchi e respingere la minaccia ottomana nel Mediterraneo e in Europa. Nella seconda metà del Cinquecento gli Ottomani erano una grande potenza e una grande minaccia per l’Europa cristiana. I ciprioti ne sanno qualcosa: l’isola veneziana, baluardo cristiano nel Mediterraneo orientale, fu conquistata dalla flotta turca e gli abitanti di Famagosta furono massacrati. L’eccidio provocò una tale ondata di sdegno in Europa che spinse i sovrani a rispondere con la forza per frenare l’espansione turca verso occidente. La vittoria cristiana a Lepanto fu forse sopravvalutata perché bloccò solo temporaneamente i piani del sultano ma fu anche la prima e più importante vittoria di un’armata cristiana contro i musulmani. La gloria di Lepanto si protrasse per secoli e la data del 7 ottobre 1571 viene ancora oggi ricordata e commemorata nei Paesi europei. Su Lepanto sono stati scritti numerosi libri ma nessun testo finora ha messo bene in risalto il ruolo dei sabaudi e la partecipazione alla battaglia navale della piccola ma coraggiosa flotta piemontese comandata dall’ammiraglio Andrea Provana di Leynì e inviata nel Golfo di Patrasso da Emanuele Filiberto. Una lacuna che il libro “Lepanto, i piemontesi combattono”, di Massimo Alfano e Giorgio Enrico Cavallo, Pathos Edizioni, ha provveduto a colmare. “Un volume che, scrive nell’introduzione Paolo Thaon di Revel, narra con dovizia di particolari l’inizio della marineria di Casa Savoia svelando episodi e notizie curiose spesso ignorate o sottovalutate”. I Savoia dunque si fecero valere anche sul mare con una propria marina, piccola ma potente ed efficiente, temuta e rispettata dalle altre potenze marinare. Con la spedizione di Lepanto i Savoia si sedettero per la prima volta al tavolo delle grandi potenze, vincitori della guerra contro il sultano ottomano insieme alle forze della Lega Santa voluta da Pio V. Lepanto non fu solo un episodio importante nel quadro del secolare scontro tra Oriente e Occidente ma, scrivono Alfano e Cavallo, “fu piuttosto un passo fondamentale per enfatizzare la potenza dei Savoia che divennero indispensabili attori dello scacchiere europeo, anche per quanto riguarda la geopolitica marittima”. La fama di Lepanto per i Savoia fu però quasi nascosta dalla storiografia che certamente esaltò le gesta del Provana e di Emanuele Filiberto ma, lamentano gli autori del libro, “mancò di sottolineare che proprio da quella campagna navale il Piemonte sabaudo si candidò ad entrare da protagonista nelle complesse vicende mediterranee”. Pertanto gli eventi di guerra sul mare non furono solo “periferiche scaramucce prive di importanza”. Due uomini aiutarono in modo determinante il duca Testa di Ferro nella sua opera di modernizzazione della politica marittima: Andrea Provana di Leynì, governatore di Nizza e consigliere tecnico del duca di Savoia e Giovanni Moretto, consulente per la costruzione e l’utilizzo delle galee. La flotta sabauda mostrò tutto il suo valore prima nell’assedio ottomano di Malta del 1565 e poi con la Lega Santa nel 1571 a Lepanto dove si batterono tre galee, la Capitana, la Piemontesa e la Margarita. Malta e in modo particolare Lepanto, osservano gli autori del libro, significarono molto per i Savoia ed esaltarono “quello che fu probabilmente il primo eroe del moderno Piemonte sabaudo, l’ammiraglio Andrea Provana di Leynì”, nominato da Emanuele Filiberto capitano generale delle flotta sabauda e Grande ammiraglio dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Ottenne inoltre il Collare dell’Ordine supremo della Santissima Annunziata. Durante la battaglia il Provana fu colpito alla testa ma si salvò grazie al “morione”, un tipo di elmetto, che ammortizzò il colpo di un archibugio. Un capitolo è dedicato a papa Pio V, il domenicano alessandrino Antonio Ghislieri, l’unico Papa piemontese, alla cui figura è legata la costituzione della Lega Santa, voluta fortemente dal pontefice per difendere la fede e la civiltà cristiana, senza la quale non sarebbe stato possibile sconfiggere i turchi a Lepanto. Pio V istituì un giorno festivo per ricordare l’evento sotto il nome di festa della Madonna del Rosario e celebrò in San Pietro una grande Messa di ringraziamento per la vittoria di cui parlava tutta la cristianità. Anche a Torino ci furono grandi festeggiamenti per la vittoria di Lepanto. La notizia giunse in città solo il 19 ottobre e fu un tripudio generale con feste popolari, fuochi di artificio, spari di artiglieria e solenni celebrazioni in duomo e in tutte le chiese di ogni piccolo paese.
                                                                                      Filippo Re

