STORIA- Pagina 5

Riapre al pubblico il Centro Storico Fiat: mostre, eventi e attività di studio

Ha riaperto al pubblico giovedì 12 dicembre il Centro Storico FIAT di via Chiabrera 20, in sinergia con il MAUTO di corso Unità d’Italia 40

 

Sarà il Museo Nazionale dell’Automobile a gestire la riapertura e il programma di eventi evia attività volti a rilanciare un luogo fondamentale per la storia dell’automobilismo e della Città di Torino, con l’obiettivo di restituire alla collettività il patrimonio che conserva. In seguito all’annuncio dato, a proposito dell’opening della mostra “125 volte FIAT. La modernità attraverso l’immaginario FIAT”, dell’accordo programmatico tra Stellantis e MAUTO per la gestione del Centro Storico FIAT, l’edificio di via Chiabrera 20, sede delle prime officine di produzione dell’azienda, ha riaperto le sue porte al pubblico a partire da giovedì 12 dicembre scorso. A questa prima apertura prenatalizia, pensata per i visitatori che vorranno scoprire questo luogo di riferimento per la storia dell’automobilismo durante le festività, seguirà nel mese di febbraio un’inaugurazione ufficiale alla presenza delle autorità. L’accordo prevede l’intervento del MAUTO nel rilancio del Centro Storico FIAT quale parte di un polo espositivo d’eccellenza per la Città di Torino. Tale obiettivo sarà perseguito attraverso l’attivazione di una strategia di promozione e sviluppo culturale della sede storica FIAT, dell’archivio e della collezione storica che conserva. Un programma di mostre, eventi e attività di studio e ricerca volti a intensificare il dialogo tra Università e centri di formazione, consentirà di coinvolgere un pubblico ampio, insieme alla strategia di marketing culturale già avviata dal Museo e finalizzata al racconto della storia dell’automobile e delle sfide future. Il Centro Storico FIAT ha sede in un edificio liberty che fu il primo ampliamento, nel 1907, delle officine di corso Dante, nelle quali nacque l’azienda. Fin dall’inizio è stato teatro di momenti importanti per la storia della FIAT, e ora ospita una collezione di cimeli, modellini e manifesti pubblicitari che coprono l’intera storia aziendale, oltre, ovviamente, alle automobili più significative della storia dell’azienda, dalla 3 ½ HP, la prima vettura prodotta dalla FIAT, alla Eldridge Mefistofele, del 1923, che con la sua silhouette slanciata e la sua mole possente, segna uno dei primi esempi di vettura da record. E poi il primo trattore, il FIAT 702, del 1919, autocarro 18 BL che motorizzò le truppe italiane nella prima guerra mondiale, la Littorina, protagonista del trasporto ferroviario a partire dagli anni Trenta, il Caccia G91, il velivolo disegnato da Giuseppe Gabrielli e adottato in seguito dalla NATO. Tra le automobili ricordiamo ancora la 525 SS , disegnata da Mario Revelli di Beaumont, il prototipo dell’utilitaria del Settecento. Nello stesso edificio è presente anche l’archivio aziendale consultabile su appuntamento. Oltre novemila documenti lineari e cartacei, 400 mila disegni tecnici, 5 mila tra volumi e riviste di automobilismo e storia industriale, più di 6 milioni di immagini, stampe, lastre e negativi, 200 ore di filmati storici. Di particolare interesse il fondo del progettista Dante Giacosa, il “papà” delle utilitarie che hanno motorizzato l’Italia. Nell’ottica di progettare eventi in collaborazione con il MAUTO, il Centro Storico FIAT ospiterà fino a domenica 4 maggio il progetto espositivo “Memorie e conflitti”, spin off della mostra “125 volte FIAT – La modernità attraverso l’immaginario FIAT”, allestita nel museo di Corso Unità d’Italia.

Il Centro Storico FIAT conserva più di 2 mila immagini e 300 faldoni di documenti e volantini lungo tutto il corso del Novecento. Parte di questo materiale è stato raccolto da chi aveva il compito di garantire la sicurezza aziendale: foto scattate da dietro le finestre degli uffici. Colpisce in particolare la collezione di volantini, unica nel suo genere. Giorno per giorno, attraverso i decenni i sorveglianti, con grande cura, hanno annotato e allegato tutti i volantini lanciati, distribuiti o fatti trovare dentro e fuori gli stabilimenti. Qualche volta, su questi volantini, vengono specificate date e ore esatte, quale porta di Mirafiori, quale bagno di operai e impiegati, quale striscione e in quale officina si potessero trovare.

