STORIA- Pagina 52

I greci di Torino ricordano la “catastrofe” del 1922

Nelle viuzze del Quadrilatero, in pieno centro, la piccola comunità greco-ortodossa torinese si raccoglie in chiesa.
Si prega, si ascolta, si commentano i fatti e non si trascura la storia, le vicende dei greci dominati per quattro secoli dai turchi, l’indipendenza dal giogo ottomano, le tragedie di cent’anni fa, i massacri, la fuga e la gioia di vivere in patria, nella propria terra. Ma quanti lutti, quante sofferenze patite dai greci a causa di eventi storici che molti neppure conoscono. I greci del Piemonte, alcune centinaia di persone, ci ricordano quel passato con un grande manifesto su cui compare la scritta “1922, la catastrofe dell’Asia Minore”, appeso sul portone della chiesa della Santissima Annunziata delle Orfane, oggi utilizzata dai greci-ortodossi, in via Delle Orfane angolo via San Domenico, a pochi passi dal Mao e dalla Consolata. Perché la catastrofe?
Il periodo storico è quello della guerra greco-turca che si svolse, da maggio 1919 a ottobre 1922, tra la Grecia e la nuova Repubblica di Turchia nata sulle ceneri dell’Impero ottomano. Il Trattato di Sèvres (10 agosto1920) successivo alla Prima guerra mondiale, aveva assegnato alla Grecia i territori dell’Anatolia, della Tracia e la città di Smirne e fu proprio il passaggio di questa città ai greci che scatenò la furia dei turchi. La Turchia di Ataturk vinse la guerra e ottenne i confini attuali ma per la Grecia la fine del conflitto provocò lo stravolgimento dell’assetto demografico del Paese. Nell’estate 1922 i soldati turchi entrarono a Smirne con l’obiettivo di cancellare ogni elemento greco dell’Asia Minore. È quello che fece il comandante dell’esercito turco repubblicano Nureddin Pascià il cui scopo era quello di sterminare i cristiani di Smirne.
Per attuare il piano furono commessi crimini terribili, le case furono incendiate, migliaia di greci torturati e uccisi, i distretti greco, armeno ed europeo della città rasi al suolo. I due terzi di Smirne furono distrutti. Le vittime furono oltre 30.000. Solo l’area turca rimase intatta. L’incendio di Smirne per i greci dell’Asia Minore rappresentò il culmine degli eventi chiamati dagli storici greci con il nome di “Catastrofe dell’Asia Minore” da cui riuscirono a salvarsi 250.000 cristiani che fuggirono in Grecia. Un testimone d’eccezione che descrisse il dramma degli abitanti di Smirne fu Ernest Hemingway, allora giovane corrispondente di guerra nell’Impero Ottomano. I suoi articoli raccontano in modo terrificante l’odissea della popolazione greca. Nello stesso anno si concluse anche la tragedia dei greci del Ponto, regione storica della Turchia nord-orientale sul Mar Nero, la cui popolazione scampata allo sterminio dei turchi fu compresa nell’accordo sullo scambio di popolazioni tra i due Paesi stabilito dal Trattato di Losanna del 1923 con il quale la Grecia perse tutti i territori che aveva ottenuto con il Trattato di Sèvres nel 1920. Losanna stabilì in pratica le frontiere della Turchia moderna di Ataturk. Si creò così un immenso esodo di profughi nelle due direzioni, circa un milione e mezzo di cristiani greco-ortodossi verso la Grecia e oltre 500.000 musulmani verso la Turchia. Tutti costretti da un giorno all’altro a lasciare case, paesi, città e beni per spostarsi in un territorio sconosciuto che diventerà la loro patria.
La “catastrofe dell’Asia Minore” è considerata la più grande calamità nella storia moderna della Grecia. Ancora oggi greci e turchi si detestano ricordando il passato e le ferite aperte portano a volte le due nazioni a un passo da un conflitto. Secondo diversi studiosi il numero totale dei morti varia da 300.000 a 900.000 vittime. Ogni anno, il 14 settembre, la Grecia commemora lo sterminio dei greci dell’Asia Minore da parte dei turchi. È trascorso un secolo da quella tragedia. “Non dimenticate la nostra storia, chiedono i greci del Piemonte.
 