Spirito geniale. Scrittori, ispirazione e alcol

Penne e drink, capolavori e banconi dei bar, centinaia di righe scritte in compagnia di cocktail che hanno ispirato la creatività e donato leggerezza a molti scrittori, indiscussi talenti della letteratura

 

Alcuni ne hanno abusato, ne hanno fatto uno stile di vita non sempre benefico, altri sorseggiando meravigliosi cocktail e istaurando con l’alcol un rapporto affettivo più equilibrato, di equa e sobria distanza, hanno dato vita a opere letterarie altresì straordinarie.

Il bevitore per eccellenza fu Hernest Hemingway, “bevo da 15 anni e nessuna cosa mi ha dato più piacere” affermava. Genio della forma scritta, coraggioso nei reportage di guerra, Premio Nobel per la Letteratura con Il vecchio e il mare, non si vergognò mai della sua debolezza terrena, del suo amore per il vino anzi “un uomo intelligente a volte è costretto a ubriacarsi per passare il tempo tra gli idioti” diceva. Tra i sui cocktail preferiti il Mojito, foglie di menta, lime, zucchero bianco di canna, ghiaccio spezzato, rum e soda e il Daiquiri, da egli stesso reso celebre, fatto con una miscela di rum, limone, zucchero, ghiaccio tritato e maraschino. Tra le sue preferenze pare ci fosse anche il whisky, assolutamente senza ghiaccio. Oscar Wilde, eccezionale scrittore e drammaturgo irlandese, era un tradizionalista e amava moltissimo lo Champagne. In seguito, dopo il suo trasferimento a Parigi in seguito a vicende giudiziarie che biasimarono la sua moralità, si dedicò all’Assenzio che considerava poetico, incline all’amore e per cui “è necessario il silenzio, la meditazione, la dolce pazzia”.

L’autore del mistero e del terrore Edgar Allan Poe amava invece il Brandy. L’alcol è spesso protagonista delle sue opere come ne Il gatto nero dove colui che narra la storia è proprio un bevitore ostinato. A causa del suo vizio ebbe problemi già ai tempi dell’università, la sua vita fu difficile, ma il suo animo tormentato diede vita a opere incredibili, poetiche e passionali. “Ciò che non cura il brandy è incurabile” dichiarava, riferendosi molto probabilmente al dolore per la morte della moglie, un evento che lo fece sbandare ma che non gli impedì di scrivere magnifiche e indimenticabili capolavori del brivido.

La birra, signora alcolica morbida ma decisa, “scoperta più grande del fuoco” come affermava Wallace è stata magnificata da molti scrittori. Charles Bukowsky la mischiava con qualsiasi altra bevanda, Goethe affermava che sapere dove si “spilla” la birra aiuta a conoscere la geografia, Poe le dedicava poesie, Rimbaud scriveva che “giugno sa di vigne e birra” e Milan Kundera: “Non è la birra una santa libagione di sincerità? La pozione che dissipa ogni ipocrisia, ogni sciarada di belle maniere?”. Il nostro Gabriele D’annunzio, poeta esuberante e trasgressivo, fu testimonial dell’Amaro Montenegro e Amaretto di Saronno, ma il suo rapporto con il vino rimane ancora un mistero, “non bevo vino dall’infanzia” diceva, “Iersera bevvi una certa “malvasìa” a me donata dai Càlabri! E tu sai che io son quasi astemio”.