Contributi sono giunti dall’Associazione Culturale Vera Nocentini, dalla Fondazione Studi Storici Gaetano Salvemini, dalla Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci, dal Gruppo Dirigenti Fiat e dall’ISMEL (Istituto per la Memoria e la Cultura del Lavoro dell’Impresa e dei Diritti Sociali). I visitatori potranno accedere al Centro Storico FIAT dal martedì alla domenica, dalle 10 alle 19, acquistando il biglietto online sul sito del MAUTO www.museoauto.com o presso le biglietterie dello stesso, in Corso Unità d’Italia 40 o presso il Centro Storico FIAT in via Chiabrera 20. Martedì 24 dicembre e martedì 31 dicembre orario dalle 10 alle 14, mercoledì 25 dicembre e mercoledì 1 gennaio orario dalle 14 alle 19.

 

Mara Martellotta

Una serata dedicata a Elda Lanza, la prima presentatrice della televisione italiana

Elda Lanza è stata nel 1952, in una Rai in fase sperimentale, quando ancora il termine non esisteva e quindi coniato appositamente per lei, la prima “presentatrice” della televisione italiana. Nel centenario della nascita, venerdì 13 dicembre, alle ore 21, alla Sala Pessini, in piazza Vittorio Veneto 2, a Castelnuovo Scrivia, in provincia di Alessandria, si svolgerà una serata in suo onore con il racconto della preziosa attività al servizio culturale e sociale della località dove scelse di vivere, arricchita dai ricordi di chi l’ha conosciuta e la narrazione del suo grande amico Mariano Sabatini, giornalista, scrittore ed autore di numerosi programmi televisivi come Unomattina, Parola mia e Tappeto volante. Elda Lanza, arrivata per caso da giornalista, a fare ben 14 provini alla Rai, venne scelta per testare programmi passati alla storia del piccolo schermo, quali Arrivi e partenze e Una risposta per voi.

Nella trasmissione “Vetrine” da lei ideata e condotta inventò la prima rubrica di cucina della televisione e date le telecamere giganti di allora, la sua prima idea fu quella di mettere uno specchio sopra il piano di lavoro, in modo tale che queste potessero riprendere quello che succedeva anche nelle pentole. Anni fa raccontò che si rese conto di quanto questa rubrica, con la partecipazione di Luisa De Ruggeri che non soltanto cucinava ma dava consigli pratici, ebbe successo quando diede la ricetta del Pesce di tonno, in cui metteva l’impasto in una forma di pesce di alluminio, e tutte le telespettatrici chiesero dove trovare quello stampo perché tutti i negozi l’avevano esaurito. Elda Lanza abbandonò il piccolo schermo a metà degli anni ’70 per dedicarsi alle pubbliche relazioni nell’agenzia di comunicazione fondata dal marito, il pubblicitario Vitaliano Damioli, occupandosi di grafica, giornalismo, architettura e arredamento. Ma ciò che davvero amava era scrivere e per tutta la vita ha scritto per quotidiani, periodici, novelle, romanzi e saggi.

Dopo una lunga pausa tornò ospite in tante trasmissioni tv, prima su La7 con Benedetta Parodi, e poi da Caterina Balivo, per una serie di tutorial sul “bon ton” a Detto fatto su Rai2. Nel 2012 esordì come giallista con “Niente lacrime per la signorina Olga” e le avventure dell’avvocato napoletano Max Gilardi, protagonista di numerosi titoli, tutti pubblicati da Salani. Nata a Milano il 5 ottobre 1924, scompare a Castelnuovo Scrivia, dove viveva, il 10 novembre 2019. La sua vita meriterebbe una fiction!

Igino Macagno

A Pinerolo si torna a ricordare Lidia Poët

In mostra, al “Museo della Cavalleria”, i cimeli della prima “donna-avvocato” d’Italia, in occasione della seconda stagione a lei dedicata su “Netflix”

Dal 15 dicembre al 6 gennaio 2025

Pinerolo (Torino)