Filippo Re
nelle foto Chiesa greco-ortodossa in via delle Orfane
interno chiesa greco-ortodossa
Incendio di Smirne
Conquista turca di Smirne

Gli appuntamenti nei musei della Fondazione

Ecco l’agenda  in programma alla GAM, a Palazzo Madama e al MAO

 

Domenica 26 febbraio ore 17.30

THERESA WONG

MAO – concerto nell’ambito della mostra Buddha10

 

 

DOMENICA 26 FEBBRAIO

 

Domenica 26 febbraio ore 11

RIFLETTIAMO INSIEME: È UN DIRITTO SALVARSI LA VITA?

Palazzo Madama – convegno

Introduzione con proiezione video documentario in prima visione “Donne rifugiate” di Deka Mohamed Osman; partecipano Abdullahi Ahmed, scrittore e consigliere Comune di Torino, Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 Ottobre, Berthin Nzonza dell’associazione Mosaico e Suor Giuliana Gallo della Fondazione Mamre. Conduce Ikram Mohamed dell’associazione ADASS.

Evento in occasione del Black History Month Torino – Seconda edizione, rassegna dedicata alla storia e alla cultura afrodiscendente.

Ingresso libero. Posti limitati con prenotazione obbligatoria: blackhistorymonthto@gmail.com

 

Domenica 26 febbraio ore 16

L’EVOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA E L’APPLICAZIONE CONCRETA SUI NUOVI CITTADINI

Palazzo Madama – convegno

Con l’avv. Fairus Jama, Ihsane Ait Yahia, operatrice legale e interprete PA Reggio Emilia e l’avv. Rania Maadani, Associazione Avvocati di discendenza straniera in Italia. Conduce Ikram Mohamed dell’associazione ADASS.

Evento in occasione del Black History Month Torino – Seconda edizione, rassegna dedicata alla storia e alla cultura afrodiscendente.

Ingresso libero. Posti limitati con prenotazione obbligatoria: blackhistorymonthto@gmail.com

 

Domenica 26 febbraio ore 16.30

LUSTRO E LUSSO DALLA SPAGNA ISLAMICA. Frontiere liquide e mondi in connessione

MAO – visita guidata alla nuova mostra

La visita guidata all’esposizione approfondisce lo stretto legame culturale ed artistico tra il mondo islamico e quello europeo, che per diversi secoli ebbe nella penisola iberica il punto di maggior contatto e interconnessione. L’invasione musulmana dei territori andalusi gettò le basi per uno scambio continuo tra l’arte islamica e quella cristiana, scambio da cui scaturì una produzione di manufatti sempre più ricca e fiorente che via via attrasse l’interesse dei collezionisti e delle corti di tutta Europa.

Tappeti, frammenti di tappeti e ceramiche a lustro esposti nell’allestimento temporaneo raccontano sapientemente il lusso della produzione risalente al XV e XVI secolo, e la visita guidata ne approfondirà il significato culturale oltreché artistico in un continuo rimando e confronto con le collezioni permanenti esposte nella Galleria dedicata ai Paesi islamici dell’Asia.

A cura di Theatrum Sabaudiae.

Costo: € 6 a partecipante; costi aggiuntivi: ingresso alla mostra temporanea (gratuito per possessori di Abbonamento Musei Torino Piemonte)

Info e prenotazioni: t. 011.5211788, prenotazioni ftm@arteintorino.com

 

Domenica 26 febbraio ore 17.30

THERESA WONG

MAO – concerto nell’ambito della mostra Buddha10

Un’interpretazione personale della musica classica contemporanea: radicale e seducente.

La musica della compositrice, violoncellista e cantante Theresa Wong unisce musica classica, arti visive e teatro in composizioni innovative, spesso collaborative e improvvisate. “Harbors”, il suo album collaborativo con Ellen Fullman, l’inventrice del Long String Instrument, ha avuto un grande successo di critica. Wong ha presentato il suo lavoro a livello internazionale in luoghi quali Fondation Cartier, Parigi; Café Oto, Londra; Fabbrica Europa, Firenze; Festival di Sidney; The Lab, San Francisco; e The Stone a New York. Nel 2022 ha composto tre performance site-specific ispirate alle opere d’arte della collezione del San Francisco Asian Art Museum per la serie Sound/scapes.

Il suo ultimo lavoro, “Practicing Sands”, è un album per violoncello e voce che sviluppa un vocabolario personale sul violoncello e documenta l’approccio personale di Wong all’utilizzo e al posizionamento dei microfoni come estensioni della composizione stessa.

Costo: 15 € | ridotto studenti 10 €. I biglietti sono disponibili presso la biglietteria del museo.

