Polo del ‘900, 18 dicembre 2023, ore 11.30
Le autorità militari fanno visita alla mostra “DisobbediResistere” ospitata al Polo del ‘900 nell’ambito dell’ottantesimo della Resistenza. A intervenire in dialogo con i promotori della mostra il presidente Paolo Borgna e la storicaChiara Colombini dell’Istoreto: il generale Stefano Mannino, comandante della Scuola d’Applicazione dell’esercito di Torino; il Colonnello Giovanni Spirito, Comandante della Scuola Allievi Carabinieri di Torino; Alessandro Paola, direttore regionale dei vigili del fuoco. Presenti anche un rappresentante del generale Antonio Di Stasio, comandante regionale dei carabinieri; 20 militari della scuola di applicazione e 10 militari della Brigata Alpina Taurense. Si succedono intanto le visite di familiari e studenti fino alla chiusura, prorogata al 2 febbraio 2024.
Il percorso della mostra racconta l’esperienza degli Imi – gli Internati militari italiani – i soldati catturati dall’esercito tedesco e deportati nei campi di prigionia in Germania dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Sui circa 800.000 militari imprigionati, 600.000 si rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale italiana e di continuare la guerra al fianco del suo alleato nazista: la loro disobbedienza fu un’altra forma di Resistenza.
Oggetti originali appartenuti ai militari internati nei campi si alternano alla riproduzione di documenti (lettere, disegni, pagine di diario, volantini) che testimoniano le condizioni della prigionia, le difficoltà del quotidiano, la durezza del lavoro coatto, e restituiscono una capacità di resistenza che passa attraverso le risorse interiori.
Un progetto di Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea Giorgio Agosti, Istituto di studi storici Gaetano Salvemini e Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza.
Apertura | Martedì – Domenica, ore 10-18
Accesso libero



L’evento commemorativo di Sanlorenzo, morto a Torino il 5 dicembre 2020 all’età di 90 anni, si è svolto nella sala Viglione del Consiglio regionale alla presenza dei famigliari, dei consiglieri regionali e di molte personalità che hanno conosciuto e collaborato con uno dei protagonisti della vita politica piemontese. Dino Sanlorenzo, nato in Borgo San Paolo a Torino il 22 Maggio del 1930, dirigente autorevole del Partito Comunista Italiano, fu tra i “costituenti” della Regione nel 1970, Presidente del Consiglio regionale dal ‘75 all’ 80 e successivamente vice presidente della Giunta regionale fino al 1983 quando lasciò l’incarico in piazza Castello per la Camera dei Deputati dove, dal 1983 al 1987, fece parte della commissione affari esteri di Montecitorio. Dotato di una intelligenza curiosa e vivace, di un carattere vulcanico e anticonformista che lo portava ad esprimere in modo diretto le proprie convinzioni, Dino Sanlorenzo fu tra i principali protagonisti di una lunga stagione politica nella seconda metà del secolo scorso. Dirigente politico, segretario della federazione del Pci a Novara per un decennio, esponente di spicco dell’area riformista fu uno dei più intransigenti difensori delle istituzioni democratiche negli anni tragici del terrorismo. Sanlorenzo ha sempre vissuto con passione e intensità gli impegni istituzionali e quelli di direzione politica. Una delle esperienze più significative dove emerse con un profilo da protagonista furono i tredici anni in Consiglio regionale e gli incarichi di vertice a Palazzo Lascaris e in piazza Castello. In quel periodo i piemontesi e non solo loro ebbero l’opportunità di conoscere quest’uomo dall’infaticabile capacità di lavoro al servizio delle istituzioni e dalla prorompente personalità. Dino Sanlorenzo, con la sua inconfondibile schiettezza si dimostrò capace di esprimere dei pensieri lunghi, accompagnandoli con una visione per nulla provinciale dello sviluppo del Piemonte, immaginandone il futuro in un contesto