Nata a Perrero, in Val Germanasca, nel 1855 e scomparsa a 93 anni, a Diano Marina (Imperia), è stata la prima donna – avvocato d’Italia. Laureatasi in “Giurisprudenza” all’Università di Torino, il 17 giugno 1881 (con una tesi sulla condizione femminile e sul diritto di voto per le donne), Lidia Poët, dopo aver praticato per anni la professione forense solo di fatto nello studio legale del fratello avvocato Giovanni Enrico (la Corte d’Appello di Torino, l’11 novembre 1883, annullò infatti la sua iscrizione all’albo, ritenendo disdicevole per le donne “esercitare l’avvocatura … nella razza umana esistono diversità e disuguaglianze naturali”) solo nel 1920, all’età di 65 anni, e a quasi a 40 dall’ottenimento della laurea, poté entrare ufficialmente – grazie alla “legge Sacchi” che autorizzò anche le donne a entrare nei pubblici uffici, tranne che nella magistratura, nella politica ed in tutti i ruoli militari –  nell’“Ordine degli Avvocati”, diventando, per l’appunto, la prima donna d’Italia ad esservi ammessa. Grande “guerriera”, Lidia Poët fu anche combattiva pioniera per l’emancipazione femminile e fra gli ideatori del moderno diritto penitenziario. Nel 1922 divenne la presidente del “Comitato pro voto donne” di Torino, partecipando con convinzione ai primi congressi femminili. Figura di altissima levatura etica e professionale, a lei, il 28 luglio 2021, il “Consiglio dell’Ordine degli Avvocati” di Torino ha dedicato un cippo commemorativo nei giardini del Palazzo di Giustizia, mentre a Milano le è stato dedicato un giardino di fronte al Tribunale e una via a San Giovanni Rotondo e a Livorno.

Ce n’è di che per dedicarle, nei luoghi che la videro adolescente e giovane avvocatessa combattiva a difesa dei diritti civili per le donne e per i più deboli (i “minori”) in primis, una seconda mostra, dopo quella organizzata un anno fa, sempre al “Museo Storico dell’Arma di Cavalleria” di via Giolitti 5, a Pinerolo. Mostra, in programma da domenica 15 dicembre a lunedì 6 gennaio 2025, promossa dal “Consorzio Turistico Pinerolese e Valli”, in occasione anche della messa in onda (dal 30 ottobre e già in programma la terza) su “Netflix” della seconda stagione de “La legge di Lidia Poët”, diretta da Matteo RovereLetizia Lamartire e Pippo Mezzapesa.

In mostra accanto alla sua nera “toga” forense”, tanto agognata e “vinta” con fierezza, troveremo anche vari libri appartenenti a Lidia,  arricchiti da sue annotazioni vergate a mano. E, ancora, l’abito di una pronipote, che proprio Poët aveva cucito a mano, e le borsette con le quali era solita andare a teatro a Pinerolo (al “Teatro Sociale”) con il fratello. In rassegna non mancheranno anche la cuffia e lo scialle dell’abito valdeseUn piccolo percorso – spiega Rossana Turina, presidente del ‘Consorzio Turistico Pinerolese e Valli’ – che racconta Lidia Poët come pioniera e prima avvocatessa d’Italia, ma anche come donna valdese che ha vissuto intensamente il nostro territorio”.

Parallelamente, il “Consorzio” torna a proporre il tour “La toga negata” che porta nei veri luoghi dove visse Poët, partendo dalla sperduta borgata di Traverse, a Perrero, per vedere la sua casa natale. Un lavoro meticoloso che ha impegnato il “Consorzio” nella ricerca dei discendenti della prima avvocatessa d’Italia. Si entrerà, anche, nel cimitero di San Martino dove Poët è sepolta.

La giornata prevede anche una sosta in Agriturismo, con un menù che propone ricette di inizi Novecento, la tappa all’esposizione allestita al “Museo della Cavalleria” e una passeggiata per Pinerolo dove Poët era solita incontrarsi con Edmondo De Amicis, scrittore e giornalista noto soprattutto per il suo “evergreen” “Cuore” e caro amico di Lidia.

Per partecipare: prenotazioni@turismopinerolese.it.

Per ulteriori info: “Consorzio Turistico Pinerolese e Valli”, Località Molino, Massello (Torino); 331/3901745 o www.turismopinerolese.it

Orari: mart. merc. giov. 9/12 e 13,30/16,30; dom. 10/12 e 14/18

g.m.

Nelle foto: immagini dall’allestimento espositivo e la “Casa” di Lidia Poët a Perrero  

Arte e sacro, la chiesa di San Dalmazzo a Torino

In centro citta’ un gioiello molto antico

Dopo un lungo periodo di chiusura, e’ di nuovo possibile visitare la chiesa di San Dalmazzo, situata tra via Garibaldi, una volta via Dora Grossa, e via delle Orfane.