Forse, come scriveva Euripide, ”bevendo gli uomini migliorano” e sicuramente l’alcol avrà favorito momenti di pura creatività e attutito periodi bui di dolore esistenziale, ma bere non può essere una condotta abituale, una consuetudine giornaliera che diventa indispensabile, una terapia o una automedicazione. Un bicchiere con gli amici, un drink dopo il lavoro, una concessione saltuaria per rilassarsi un po’ e distendere le tensioni che la quotidianità ci procura, solo questo può essere, un piacere effimero. Bere responsabilmente invece può anche aiutare l’organismo infatti l’alcol può funzionare come antiossidante, grazie al polifenolo contenuto nella buccia dell’uva, e come antinfiammatorio, maggiormente attivo nel vino rosso.
Insomma, come dice un anonimo è molto probabile che l’alcol sia un propellente che fa andare lo spirito in orbita, ma rimanere ben ancorati e sobriamente a terra è molto più salutare.

 

Maria La Barbera

Torino e i suoi musei. Il MAO

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Torino e i suoi musei

Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori.

Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

8 Mao

“Oriente”: una parola così piccola che cela un significato così grande. Geograficamente il termine indica il “mondo” che si estende ad est, il Vicino, Medio ed Estremo Oriente, rispetto all’Europa, con le sue numerose culture e religioni assai lontane da noi, forse più da un punto di vista concettuale che del territorio. Oggigiorno, nel mondo della globalizzazione e del livellamento culturale, nulla pare irraggiungibile, aerei, treni ad alta velocità e colossali transatlantici inaffondabili ci portano ovunque e noi godiamo mentre, abbronzati, ci scattiamo “selfie” con sfondi esotici e che fanno tanto moda “blogger”: è evidente che non si esce dal tranello della società dei consumi.  Per me l’ “Oriente” è qualcosa che conosco appena, un’infinità di mistici saperi che ancora non ho avuto modo di approfondire e studiare.
L’ “Oriente” è un enigma che l’ “Occidente” non potrà mai risolvere. La parola deriva dal latino “orior”, “nascere”, riferito al Sole che sorge; in geografia diventa sinonimo di “levante”, termine che per assonanza di significato si collega a “Nippon”, uno dei nomi del Giappone, “Ji Pen Kwo”, letteralmente traducibile con “Paese dove sorge il Sole”.

Una delle tante definizioni recita: “L’opposto dell’oriente è l’occidente, associato viceversa al concetto di tramonto e decadenza”. E con questa serafica affermazione potrei anche terminare qui le mie riflessioni di oggi, ma volutamente continuo perché voglio portarvi nel luogo in cui Torino conserva il suo “Sol Levante”.  Nel cuore del Quadrilatero romano, mimetizzato tra ristorantini, “torterie” e locali chiassosi, sorge il MAO-Museo d’Arte Orientale. Il museo, uno dei più recenti tra quelli ospitati dalla città, ha sede a Palazzo Mazzonis, noto come “Palazzo Solaro della Chiusa”, abitazione dell’omonima famiglia. L’edificio venne restaurato nel 1870, divenendo proprietà del Cav. Paolo Mazzonis di Pralafera, importante industriale tessile. Successivamente esso fu adibito a sede della Manifattura Mazzonis s.n.c. fino al 1968, anno in cui l’attività cessò. Nel 1980 fu ceduto al Comune di Torino, nel 2001 il palazzo fu oggetto di altri restauri e finalmente il 5 maggio 2008 si inaugurò l’apertura del MAO. L’esposizione del MAO è formata dalle collezioni già precedentemente conservate nel Museo Civico d’Arte Antica e dai reperti provenienti dalle raccolte della Regione Piemonte, della Compagnia San Paolo e della Fondazione Agnelli.

Lo scopo è quello di rendere note al pubblico opere emblematiche della produzione artistica orientale. Il compito di curare l’allestimento interno è stato affidato all’architetto Andrea Bruno, il quale ha previsto una tipologia di esposizione a rotazione di circa 1500 opere disposte in cinque sezioni corrispondenti ai diversi piani del Palazzo: il primo ed il secondo piano sono dedicati al Giappone, il terzo ospita la “Galleria Himalayana” mentre il quarto, che conclude il percorso, offre preziosi esempi d’arte islamica.
Vi sono poi anche altre collezioni, come quella del Gandhara che comprende la produzione artistica dell’Afghanistan e del Pakistan nord-occidentale; una zona è dedicata all’India, in cui sono visibili sculture, busti, bronzi, terrecotte e dipinti su cotone originari del Kashmir e del Pakistan Orientale; un’altra area è dedicata al Sud-est asiatico, nella quale sono esposte opere della Cambogia, Myanmar, Thailandia e Vietnam. Un’ultima sala espositiva si propone di presentare al pubblico interessanti elaborati dell’arte islamica provenienti dalla Turchia, dalla Persia e dall’Asia Centrale.