più ampio. Le regioni nascevano nel 1970 dopo una lunga attesa e, come disse lui stesso in più occasioni “senza soldi e con poteri scritti sulla carta e impossibili da esercitare in concreto”. Dunque, per coinvolgere i cittadini in quell’impresa che dava corpo ad uno dei dettati costituzionali, occorreva mettere al “centro della politica e dello Statuto la partecipazione popolare”. Fu determinante il suo impegno nel creare ,nel corso della II legislatura, gli organismi consultivi come il Comitato Resistenza e Costituzione, la Consulta europea e quella femminile. Nel periodo più buio della storia recente di Torino, nei sanguinosi anni di piombo, di fronte agli attentati terroristici delle Br, di Prima Linea e della galassia di sigle della violenza che si richiamava al comunismo Dino Sanlorenzo ruppe ogni indugio e denunciò con energica veemenza quel fenomeno, contestando le tesi di chi sosteneva si trattasse di “compagni che sbagliano” evidenziando come si trattasse invece di delinquenti e assassini la cui mira era puntata contro lo Stato, gente che sparava per ammazzare, ferire, gambizzare quelli che erano i “simboli” di quello Stato democratico che intendevano abbattere. Sanlorenzo, da dirigente del Pci non si nascose che c’erano anche radici di sinistra all’origine dei terroristi. E lo palesò con grande determinazione. Disse in una intervista che “per troppo tempo si era pensato ad azioni di provocatori. Si arrivava dagli attentati fascisti, da piazza Fontana. In effetti, ci fu un terrorismo nero prima di quello rosso. C’erano tra i terroristi giovani che arrivano dal variegato mondo della politica e della società. Curcio aveva avuto un’educazione cattolica, come la Cagol. Il figlio di Donat Cattin fu tra i protagonisti di Prima linea. Molti ragazzi provenivano da famiglie-bene. E c’era anche chi era stato nel Pci come Franceschini, Bonavita, Gallinari. Nelle Br c’era di tutto: il fenomeno è stato complesso, ma l’adesione è sempre stata di singoli”. Per Sanlorenzo “la Regione” doveva essere “d’orientamento per la cittadinanza contro la violenza politica”. E quando “i terroristi cominciarono a minacciare di colpire le scuole” venne deciso “di intervenire come istituzioni perché non potevamo lasciare sole le forze dell’ordine e la magistratura ad arginare quel fenomeno”. Il Pci, anche sotto la sua spinta, scelse di impegnarsi a fondo con i suoi uomini nelle istituzioni dove, dopo i successi a metà degli anni ’70, aveva un peso rilevante. E non furono soli. Fu ancora lui a rammentare come l’intesa politica fosse generale: “Un ruolo rilevante lo ebbe il capogruppo Dc, Bianchi, medaglia d’argento della resistenza. I socialisti e il Psdi erano con noi. Con gli altri partiti democratici, Dc, Pli, Pri ci fu unità di intenti. Le nostre furono scelte difficili, ma nette. La politica della fermezza fu giusta. Siamo stati un indiscutibile baluardo, uniti nella difesa della democrazia e della libertà, in prima fila nelle istituzioni per proteggere lo Stato e il Paese”. Fu sua l’idea di dotare il Consiglio regionale di un organismo come il Comitato Resistenza e Costituzione che vide la luce, con un’apposita legge, nel 1976. L’obiettivo “di riaffermare i valori e gli ideali democratici della lotta di Liberazione che erano alla base della Costituzione repubblicana” era quanto mai attuale. E il primo obiettivo che venne posto fu quello di rafforzare il senso dello Stato nella convinzione che “il terrorismo andasse sconfitto anche sul piano politico, morale, culturale e ideale; che fosse cioè necessaria la mobilitazione delle coscienze. E la mobilitazione democratica degli uomini e delle istituzioni per far fronte a un acerrimo nemico della democrazia”. Un nemico spietato e violento che feriva e uccideva uomini innocenti responsabili soltanto di lavorare in una azienda, giornalisti, poliziotti che facevano il loro dovere, magistrati coraggiosi. Così