Costruita nel lontano 1271 e destinata all’assistenza dei pellegrini e alla cura degli infermi, nel tempo la sua struttura subi’ un consistente deterioramento e fu cosi’ che nel 1573, periodo in cui fu affidata ai frati Barnabiti, si decise per una riedificazione. Qualche anno dopo per volere del cardinale Gerolamo della Rovere fu nuovamente restaurata e decorata, anche grazie alle numerose donazioni dei Savoia mentre alla fine dell’800 furono ripresi ulteriormente i lavori che la riportarono al suo stile originario. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu bombardata riportando seri danni al tetto e agli infissi, il suo ultimo restauro risale al 1959.

L’esterno e’ l’unica parte rimasta in stile Barocco con i suoi pilastri di ordine corinzio, i finestroni da cui entra la luce e un timpano semicircolare che avvolge un prezioso affresco. La chiesa, di medie dimensioni, trova la sua bellezza, oltre che nei suoi sorprendenti interni in stile neogotico che catturano subito l’occhio del visitatore, ma anche nella superficie proporzionata che la rende accogliente e affascinante.

Al suo interno lo sfondo e’ quello tipico dello stile gotico caratterizzato dallo slancio verticale, da vetrate colorate, da stucchi, dipinti neo-bizantini di Enrico Reffo e dorature. L’elemento che attira legittimamente l’attenzione e’ la fonte battesimale originale ereditata dalla vecchia chiesa di San Dalmazzo Martire. La struttura e’ a tre navate decorate da edicole, il bellissimo pulpito incorniciato da mosaici e il ciborio a baldacchino.

Spesso la chiesa di San Dalmazzo si fa scenario di concerti di musica, dal gospel alla musica da camera, il prossimo appuntamento? Domenica 15 Dicembre 2024 ore 17:00 TORINO CHAMBER MUSIC FESTIVAL, vibrazioni all’interno di un contesto suggestivo e incantevole.

Per informazioni sugli eventi

www.diocesi.torino.it

Maria La Barbera

Il mistero del Triangolo delle Bermuda, 5 dicembre 1945

ACCADDE OGGI

Forti tempeste, errori nella navigazione, problemi tecnici, addirittura forze paranormali o extraterrestri presenti in quella zona colpita da violenti e improvvisi uragani che sconvolgono mare e cielo e poi si disperdono rapidamente. Si è detto di tutto, lasciando spazio, anche troppo, all’immaginazione e fantasticando sulle possibili cause di quella tragedia. E se ne parla ancora, ogni anno, il giorno dell’anniversario. Sta di fatto che cinque aerei con 14 aviatori della Marina degli Stati Uniti scompaiono nel famoso Triangolo delle Bermuda, nell’Oceano Atlantico, durante un’esercitazione e non vengono mai più ritrovati. È passato quasi un secolo, era il 5 dicembre 1945. Come è potuto accadere? I racconti emersi in questi decenni sono tra i più svariati e alcuni anche molto strampalati. Si parla di onde gigantesche che emergono all’improvviso dagli abissi proiettando in aria le barche con una forza impressionante ma si narra anche di eruzioni di metano dalle profondità in grado di alterare la densità dell’acqua rendendo impossibile la navigazione. O perfino di attacchi di mostri marini e di calamari giganti che inghiottono i velivoli. Più realisticamente potrebbe invece trattarsi di un errore umano o di un difetto nella progettazione. È vero inoltre che nell’area specifica si trovano alcune delle fosse sottomarine più profonde al mondo e i relitti potrebbero trovarsi a molti chilometri dalla superficie dell’oceano. Il fondale marino si trova infatti a 6000-8000 metri sotto il livello del mare. Per le imbarcazioni il rischio di naufragio c’è sempre stato ma come è possibile far sparire anche gli aerei?
Le ipotesi sulle cause della scomparsa di aeroplani e navi nel Triangolo delle Bermuda sono molte ma cosa abbia causato queste sparizioni resta un mistero. Quasi 80 anni fa cinque aerei americani, conosciuti come Volo 19, decollarono dalla loro base in Florida per un normale addestramento e scomparvero inspiegabilmente nel Triangolo delle Bermuda. Né i velivoli né l’equipaggio furono mai più ritrovati. Quel giorno nacque la leggenda su cui si discute ancora oggi. Il Triangolo delle Bermuda è un’area oceanica di un milione di chilometri quadrati compresa tra Miami, l’arcipelago delle Bermuda e l’isola di Porto Rico. C’è da dire che si tratta di una zona dove spesso il meteo desta allarme e le condizioni del tempo sono pessime perché la corrente del Golfo crea vaste masse d’aria calda che generano onde alte parecchi metri e vere e proprie tempeste e bisogna aggiungere che molte di queste sparizioni misteriose sono avvenute in un periodo in cui le operazioni di salvataggio erano antiquate e poco efficaci. Sulla carta geografica quel triangolo è diventato il “triangolo maledetto”, un mistero che continua tra leggenda e realtà e che ha ispirato film, romanzi e serie televisive a non finire. All’interno di questo braccio di mare nel Novecento numerosi aerei e navi sono scomparsi senza lasciare traccia. Non è però un fenomeno solo novecentesco: gli storici ricordano che proprio in quest’area già Cristoforo Colombo annotò sul suo diario di bordo “strani e insoliti fenomeni” durante la navigazione.
I piloti degli aerei in volo sull’oceano potevano affidarsi esclusivamente alla bussola ma pare che quel giorno le bussole non funzionassero bene e le condizioni del tempo stavano peggiorando. Tanto è vero che il tenente istruttore Charles Taylor, a capo della missione, si perse un’ora dopo il decollo. Tragedia nella tragedia, anche uno degli idrovolanti di soccorso scomparve insieme ai 13 membri dell’equipaggio. Fu un disastro, relitti e corpi non furono mai trovati. Si trattò di un errore di valutazione del pilota secondo la Marina americana ma in seguito il verdetto fu cambiato in “cause sconosciute”. La Guardia Costiera ha comunque sempre fatto presente che il problema più grande in quell’area sono gli uragani con onde alte diversi metri. Le tempeste tra i Caraibi e l’Atlantico sono improvvise e possono dar vita a trombe d’acqua con effetti tragici per piloti e marinai. La sorte della Squadriglia 19 resta uno dei più grandi enigmi nella storia dell’aviazione.     Filippo Re