Info e prenotazioni: eventiMAO@fondazionetorinomusei.it

 

Prima del concerto, nello spazio dei giardini giapponesi, verrà proposta la performance “My Freedom”, curata da Vincenzo Di Federico e Lanxin Zheng, primo esito del Laboratorio di studio performativo proposto dal MAO in collaborazione con YizhongArt. Protagonisti dell’azione performativa sono i giovani studenti d’arte cinesi Cao Xiaoyu, Li Xinke, Liu Ruogu, Luo Siliang, Sun Yuancong, Zheng Yiwen. Si ringrazia l’Associazione degli Studenti e Studiosi Cinesi (ASSCAT) dell’Accademia di Belle Arti di Torino per aver promosso l’iniziativa.

La performance è inclusa nel costo del biglietto del concerto.

 

 

 

 

 

Theatrum Sabaudiae propone visite guidate in museo

alle collezioni e alle mostre di Palazzo Madama, GAM e MAO.

Per informazioni e prenotazioni: 011.52.11.788 – prenotazioniftm@arteintorino.com

 

https://www.arteintorino.com/visite-guidate/gam.html

https://www.arteintorino.com/visite-guidate/mao.html

https://www.arteintorino.com/visite-guidate/palazzo-madama.html

 

Bestiario a Sant’Antonio di Ranverso

Domenica 26 febbraio, ore 14.30

Sfilata di maschere e visita guidata alla Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso alla scoperta della simbologia degli animali

  

 Bestiario è l’atelier di maschere e trasformazione: un percorso iniziato il 22 gennaio, nel giorno di Sant’Antonio Abate dedicato per tradizione alla benedizione degli animali, che si conclude il 26 febbraio con una sfilata di maschere lungo la via Francigena e una visita guidata alla scoperta della simbologia degli animali che sono parte integrante, oltre che dei cicli decorativi, anche dei rituali e dell’immaginario sacro che caratterizzano l’identità medievale della Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso.

Il regno animale è specchio dei nostri aspetti più profondamente umani: le virtù, le vulnerabilità, le pulsioni, la cattività e la libertà. Bestiario si ispira agli animali e al loro rapporto naturale e simbolico con l’umanità, in un’ottica di riappropriazione di corpi, luoghi e relazioni, necessaria nell’era della frammentazione digitale e resa ancora più urgente dopo il vissuto di pandemia.

 

Gli Atelier, organizzati dall’associazione di promozione sociale “è”, sono condotti da Serena Fumero, storica dell’arte e referente per la didattica della Fondazione Ordine Mauriziano, e da Elena Maria Olivero, arteterapeuta e performer.

 

 

“Bestiario” è sostenuto da Fondazione CRT in collaborazione con Fondazione Ordine Mauriziano, La Piattaforma. La Città Nuova. Natura, paesaggio e riti nella danza contemporanea di comunità, progetto a cura delle associazioni torinesi Didee e Filieradarte, Artsite Fest e ArteMista snc.

 

 

INFO

Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso

Località Sant’Antonio di Ranverso, Buttigliera Alta (TO)

Costo visita guidata: 5 euro, oltre il prezzo del biglietto

Biglietto di ingresso: intero 5 euro, ridotto 4 euro

Hanno diritto alla riduzione: minori di 18 anni, over 65, gruppi min. 15 persone

Fino a 6 anni e possessori di Abbonamento Musei: biglietto ingresso gratuito

Visita guidata su prenotazione

Info e prenotazioni (dal mercoledì alla domenica):

011 9367450 ranverso@ordinemauriziano.it

www.ordinemauriziano.it

Info su “Bestiario”: info@eassociazione.orgwww.eassociazione.org/bestiario

Il violoncello di Smailović e le foto di Siccardi

La foto scelta per i manifesti della mostra fotografica di Paolo Siccardi “La lunga notte di Sarajevo” ( che rimarrà aperta al pubblico al Mastio della Cittadella di Torino, tra corso Galileo Ferraris e via Cernaia, fino al 19 marzo ) è dedicata a Vedran Smailović ,unico sopravvissuto del quartetto d’archi di Sarajevo, immortalato dal fotoreporter torinese mentre suona il violoncello nella stazione ferroviaria di Sarajevo.