il terrorismo che aveva fatto tante vittime venne isolato e battuto. Dino Sanlorenzo raccontò in diversi libri le vicende nelle quali fu protagonista. Dal famoso Gli anni spietati su quel tremendo decennio tra il 1972 e il 1982, a Noi cominciammo così dedicato alle radici dell’impegno di centoventi esponenti della vita politica di Torino, a tanti altri tra i quali i due monumentali volumi sulle Immagini da un secolo, album fotografici “per la memoria storica del movimento democratico, popolare, antifascista e progressista di Torino”. Una doppia raccolta di centinaia di immagini uscite dagli archivi degli Istituti Storici come quello della Resistenza, la Fondazione Vera Nocentini, il Gramsci, il Centro Gobetti e, cosa ancora più importante, emerse dai cassetti di tanti torinesi che le avevano conservate come memoria della propria famiglia e che hanno contribuito a illustrare una memoria collettiva. Sempre attivo nonostante gli acciacchi dell’età negli ultimi anni ricordava con lucidità e un misto di delusione e amarezza il tempo in cui i partiti erano composti da tantissimi semplici cittadini che sentivano di essere parte di un progetto generale e riempivano la loro esistenza del significato civile e morale, di una identità laica, di una missione. Non era nostalgia ma desiderio che si recuperasse il primato di una politica concreta e al tempo stesso mossa da grandi idealità, capace di incontrare e interpretare “il dolore del mondo” e la speranza del riscatto degli ultimi. Ostile, durissimo nei confronti di carrierismo e degenerazioni, rilasciò in una intervista dichiarazioni molto critiche, paragonando la situazione venutasi a creare con quella degli anni del suo impegno. “Penso a quegli anni, quando ci riunivamo per scrivere lo Statuto della Regione che doveva nascere. Un lavoro all’inizio gratuito perché non c’erano ancora i soldi dello Stato. Nessuno sapeva come si doveva fare, ma tutti studiavamo, era tutto da inventare”. E aggiungeva, con fierezza: “Con noi c’erano persone della levatura di Mario Giovana, Valerio Zanone, Nerio Nesi, Adriano Bianchi, medaglia della Resistenza, Adalberto Minucci. In quarant’anni si sono persi i principi che avevamo allora. La politica era davvero un servizio. Io arrivavo da Novara e si stava in Consiglio regionale ogni giorno dalle nove di mattina alla sera e poi il sabato e la domenica si giravano i territori a spiegare quello che stavamo facendo. Prima i principi erano merito, onestà, coerenza. Adesso sono apparenza, successo, denaro. Un cambiamento radicale, difficile da correggere. Ora fare politica significa occupare un posto dove si guadagna bene, non dovrebbe essere così. Ci sono persone che fanno politica e non sono più in grado di parlare ad un comizio o di scrivere un articolo in cui esprimono le loro idee”. Il peso degli anni non gli fece perdere un grammo della passione e dell’impegno, preoccupandosi che l’opinione pubblica maturasse un rifiuto totale della politica (“sarebbe drammatico”, diceva). Nutriva la speranza che la politica, soprattutto nel suo campo d’appartenenza, potesse e dovesse mostrarsi diversa, migliore. A Dino Sanlorenzo, al suo rigore e all’impegno i torinesi e l’intera comunità regionale devono molto.
Era da molto tempo che si sperava che qualcuno scrivesse un libro su Cesare Mondon, meglio conosciuto come “il miracolato di Rubiana”. Finalmente, grazie al lavoro della giornalista Raffaella Chiaravalloti, questo desiderio è diventato realtà.
Queste meraviglie di tradizione e cultura sono state inserite nella
E’ necessario tutelare e promuovere queste eccellenze che fanno parte della nostra cultura e della nostra societa’ e a breve sara’istituito un elenco dei locali storici, “Veri tesori da scoprire e valorizzare” dice l’Assessore alla Culture della Regione PiemoneVittoria Poggio, che dovranno avere alcuni requisiti come almeno 70 anni di attivita’ e vincoli di tutela.