Sarajevo, una sera alla casa del dispetto

Una sera Goran volle a tutti i costi portarmi a cena all’Inat Kuca. Diceva che non si poteva immaginare quant’è bella e accogliente Sarajevo senza passare almeno una serata bevendo birra Sarajevsko e scoprendo le delizie della cucina bosniaca. Quindi, cosa poteva offrire di meglio la città di quel ristorante che i sarajevesi considerano una vera e propria istituzione? L’atmosfera di questa costruzione in stile turco affacciata sulla Miljacka con un superbo dehors sul fiume, è sempre speciale. Il menù propone piatti tipici della tradizione bosniaca, non facili da trovare negli altri ristoranti del centro della città. Anche a tavola Sarajevo esprime quel suo carattere orgogliosamente meticcio, multiculturale nonostante tutto, influenzato tanto dalle tradizioni ottomane e balcaniche quanto da quelle mitteleuropee e mediterranee. Del resto non può essere diversamente per una città il cui nome trae origine dal turco antico “saraj”, cioè il palazzo ma anche luogo d’incontro e scambio. Se spesso ci sedevamo davanti a un chiosco della Bascarsija, rimpinzandoci di birra, Ćevápčići e burek, secondo il tradizionale rito del fast food balcanico, quella sera cenammo su tavoli di legno antico, con tovaglie ricamate e una infinità di proposte interessanti a base di zuppe, carni, verdure e legumi. Intendiamoci: a me è sempre piaciuto pranzare nel locale spartano di Zeljko o nei chioschi affollati e vocianti delle vie attorno al bazar. Vado matto per i Ćevápčići, quelle deliziose polpette un poco allungate di carne di agnello arricchita di spezie e cipolla e cucinate sulla brace. E il burek? Quella specie di torta salata dalla sfoglia sottile ripiena di carne (o verdure e formaggio, nella versione vegetariana) e cotta  ricoprendola interamente con le braci ardenti, è gustosissima. All’Inat Kuca, volendo, ci sono gli stessi cibi della cucina povera bosniaca. Ero tentato di restare sul già sperimentato ma Goran insisteva perché assaggiassi il bosanski lonac (“bosnian pot” sul menù in inglese, ovvero pentola bosniaca),piatto molto saporito che consiste di verdure assortire, carne, pomodoro e spezie, fatte cuocere a lungo in casseruola. E poi una particolarissima pita fatta di sottilissima pasta fillo arrotolata ripiena di carne o verdure.