Eccoci allora pronti per la visita.
“Saltellando” tra un sanpietrino e l’altro, finalmente raggiungo l’ingresso del Museo. Appena varcata la soglia, pare subito evidente che stiamo entrando in un altro mondo: l’atrio fatto di vetrate e sabbia bianca propone un’elegante ricostruzione di un giardino “zen” giapponese con tanto di muschio e, proprio in linea retta con il mio sguardo, un saggio “Buddha” mi sorride, conscio della sua superiorità filosofico-intellettuale. Mi dimentico sempre di quanto sia grande il MAO, con i suoi quattro piani ricolmi di opere meravigliose, abilmente disposte e illuminate. Come molto spesso mi capita di dire, penso “la teoria la so”: i primi due piani sono dedicati al Giappone, dovrei trovare dapprima dipinti, paraventi e sculture lignee, poi armature e preziose stampe, al terzo piano, invece so che ci sono rari esemplari di “thang-ka” tibetani mentre all’ultimo dovrei trovare, tra gli altri ricercati oggetti, alcune copie del Corano.
Solo per non creare più dubbi del necessario, “thang-ka” in tibetano significa “messaggio registrato” o “arrotolato” e indica dei dipinti didascalici che danno degli aiuti per la vita, in quanto ogni dettaglio rappresentato cela un significato preciso e profondo. Questa è la teoria, in pratica inizio il percorso e subito mi perdo, un po’ a causa del mio inesistente senso dell’orientamento, un po’ perché appositamente mi voglio abbandonare in questo minuscolo viaggio sensoriale alla scoperta di ciò che “so di non sapere”.

Quando mi imbatto nel “Kongo Rikishi stante su base rocciosa” mi sembra quasi di incontrare un demone di Luca Signorelli: non sono riuscita a lasciare il mio occidentalismo fuori dalla porta. La scultura che mi trovo davanti è enorme, eseguita in legno di cipresso giapponese dipinto, alta 230,5 cm e risalente al periodo Kamakura, (seconda metà XIII secolo). L’opera è stata realizzata con la tecnica “yosegi-zukuri”, (pezzi assemblati) e rappresenta uno dei due “dvarapala”, ossia i guardiani del tempio e della dottrina buddhista, generalmente posti in coppia ai lati della porta dei monasteri. Il viso espressivo è segnato dalla particolare illuminazione della sala, gli occhi esorbitanti sono eccessivamente in fuori, la bocca è contratta ed esprime l’esplosività della sillaba “hum”, il terribile mantra delle divinità furiose. La penombra segna il petto nudo, ne esalta i muscoli e le vene in rilievo, la figura, imponente e possente, rispecchia i canoni della “Scuola Kei”, apprezzata dalla casta militare che a quell’epoca dominava il paese.