Il musicista durante l’assedio strinse i denti come tanti suoi concittadini sotto le bombe e il tiro degli snjper, patendo quotidiane sofferenze. Il 27 maggio del 1992 gli assedianti uccisero a colpi di mortaio ventidue persone, ferendone altre centocinquanta in via Vaso Miskin, a poca distanza dal Markale, il mercato austro-ungarico nel cuore della città, in quella che venne ricordata come la strage del pane. Quel giorno un gruppo di persone, approfittando di un breve periodo di tregua, erano in fila davanti a un forno quando vennero colpite dalle granate dell’artiglieria serbo bosniaca. Smailović reagì suonando per ventidue giorni tra quelle macerie il suo strumento indossando lo smoking con solennità. Nel luogo della strage per ventidue volte, una per ognuna delle vittime, risuonarono le note dolenti dell’Adagio di Albinoni. L’artista sarajevese scelse di testimoniare così la rabbia e il dolore dell’intera città. E continuò a farlo anche in altre occasioni “perché la gente mi diceva che se avessi smesso di suonare Sarajevo sarebbe caduta”. Suonò gratuitamente alle esequie di persone che nemmeno conosceva, incurante dei rischi perché i funerali in città erano presi di mira dai cecchini serbi. Quel brano, scelto istintivamente, pareva scritto apposta per quelle occasioni. L’Adagio in sol minore (Mi 26), noto come Adagio di Albinoni, è infatti una composizione scritta nel 1945 e pubblicata nel 1958 da Remo Giazotto, musicologo e compositore italiano. Grande esperto di Albinoni si deve a lui la ricostruzione dell’Adagio che si basava sui frammenti di spartiti del grande violinista veneziano, ritrovati tra le macerie della biblioteca di Stato di Dresda, la Sächsische Landesbibliothek, l’unica dov’erano custodite partiture autografe di Albinoni, distrutta nel bombardamento che rase al suolo la città il 13 e 14 febbraio del 1945 ad opera degli aerei inglesi della RAF e dei B17 americani, le famose fortezze volanti. I frammenti facevano parte di un movimento lento di sonata in sol minore per archi e organo, particolarmente evocativo. Un brano che provocava forti emozioni seguendo, da Dresda a Sarajevo, il robusto filo di un tragico parallelismo di memorie ferite dall’odio nazionalista e dalle guerre. Dalle macerie della Vijećnica, la biblioteca nazionale di Sarajevo, ai binari dimenticati e ai vagoni semidistrutti della stazione ferroviaria a Marijin Dvor  dove lo fotografò Paolo Siccardi, il solitario interprete di Albinoni  suonò in vari punti della città assediata, tenendo lo strumento tra le gambe dopo aver poggiato a terra  il puntale, facendo scorrere l’archetto sulle corde del violoncello. Spesso l’emozione di Vedran Smailović, interprete del dolore di tutta Sarajevo, si scioglieva in lacrime. Trent’anni dopo l’immagine del suo volto e dei suoi gesti rimanda alla memoria di quanto siano assurde tutte le guerre.

Marco Travaglini

Parco e Castello di Masino riaprono al pubblico

Dopo la chiusura invernale, da sabato 25 febbraio 2023 riapre  al pubblico il Castello e Parco di Masino, Bene del FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano ETS a Caravino (TO), millenaria e sontuosa dimora di una delle più illustri casate piemontesi, i Valperga, situata su un’altura antistante la suggestiva barriera morenica della Serra di Ivrea, in posizione dominante la vasta piana del Canavese.

Visitare il Castello di Masino non significa soltanto scoprire il suo glorioso passato grazie al percorso tra i saloni affrescati e arredati con cura (come il Salone dei Savoiada poco restaurato), le camere per gli ambasciatori, gli appartamenti privati, i salotti, la preziosa biblioteca con più di 25mila volumi antichi, fino alle terrazze panoramiche e al Belvedere. Venire al Castello di Masino offre anche l’opportunità di trascorrere una bella giornata all’aria aperta, passeggiando nel monumentale parco romantico con uno dei più grandi labirinti di siepi d’Italia, costituito da oltre duemila piante di carpini, un maestoso viale alberato, ampie radure e angoli scenografici che in primavera si riempiono di spettacolari fioriture. Un esempio: indicativamente da metà aprile ai primi di maggio, circa 6000 esemplari di Spirea Vanhouttei, piantati dal FAI nel 2007 su progetto dell’architetto paesaggista Paolo Pejrone, fioriscono creando una “nuvola bianca” che fa da contorno ai grandi prati del giardino all’inglese e fiancheggia il viale che dal parterre superiore scende al grande prato di Eufrasia (nella foto sopra, uno scorcio delle spiree fiorite con il tempietto neogotico sullo sfondo, foto di Dario Fusaro). Attraverso la scelta progettuale di utilizzare tale pianta, un arbusto rustico e molto resistente sia al freddo sia alla siccità, il FAI si fa esempio e promotore “in prima persona” di una pratica di giardinaggio sostenibile: l’oculata selezione della pianta giusta nel posto giusto, infatti, risulta essere ecosostenibile perché si abbattono o eliminano i trattamenti fitosanitari con prodotti di sintesi e le irrigazioni, salvaguardando la salute umana e ambientale.