La sua formazione musicale viaggiò su di un doppio binario: da una parte lo studio al Conservatorio Verdi (tra gli 11 e i 14 anni), dall’altro l’apprendistato nelle orchestrine jazz che si esibivano nei locali notturni delle città, suonando il contrabbasso. Iniziò la carriera come cantante grazie all’amico e avvocato Leo Chiosso, a cui si deve anche la scelta di Fred Buscaglione di interpretare un personaggio unico e singolare. Così, in un’epoca in cui la musica leggera italiana era ancora legata a motivi dei decenni precedenti o a rime un po’ melense, un poco banali, proponendo argomenti triti e ritriti, Buscaglione irruppe sulla scena con canzoni completamente diverse, come “Che bambola!”, “Teresa non sparare”, “Eri piccola così” (“T’ho veduta, t’ho seguita, t’ho fermata, t’ho baciata. Eri piccola, piccola, piccola… così!”). Fred, cantautore, musicista e attore, si presentò anche come un personaggio completamente diverso: niente aria ispirata e sofferente, nessun romanticismo zuccheroso o d’effetto. Si affermò come una caricatura da film, con la sigaretta all’angolo della bocca, i baffetti da gangster e le pose da duro viste nei polizieschi americani. Il successo non tardò ad arrivare e il suo primo 78 giri “Che bambola”, nel 1955, consentì al cantante torinese di fare un botto da quasi un milione di copie. Buscaglione entrò rapidamente nella schiera degli artisti più richiesti: il suo personaggio si impose come modello al punto da essere imitato su larga scala. I suoi comportamenti diventarono una sorta di status symbol, come — ad esempio — il suo viaggiare su una Ford Thunderbild color rosa quando in Italia circolavano soprattutto le Topolino e le Seicento. E fu proprio a bordo di quell’auto che, nel momento in cui il suo successo era salito alle stelle, il cantante “dal whisky facile” si schiantò contro un camion in una strada di Roma. “Fred Buscaglione, popolare cantante di musica leggera è morto stamani a Roma, in un pauroso incidente stradale alle sei e venti, all’incrocio di via Rossini con via Paisiello”. Così giunse la notizia, in apertura del giornale radio, la mattina del 3 febbraio 1960. Poche ore prima, tra le lamiere della sua Thunderbird, comprata sette mesi prima per l’astronomica cifra di sei milioni di lire, si concludeva la rapida parabola del grande Fred.
Non aveva compiuto nemmeno 39 anni e il successo, quello vero, lo aveva raggiunto da non molto, essendosi fatto conoscere dal grande pubblico solo nel ’57, con l’apparizione in ” Musica alla ribalta”. La trasmissione Rai era una formidabile vetrina nella quale artisti del calibro di Renato Carosone, Henry Salvador e Gilbert Becaud si alternavano a cantanti meno noti. Dopo anni e anni di gavetta, finalmente, la celebrità. Le sue canzoni sono rimaste memorabili, fischiettate e canticchiate un po’ da tutti, iniziando da “Guarda che luna” (“Guarda che luna, guarda che mare,da questa notte senza te dovrò restare; folle d’amore vorrei morire mentre la luna di lassù mi sta a guardare..”) e da “Che notte” (“Che notte, che notte quella notte!Se ci penso mi sento le ossa rotte: beh, m’aspetta quella bionda che fa il pieno al Roxy Bar,l’amichetta tutta curve del capoccia Billy Carr” ). Di successo in successo , da “Cocco bello” all’autocelebrativa “A qualcuno piace Fred”, passando per “Porfirio Villarosa” (“Esta é la cancion de Porfirio Villarosa, che faceva el manoval alla Viscosa…Porfirio dalla bocca fascinosa, lo credevano spagnolo o portoghese, egli invece è torinese..”), Fred Buscagliene, dopo tanta gavetta, visse in fretta i suoi anni ruggenti. Lui stesso, in un intervista del ’59, su “Stampa Sera” raccontava, con una punta d’amarezza: “Sono diventato famoso troppo tardi.. Da vent’anni suono nei night club e nelle sale da ballo”. Così, in un Paese in bianco e nero che stava faticosamente uscendo dal dramma della guerra, con alti tassi di disoccupazione e analfabetismo, Buscaglione aveva scalato il successo con il suo spirito ribelle, irriverente e anticonformista. Come tanti altri personaggi dalla breve vita la sua leggenda non era destinata a spegnersi con lui. Sessantuno anni dopo, la stella di “Fred” Buscaglione brilla ancora, luminosa. Nessuno saprà mai dove se ne sia andato quel 3 febbraio del 1960 ma forse si è ritagliato un posto in qualche luogo che assomiglia al suo “cielo dei bar“.