Mi sento come in un viaggio fantastico, le opere che vedo le percepisco come esseri alieni che mi dispiace non identificare e forse proprio per questo li scruto con l’attenzione di un pioniere.
Continuo a perdermi e intanto che tento di capire geograficamente dove mi trovo, incontro “Zhenmushou” e quasi mi spavento. Capisco di essere in Cina, sto guardando una creatura protettrice delle tombe, è una scultura in terracotta a impasto marrone-rosato, ingobbio bianco e pigmenti appartenente alla seconda metà VII secolo d.C, (dinastia Tang). Mi sento osservata di rimando, il mostro multicolore,-bianco, arancione, nero e rosso- è accucciato in una postura rigida e frontale, ha testa di animale, il muso largo e schiacciato, tiene le fauci spalancate, lunghe corna da antilope e piccole ali sul dorso. Mi accorgo della coda sinuosa che pare muoversi appena distolgo lo sguardo, ha artigli aguzzi nelle zampe e pancia piatta. Forse non è cattivo, ma preferisco allontanarmi.
Come inseguendo una bussola rotta mi trovo magicamente in India. I reperti sono assai numerosi, eleganti, agghindati e sinuosi come la “shalabhanjika” che mi conquista con la sua danza immobilizzata nella pietra. L’immagine, scolpita a rilievo nel marmo, raffigura la tipica movenza del corpo chiamata “tribhanga” che subito mi rimanda all’iconografia della danza del ventre, l’anca è incurvata, il busto si dispone di conseguenza e a me sembra di sentire dei campanelli sonanti in risposta a quei movimenti. La fanciulla ha il braccio alzato sopra la testa e con la mano sta afferrando un ramo rigoglioso, è la posa dello “shalabhanjika”, ossia “colei che spezza un ramo dell’albero”.

Un altro balzo temporale e geografico e sono in Tibet. Qui l’iconografia del Buddha la fa da padrona ed è proprio davanti ad uno di questi Buddha che decido di fermarmi. Mi avvicino alla teca e scruto la scultura –o forse è lui a guardare me- leggo la targa, c’è scritto: “akshobhya” che significa “l’Irremovibile”, “l’Imperturbabile”. La nomenclatura è più che azzeccata, il Buddha del Paradiso d’Oriente non si smuove davanti alla tentazione di Mara, “Morte” (dalla radice sanscrita “mri”), l’asura che cerca di distogliere il Buddha dal “Risveglio”. Gautama Buddha raggiunge così l’Illuminazione. La figura maestosa, il volto scolpito con un sorriso appena accennato, tipico del periodo Pala, siede in “vajrasana”, la mano sinistra è nel tipico atteggiamento meditativo, con l’altra sfiora il suolo, è, cioè, in “Bhumisparshamudra” ossia con il “gesto che chiama la Terra a testimone del diritto maturato in infinite vite precedenti”.
La sintesi non rientra nei requisiti necessari per raggiungere il Nirvana.

Trasportata dalla penombra arrivo al termine del percorso, sono circonda da preziosità islamiche e anche qui sento la vastità della definizione -tutta occidentale- di “arte islamica”, con cui si identifica la produzione artistica eseguita in quasi mille anni, dalla fondazione dell’Islam (ad opera del profeta Maometto, nel VII sec. d.C,) fino al XVII secolo, quando iniziano a definirsi i grandi imperi islamici. Soprattutto in un primo momento i motivi che caratterizzano tale produzione artistica sono disegni geometrici e vegetali, come quelli che decorano la cupola della roccia di Gerusalemme (VII sec. d.C.). L’artista musulmano deve seguire alcuni dettami estetici, definiti dal Profeta: “Dio è bello e ama la bellezza”; “Dio ha iscritto la bellezza in tutte le cose”; “Dio desidera che se fate qualche cosa, ciò sia fatto alla perfezione”; “Il Lavoro è una forma di adorazione”.  In questo contesto mi colpisce un manoscritto proveniente dalla Persia, il Commentario sulle “40 Tradizoni”, databile al periodo timuride. L’opera è attrib uita al Profeta, tradotta dal poeta Ahmad al-Jami e copiata dal calligrafo Muhammad al-Sabzevari. Il testo, scritto in grandi caratteri “muhaqqaq” è stilato in oro con vocalizzazioni in blu, i caratteri più piccoli e neri sono persiani (“rayhani”), i primi due fogli sono interamente miniati in oro e colori.
Immersa tra tali reperti, mi sembra difficile capire come sia stato possibile arrivare alle miserie violente che purtroppo continuano a non cessare là dove l’integralismo religioso ha vinto sulla cultura e sulla bellezza.

Il mio viaggio è finito, l’astronave su cui ero salita mi ha riportato a “riveder le stelle” occidentali, non mi resta che mescolarmi tra la folla chiassosa, conscia del fatto che quando si torna da un viaggio, non si è mai la stessa persona di prima.