Nell’ottica di divulgare le buone pratiche da adottare in giardino per contribuire a fronteggiare i gravi effetti della crisi ecologica e climatica, da venerdì 28 aprile a lunedì 1° maggio, proprio nel periodo della candida fioritura delle spiree, il FAI propone la Tre giorni per il giardino, tra le mostre mercato di florovivaismo più rinomate e attese in Italia e la manifestazione più importante della primavera a Masino. Oltre a incontrare i più qualificati vivaisti italiani e stranieri, che esporranno le migliori collezioni, i visitatori e gli appassionati di verde potranno partecipare a interessanti incontri a cura di professionisti ed esperti, dal meteorologo Luca Mercalli al giardiniere di Versailles Giovanni Delù, sul tema della biodiversità e della sua tutela, che condivideranno le proprie ricerche e le proprie preziose esperienze sul campo (in allegato il comunicato stampa con il programma completo della “Tre giorni per il giardino” e dettagli su orari e biglietti e alcune foto).

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Il Castello e Parco di Masino riaprire da sabato 25 febbraio 2023 ed è aperto al pubblico dal mercoledì alla domenica dalle ore 10 alle 18

 

Ingresso castello e parco: intero € 15; ridotto (6-18 anni) € 8; studenti fino ai 25 anni € 8; bambini fino ai 5 anni ingresso gratuito; famiglia (2 adulti e 2 o più bambini) € 38; iscritti FAI e altre convenzioni ingresso gratuito; Carta Musei € 10; persone con disabilità e accompagnatore ingresso gratuito; residenti Comune di Caravino ingresso gratuito

 

Ingresso solo parco: intero € 10; ridotto (6-18 anni) € 3; famiglia € 26; studenti fino ai 25 anni € 3; iscritti FAI e residente Comune di Caravino ingresso gratuito; Carta Musei 7 €

 

www.castellodimasino.itwww.fondoambiente.it

Insegnare alle “Vallette”… quarant’anni fa. I “migliori anni” della mia scuola

COSA SUCCEDE(VA) IN CITTÀ 

“La trappola dei ricordi”

Gianni Milani

Anno Scolastico 1975 – ‘76. Quasi non sapevo neppure dove fossero “Le Vallette”. Certo, ne avevo sentito parlare. Male, quasi sempre, e soprattutto attraverso i fatti di cronaca (per lo più nera) riportati dai media. A Torino si sapeva bene che “Vallette” era in quegli anni sinonimo di quartiere fortemente “a rischio”, uno di quelli che proprio non si faceva mancare nulla in quanto a problemi di più o meno spicciola criminalità, di disagio e soprattutto di scarse prospettive d’inserimento sociale – che, alla prova dei fatti e per svariate ragioni, erano molto inferiori rispetto ad altri luoghi della città – per i suoi ragazzi e per i giovani che lì vivevano. E che spesso riuniti “in bande”, coltivavano, fra i divertissements più gettonati e libidinosi, quello per loro assai spassoso di spingersi “fino a Torino” (per quei ragazzi, Vallette era allora isola urbana rigorosamente a sé, ben altra cosa da Torino) per fare abbotte e quant’altro con i fighetti e i cremini che bazzicavano il centro o altri quartieri “messi meglio” della città. Fenomeno non isolato del resto e che in fondo era – e in gran parte é ancora oggi in tanti, troppi, luoghi della città – caratteristica comune di tutte quelle aree periferiche (si pensi a Falchera o a Mirafiori Sud o a Barriera di Milano) che, a cavallo degli Anni Cinquanta, avevano assistito al nascere come funghi di case (“torri”) popolari, tutte uguali e non prive di gradevoli spazi verdi conficcati, come per Vallette, fra vie dai graziosi nomi floreali che quasi quasi, a pronunciarli, sembrava di essere in uno degli oltre trenta piacevoli London boroughs.

Case che dovevano ospitare l’imponente marea di immigrati dal Sud (ma non solo; molti a Vallette anche i profughi istriani e giuliano-dalmati), attratti in questa estrema periferia nord-ovest della città, dalla speranza di un lavoro che, sotto la Mole, era soprattutto garantito in quegli anni da mamma Fiàt…Quartiere operaio, quartiere dormitorio, via via Le Vallette hanno poi negli anni conquistato terreno (con buona pace dell’ingegner Gino Levi – Montalcini che nel 1957 ne firmò il piano urbanistico, curando anche la progettazione dei vari edifici) fino a spingersi oggi alla parte nord del verde Parco Carrara, noto più comunemente come Parco della Pellerina e fino a fregiarsi, in un’area di stretto confine, di un’autentica magia urbanistico-sportiva come il complesso dello Juventus Stadium e della Cittadella bianconera, così come di un’imponente centrale per il teleriscaldamento entrata in funzione nell’inverno 2012 e che sembrerebbe fare di Torino la città oggi più teleriscaldata d’Europa. A vent’anni dalla sua progettazione, le Vallette in cui mi trovai a lavorare e che mi  trovai a vivere dagli Anni Settanta  alla fine degli Ottanta, incutevano, per i “forestieri”, un certo senso di reverenziale rispetto. E anche appena appena – a voler giocare di ottimismo – un po’ di panico. Del resto erano quelli, anche per Torino, gli anni bui del terrorismo, delle Brigate Rosse e di Prima Linea: 19 morti e 130 feriti si contarono in città fra il 1977 e il 1982. Erano quelli anche gli anni di un’accesa contestazione studentesca, figlia o figliastra del ’68. Quella che molti di noi giovani (allora) insegnanti avevano fatto propria o comunque vissuta – direttamente o indirettamente- sulla propria pelle e che ora si trovavano a confrontare con le nuove proteste di ragazzi che non avevano molti anni meno di loro, che okkupavano scuole e organizzavano cortei e manifestazioni anche di forte impatto sulla vita della città, ma poco recepite, se non per farne spesso uso strumentale, dalle istituzioni e da quelle forze politiche cui si chiedeva maggiore attenzione e maggiori risorse per la scuola italiana nel suo complesso. Eventi però che, per valenza politica, sembravano interessare solo marginalmente le Vallette, dove il “buco nero” era fatto principalmente di ribellione e rabbia sociale. Ebbene, in quelle Vallette, a cavallo degli Anni ’70-’80, dove anche la Scuola, così come le Comunità Parrocchiali non meno che la presenza di Enti socio-assistenziali, assumevano un ruolo determinante nell’accompagnamento dei ragazzi e delle loro famiglie, io arrivavo tutte le mattine con un’“affannata” Fiat 127 bordeaux, che avevo battezzato, non so perché ma mi sembrava un nome simpatico, Carolina . Partivo (ero quasi sempre in ritardo) da  via Spano, Mirafiori Sud (all’altro capo della città); attraverso corso Sebastopoli, arrivavo a tutta birra in via De Sanctis – via Pietro Cossa per poi imboccare via Sansovino e corso Toscana e ritrovarmi in quel dedalo di strade impreziosito – come detto – dalla soavità di graziosi nomi floreali: via dei Gladioli, via dei Glicini, viale dei Mughetti, via via fino a via delle Magnolie. Qui al civico 9, mi trovavo ogni mattina di fronte a quella media statale, titolata allora al grande “Carlo Levi” (oggi a David Maria Turoldo), che, nel corso degli anni, sarebbe un po’ diventata la mia “seconda casa”. Avevo fatto pochi chilometri e mi sembrava, ogni giorno, d’essere atterrato, con la Carolina fumante, su un altro pianeta. Ero al mio primo incarico diurno. Dall’atrio, volavo ogni giorno due rampe di scale, strappavo al volo dal cassetto personale della sala insegnanti il registro e m’infilavo, con l’irruenza di un vigoroso centometrista ma insieme con la silenziosa leggerezza di una libellula – per non offrire al pubblico ludibrio il mio vituperabile e sempre più proverbiale ritardo – nell’aula di mia competenza. Chiudevo alle spalle la porta, mi dirigevo alla cattedra e mi buttavo, pancia a terra, nella mischia. Calmavo con non poca fatica gli animi e iniziavo ‘a mattinata

Gianni Milani

Algeria 60 anni dopo

Giovedì  23 febbraio 2023 – Ore 16:30 

 

ALGERIA 60 anni dopo 

 

Sala Conferenze, Polo del ‘900

corso Valdocco 4/A – Torino

Saluti di
Cecilia Pennacini (vice presidente di Ancr)
Vincenzo Vita (presidente Aamod)

 

Proiezione di
Les mains libres (Le mani libere) di Ennio Lorenzini

(Algeria 1964, 56’), un film ritrovato e restaurato.