Alessia Cagnotto

Ultimi giorni per “Invito a Pompei”, mobili, affreschi e suppellettili all’interno di una domus romana

Nella Sala del Senato a Palazzo Madama, sino al 29 agosto

“Mi chiedi di narrarti la morte di mio zio affinché tu possa tramandarla ai posteri con maggiore esattezza” scriveva Plinio il Giovane nelle “Lettere ai familiari”. E ancora: “Frattanto in molte parti del monte Vesuvio risplendevano larghe fiamme e vasti incendi, il cui chiarore e la cui luce erano resi più vividi dalla oscurità della notte… Intanto il livello del cortile s’era così tanto innalzato per la caduta di cenere e pomici che, se avesse più a lungo indugiato, non sarebbe più potuto uscire dalla stanza”. Una vittima e un testimone, immagini che ci ridanno il dramma di quegli istanti. Era il 79 d.C., il 24 ottobre secondo gli studi più o meno recenti che hanno posticipato di un paio di mesi gli avvenimenti rispetto all’antica datazione, motivi una vinificazione che ad agosto non poteva ancora essere in atto, la presenza di certi frutti soltanto nei mesi autunnali, e altri ancora. Un passato tragico che cominciò a vedere la luce il 30 marzo 1748 per ordine di Carlo III di Borbone e sotto la famigerata direzione dello spagnolo Gioacchino de Alcubierre (“L’attinenza di Alcubierre con l’archeologia è la stessa che ha la luna con i gamberi”, ebbe a dire il tedesco Winkelmann, “una volontà di scavo ingorda e distruttiva”, aggiunge Federico Villa, direttore oggi di Palazzo Madama), fatto soltanto per depredare, riscoprire tesori poi ricoperti o distrutti, scavare cunicoli per recuperare una statua con la distruzione di antichi edifici. Poi arrivarono i Bonaparte e i Murat, l’interesse profondo o il disinteresse dei tanti Borbone, gli scavi sistematici all’indomani dell’Unità, la figura predominante nell’Italia del XX secolo di Amedeo Maiuri, soprintendente di Pompei dal 1924 al 1962. Una vetrina che oggi, grazie alla direzione di Massimo Osanna e del suo successore Gabriel Zuchtriegel, nell’ambito del “Grande Progetto Pompei”, ha messo a cielo aperto cinquanta ettari su una complessiva superficie di 66.

Un assaggio di quel mondo è fino al 29 agosto a Torino, all’interno della Sala del Senato di Palazzo Madama, con un suggestivo “Invito a Pompei” che non vuol essere soltanto una mostra comunemente intesa ma altresì uno spaccato di vita quotidiana, espressa attraverso la visione di 132 reperti, con le abitudini degli abitanti, con gli ambienti in cui passavano il loro tempo, con gli oggetti che li circondavano, gli arredamenti e gli affreschi. Un invito che, attraverso la visione di un modellino della Casa del Poeta Tragico – quella che è stata l’ambientazione nel 1834 del romanzo “Gli ultimi giorni di Pompei” dell’inglese Edward Bulwer-Lytton, quella al cui ingresso il turista s’imbatte nel celebre mosaico “Cave canem” -, prende forma, a rappresentare quanto stava all’interno delle case più lussuose della Pompei del I secolo d.C., elementi in più per noi visitatori, che idealmente colmano una geografia cittadina che un evento capace di cancellare in un attimo intere esistenze ha reso del tutto vuota. Ha detto il sindaco Lo Russo, durante la presentazione alla stampa di un evento la cui preparazione e l’allestimento sono avvenute nel tempo veramente ristretto di 51 giorni: “La mostra vuol essere l’inizio di un rapporto che i nostri Musei Civici vogliono tessere sempre più con i musei nazionali, è una delle occasioni per rendere la nostra città più visibile a livello internazionale”, anche a ribadire come la cultura abbia un’importanza non secondaria in questa amministrazione.