Presentazione del volume
Con le mani libere. Il cinema italiano e la liberazione dell’Algeria

(Effigi Editore)

Interverranno:

Paola Scarnati e Luca Peretti curatori del volume

Diego Guzzi – storico, Unione Culturale Franco Antonicelli

Karim Metref – educatore, scrittore e giornalista indipendente

 

Testimonianza di Emilio Jona

con racconti e canti raccolti durante il viaggio in Algeria del 1951

 

Ingresso libero a tutti

L’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, cineteca che conserva rari e importanti film della Resistenza italiana e della Storia contemporanea, è lieta di ospitare un’iniziativa che coinvolge direttamente l’AAMOD. Sul tema “Algeria 60 anni dopo” si svolgerà infatti a Torino, presso la Sala Conferenze del Polo del ‘900, un evento che includerà il nuovo volume degli ANNALI AAMOD Con le mani libere. Il cinema italiano e la liberazione dell’Algeria e la proiezione del film documentario Les mains libres(Le mani libere) di Ennio Lorenzini, recentemente riscoperto proprio negli archivi AAMOD e restaurato dalla Cineteca di Bologna. Al dibattito sull’argomento, in programma giovedì 23 febbraio a partire dalle ore 16:30, parteciperanno Cecilia Pennacini (vice presidente di Ancr), Vincenzo Vita (presidente Aamod), i curatori del libro Paola Scarnati e Luca Peretti, lo storico Diego Guzzi (Unione Culturale Franco Antonicelli) e Karim Metref (educatore, scrittore e giornalista indipendente). Emilio Jona darà testimonianza del sul viaggio in Algeria compiuto nel 1961 con i Cantacronache (Sergio Liberovici, Michele Straniero) e con Paolo Gobetti, accompagnata da una piccola selezione dei canti raccolti durante il viaggio.

 

Il volume, pubblicato da Effigi editore, indaga sul rapporto tra il cinema italiano e la liberazione dell’Algeria, di cui ricorre il sessantesimo anniversario dell’indipendenza e si concentra in particolare sul film di  Lorenzini. Nella prima parte del libro si racconta infatti la storia del cinema algerino delle origini e del suo rapporto con l’Italia, con un focus particolare sullo specifico contesto politico e culturale di intreccio tra i due Paesi: la lotta per l’indipendenza algerina, la solidarietà internazionalista degli anni Sessanta e le relazioni italo-algerine dell’epoca. In una seconda parte è invece analizzata da diverse prospettive la pellicola “Les mains libres” (titolo originale “Tronc de figuier”) realizzata nel 1965 e prodotta dalla Casbah Fillm, analogamente coinvolta in quel periodo ne “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo. Infine, un ritratto dello stesso Lorenzini attraverso la vita e le opere per far conoscere un regista oggi purtroppo dimenticato.

 

“In questo prezioso volume – dichiara Vincenzo Vita nella prefazione  – si testimonia la potenza creativa e non meramente conservatrice degli archivi che, come affermava Zavattini, ci appaiono sempre più come esseri viventi, specialmente nella capacità, oggi attuale come non mai, del loro riuso creativo. Allo stesso tempo, sono meritevoli i numerosi spunti storici che offre per capire non solo il processo di liberazione di un paese della costa accanto, ma per documentare il significato profondo del sommovimento che toccò l’Africa in quel periodo, continente che via via rompeva le catene della cupa e violenta oppressione coloniale evocando l’universalità delle lotte di resistenza e liberazione”.

 

Gli Annali fanno parte del progetto editoriale ultradecennale che l’AAMOD ha realizzato nel tempo attraverso varie collaborazioni con enti, istituzioni e ricercatori. La pubblicazione, a carattere scientifico, raccoglie i contributi di riflessione scaturiti da seminari, convegni, iniziative di formazione e si pone come obiettivo quello di divulgare le ricerche specialistiche condotte dalla Fondazione sui temi di principale interesse, quali il cinema documentario, il rapporto tra media e storia, l’uso degli audiovisivi nella comunicazione politica, etc. Un indice dei volumi realizzati finora dall’AAMOD è presente sul sito ufficiale all’indirizzo aamod.it/category/pubblicazioni/

 

Per maggiori informazioni sull’incontro: info@ancr.to.it

L’amore e il dolore nei versi di Izet Sarajlić

Durante l’assedio più lungo del Novecento, nella Sarajevo dei primi anni ‘90, i cittadini andavano alle serate di poesia nel buio di una città senza corrente elettrica.