“Una mostra che non sarebbe stata possibile senza l’abnegazione, la costanza e la non comune disponibilità degli archeologi e della direzione di Gabriel Zuchtriegel”, sottolinea ancora Villa. E allora eccoli i vari ambienti di “questa” casa, che ci spalanca le porte, mostrandoci i vari aspetti di una vita che cresceva all’ombra del Vesuvio. Attraverso l’atrio, che era illuminato soltanto da luce naturale e dove trovavano posto i lari, le divinità della casa – dove troviamo un Ninfeo (quello della Casa del Bracciale d’oro, prima metà I sec. d. C.), una stupenda costruzione in mosaico a tessere di vetro, dove predominano l’azzurro e il verde e dove in alcune zone è ancora ben visibile l’intreccio di conchiglie decorative, e una “Parete con pittura da giardino” (25 – 50 d.C.), un fitto raggrupparsi di piante, fiori dai tenui colori e uccelli diversissimi, con centrale una finestrella dalla quale il padrone di casa si entusiasmava con uno spicchio del golfo di Neapolis -, s’accede nel triclinio, il luogo dei banchetti, con un tavolino su cui deporre i vini e le vivande, il letto su cui sdraiarsi con le parti lignee rifatte ma quelle originali in bronzo e argento di squisita bellezza. Si può dire che qui si stabiliva lo stato d’agiatezza dell’ospite, secondo la fattura e i materiali e la elegante ricchezza di bicchieri o coppe o altro vasellame che erano presentati agli invitati che erano l’élite della città.

Vetrine con cartellini chiarissimi, appoggiate a pareti rosse e gialle, mostrano poi i gioielli che nelle case e nelle strade della città facevano la celebrità di tante matrone, coppie di bracciali e orecchini rigorosamente d’oro e con piccole pietre incastonate, anelli con pietre preziose lavorate; come i cofanetti, gli specchi, i pettini e i trucchi (curioso un minuscolo contenitore che mostra ancora al suo interno un trucco rosato che serviva alla padrona di casa per rendere vive le guance). Copiosa la presenza di dipinti, “Pegaso e Bellerofonte” e “Adone bambino” tra i meglio conservati e belli, da una villa rustica di Gragnano “Diana al bagno spiata da Atteone”, come non può non incuriosire il visitatore una imbarcazione a forma fallica circondata da una coppia d’anatre e da un gruppo di pigmei danzanti. E ancora, con la ricostruzione di una camera da letto, di piccole dimensioni com’era d’uso, statue marmoree e piccoli oggetti per il culto, colonnine votive, un altare in miniatura di marmo e bronzo, coppe con decorazioni a sbalzo, erme da giardino, bracieri, lanterne, meridiane, applique (da notare quella che rappresenta un piccolo cane, probabile decorazione di un mobile, ancora I sec. d.C.).

In ultimo, a conclusione della mostra, alcuni esempi delle vittime dell’eruzione, con il loro ultimo gesto, il dolore e la disperazione, un patrimonio che gli scavi ci hanno reso in un numero non inferiore alle mille unità. Dalla Casa di Orfeo, il calco di un cane da guardia, rimasto legato alla catena (si vedono ancora i due anelli), in una posizione innaturale, nell’atto convulso di districarsene. Dalla Casa del Criptoportico proviene una coppia, creduta sino a ieri un uomo e una donna ma che oggi il DNA corregge verosimilmente in due uomini, caduti uno con la testa sul grembo dell’altro. Forse l’immagine più cruenta e dolorosa è quella di un uomo (proviene dalla Casa di Maio Castricio), appoggiato su un fianco, che s’è portato nell’ultimo istante la mano destra alla bocca: stringe qualcosa, forse un fazzoletto, un pezzo di tessuto nel gesto disperato di proteggersi dalla cenere.

Elio Rabbione

Le immagini della mostra (Ph. Perottino) 

Domenica al Castello di Marchierù

Fra le Dimore Storiche del Pinerolese, domenica 28 agosto sarà aperto al pubblico il castello di Marchierù ( Villafranca Piemonte)

Una giornata con visite guidate dagli stessi proprietari, discendenti dei primi feudatari di questo maniero che conserva l’impianto medioevale, pervenuto dal 1220 ai giorni nostri senza alcuna vendita ma tramandato sempre per eredità o per dote.