In questo modo “sperimentavano che in una guerra solo i versi sono capaci di correggere a forza di sillabe miracolose il tempo sincopato dei singhiozzi, il ragtime delle granate, l’occhio di un mirino addosso”. Così scriveva Erri De Luca, nella prefazione di “Chi ha fatto il turno di notte”, straordinaria silloge di Izet Sarajlić. Quando Einaudi la pubblicò dieci anni fa, nel 2012, il grande filosofo e poeta bosniaco era già morto da anni. Celebrarlo con una raccolta che ripercorreva, in ordine cronologico, quasi cinquant’anni (dal 1950 al 1998) della sua produzione poetica era un buon modo per far conoscere la forza e la profondità dei suoi versi. “Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo? Noi, i poeti”, scriveva Sarajlić. La biblioteca bombardata e incendiata con i suoi libri, memorie e percorsi degli altri. L’artiglieria degli assedianti centrava monumenti, cimiteri, moschee per cancellare dal suolo l’ombra e la radice della parte avversa. Le parole erano emigrate dai libri e giravano alla cieca nell’aria. In quel tempo di granate che esplodevano a casaccio, Sarajlić scriveva: “In una notte come questa, malgrado tutto, pensi a quante notti d’amore ti siano rimaste”. Era la dimostrazione della forza, della potenza della poesia e del cuore di chi non aveva mai saputo odiare né maledire. Il poeta  non abbandonò la sua gente né rinnegò la sua città; nemmeno quando, a più riprese nel tempo, Sarajevo divenne sinonimo di morte e devastazione, perdita degli affetti più cari: “Qui, se chiamo persino i pioppi, miei concittadini,/ anch’essi sapranno ciò che mi fa soffrire./ Perché questa è la città dove forse non sono stato/ troppo felice,/ ma dove tuttavia anche la pioggia quando cade non è/ solo pioggia”. Sarajevo è dunque “la Città”, il luogo che porta con sé il senso dell’intera esistenza del poeta, del suo dolore come della sua gioia, di un legame viscerale che, per quanto sofferto, è impossibile recidere. I suoi versi sono stati la passione civile che si fa poesia. A testimoniarlo la poesia semplicemente intitolata “Sarajevo”: “E adesso dormano pure tutti i nostri cari e immortali. Sotto il ponte presso il II liceo femminile scorre gonfia la Miljacka. Domani è domenica. Prendete il primo tram per Ilidža. Naturalmente, posto che non cada la pioggia. La noiosa, lunga pioggia di Sarajevo. Chissà come si sentiva senza di lei Čabrinović in carcere! Noi la malediciamo, le bestemmiamo contro, e tuttavia mentre cade fissiamo gli appuntamenti d’amore come fossimo nel cuore di maggio. Noi la malediciamo, le bestemmiamo contro, sapendo che essa non potrà mai far diventare la Miljacka né il Guadalquivir né la Senna. E con ciò? Forse per questo ti amerò di meno e ti farò soffrire meno nella sventura? Forse per questo sarà minore la mia fame di te e minore il mio amaro diritto di non dormire quando il mondo è minacciato dalla peste o dalla guerra e quando le uniche parole rimaste sono “non dimenticare” e “addio”? Del resto, può darsi che questa non sia neppure la città in cui morirò, ma in ogni caso essa sarebbe stata degna di un me incomparabilmente più sereno, questa città dove, a dire il vero, non ho sempre avuto molta fortuna ma dove ogni cosa è mia e dove posso sempre trovare almeno uno di voi che amo e dirvi che sono disperatamente solo. A Mosca potrei fare lo stesso, ma Esenjin è morto e Evtušenko è certamente in giro da qualche parte della Georgia. A Parigi come potrei chiamare il pronto soccorso se non ha risposto neppure agli appelli di Villon? Qui, se chiamo, persino i pioppi, che sono miei concittadini, sapranno ciò che mi fa soffrire. Perché questa è la città dove, a dire il vero, non ho avuto molta fortuna ma dove tuttavia anche la pioggia, quando cade, non è solo pioggia”.

Marco Travaglini