Domenica 28 agosto sarà aperto al pubblico
CASTELLO DI MARCHIERU’
(Fraz S.Giovanni 77)
Villafranca Piemonte
Il castello si racconterà con passeggiate nel parco, ricordi di matrimoni in cappella, le scuderie settecentesche del Maresciallo d’ Austria Filippi di Baldissero, le sale storiche ammobiliate con la scrivania della prima guerra d’indipendenza, la tavola imbandita con servizi d’epoca in sala da pranzo, i suoi rituali, il fumoir… ed il cugino Camillo di Cavour, i ricordi dei familiari francesi Richelieu e Galliffet, la ghigliottina e l’incontro con il boia, la vicenda di Teresa Canera di Salasco prima Dama di Corte della Regina di Sardegna….
La storia di uno dei più antichi Casati piemontesi raccontata dai discendenti diretti che dal 1220 tuttora abitano il castello.
visite ore 10/11*15/16/17
adulti € 8 * bimbi gratis fino a 10 anni
Prenotazione obbligatoria al 3394105153/3480468636 * segreteria@castellodimarchieru.it

Ecco il romanzo della prossima Guerra mondiale

‘2034 – Il romanzo della prossima guerra mondiale’, edito per i tipi della Feltrinelli nel 2021, non è un libro che guarda ad un futuro prossimo ma quasi al presente. Scritto prima dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ‘fotografa’ quasi una situazione di alta tensione internazionale (che sfocerà in una guerra con tanto di opzione nucleare) molto simile a quella che attualmente si sta vivendo al di fuori dell’Europa. Anzi l’Europa nel romanzo gioca un ruolo davvero marginale perché la partita vede in campo da un lato gli Stati Uniti, dall’altro la Cina, l’Iran e una Russia guidata dall’ottuagenario Vladimir Putin

A scriverlo, con dovizia di particolari tecnici, sono Elliot Ackerman, scrittore bestseller pluridecorato con 8 anni di servizio nei marinee nelle forte speciali, operativo in Iraq, Afghanistan e Medio oriente e Jamew Stavridis, già a capo dell’US European Comand e delle forze nato, oggi analista internazionale per NBC News ed editorialista di Time.

Teatro di guerra sono il Mar Cinese Meridionale, lo stretto di Hormuz, il Mare di Barents e il ruolo di potenza capace di mediare è affidato ad un’India tecnologicamente avanzata, mentre l’Europa, e nello specifico l’Unione Europea, non è mai nomionata.

Il lavoro di Ackerman e Stavridis dipana la sua trame e i suoi scenari in neanche trecento pagine  ma i suoi contenuti, frutto dell’esperienza maturata in tutti gli anni di servizio dagli autori, non può non portare il monito sulla pericolosa china che il mondo sta prendendo in questo anno. L’auspicio è che non ci sia un altro 1914 quando, e cito il bel saggio di Margaret MacMillan ‘Come si spense la luce sul mondo di ieri’.

Massimo Iaretti

 

I Templari invadono Alessandria

Storici e scrittori, cantanti e attori, musicisti e cantastorie fanno rivivere la storia e la leggenda dei Templari, i famosi e misteriosi monaci-guerrieri del Medioevo che ancora oggi affascina milioni di persone in tutto il mondo.
Dopo il successo della prima edizione torna il Festival internazionale dei Templari diretto dalla storica Simonetta Cerrini, storica e studiosa dei Templari, e da Gianpiero Alloisio, cantautore e drammaturgo. Incontri, lezioni di storia, spettacoli serali, teatro e canzoni racconteranno il mito dei Templari dal 26 al 29 agosto sul palco di piazza Santa Maria di Castello ad Alessandria. Interverranno gli storici Michel Balard, Philippe Josserand, Julien Théry e Simonetta Cerrini e gli artisti Massino Bagliani, Elisabetta Gagliardi ed Emanuele Dabbono. Gianfranco Cuttica di Revigliasco, Luca Pier Giorgio Isella e Giulia Quarantini tratteranno i temi dell’arte medievale ad Alessandria e della presenza dei Templari in Piemonte. Gli storici Franco Cardini e Alessandro Barbero parteciperanno attraverso alcune video-interviste. Sul palco saranno presenti i ricostruttori della “Mansio Templi Parmensis 1275” che illustreranno l’abito e le armi dei Templari. L’Ordine del Tempio nacque a Gerusalemme nel 1118-1119 per iniziativa di un gruppo di cavalieri provenienti da varie regioni europee.            fr