 

Preparata dentro a dei grandi tegami rotondi chiusi con un coperchio e infilati sotto una coltre di brace ardente. Ci venne servita caldissima con kíselo mlijèko , lo yogurt casalingo, spalmato sullo stesso piatto. Goran non si tirava mai indietro quando sedeva a tavola. Si divorò anche un piatto di súdžukice, gustosa salsiccia arrostita sempre sulla pietra. Per giustificarsi mi disse che si trattava di una mala pórcija, la porzione piccola (tanto per darvi un’idea erano tre salsicce) e non una ben più robusta e impegnativa vèlika pórcija, cioè la porzione grande da cinque salsicce. Che dovevo dirgli? Salute, Goran. E complimenti per il tuo stomaco di ferro. Io ero sazio e non riuscivo  a mandar giù più niente. Lo convinsi a rinunciare (anche se dall’espressione del suo volto direi che lo fece a malincuore) ai dolci. Terminammo con una bella tazza di bósanska kafail caffè bosniaco non filtrato,  preparato e servito nelle caffettiere in rame e un giro di rákija, la grappa nazionale  ( in ragione del distillato di frutta fermentata cambia il nome e quella era la dúnjevača, uno straordinario e profumato liquore di mela cotogna. Goran raccontò la storia dell’originale nome di quella casa che da tempo ospitava il ristorante. Mi disse che attorno al XIX secolo si trovava sulla riva opposta del fiume quando ne venne disposto l’abbattimento da parte delle autorità austroungariche per fare posto alla biblioteca nazionale, l’imponente Vijećnica. Il proprietario non intendeva ragioni e, pressato dalle autorità dell’Impero viennese, si intestardì fino a sfidarle, pretendendo che la abitazione venisse trasferita, pietra su pietra, dall’altro lato del fiume. Pensava che la cosa fosse impossibile e invece il suo capriccio venne esaudito in poco tempo e nel breve di due anni venne costruito al suo posto l’imponente edificio. Così oggi l’Inat Kuca, la casa del Dispetto, sorge sulla sponda opposta della Miljacka proprio di fronte all’imponente mole della biblioteca che, dopo il rogo provocato dalle granate dei nazionalisti serbi il 25 agosto del 1992, è stata ristrutturata e oggi ospita il municipio. Pagato l’onestissimo conto, uscimmo e ci incamminammo verso la Bascarsija, alzando lo sguardo sui minareti che parevano voler fare il solletico a un cielo notturno ricamato da milioni di stelle. C’era in giro ancora parecchia gente per le vie attorno alla moschea del Bey , la Begova Dzamija, uno dei più notevoli monumenti turchi in Europa. Era un buon segno, a riprova che l’anima della città, nonostante il dolore e le rovine di quel fine secolo di conflitti e violenze, era viva.

Marco Travaglini

Mario Odasso, ufficiale alpino in Albania e Russia

Giorgio Ferraris, maestro elementare in pensione, da tanti anni sindaco di Ormea in alta Val Tanaro, al confine con la Liguria, autore di libri importanti sugli alpini al fronte russo tra il 1942 e il 1943 (Alpini dal Tanaro al Don, In prima linea a Nowo Postojalowka, Le ultime tradotte per la Russia), ha pubblicato per l’editore Araba Fenice un interessante profilo dell’ufficiale delle penne nere Mario Odasso. Nato a Garessio il 7 dicembre del 1898, Odasso prese parte come giovane ufficiale di complemento al primo conflitto mondiale e ricoprì un ruolo di grande rilevanza su tutti i fronti dove vennero impegnate le truppe alpine nella Seconda Guerra mondiale. Con il grado di maggiore  comandò il Battaglione Intra, inviato in Albania con la Cuneense dopo il fallito tentativo di occupazione della Grecia. In quella circostanza condusse personalmente una delle poche operazioni militari dell’esercito italiano coronate da successo di quella guerra, prima dell’intervento delle truppe germaniche. Il comando del Battaglione degli alpini Intra fu un esperienza importante considerato che rappresentava, nella storia delle penne nere, il più antico corpo di fanteria da montagna attivo nel mondo, quasi una leggenda. Costituitosi nel 1908 con il nome di Pallanza, assunse un anno più tardi la denominazione che lo rese famoso tra gli alpini. La nappina che distingueva questi alpini era verde e il loro motto era tutto un programma: “O u roump o u moeur !”, “O rompo, o muoio”. Odasso, promosso tenente colonnello, prese successivamente parte alla campagna di Russia come Capo dell’Ufficio Operazioni del Corpo d’Armata Alpino e, all’inizio della ritirata, svolse una delicata e fortunosa missione speciale. Nominato Capo di Stato Maggiore del Corpo Alpino, dopo aver organizzato il rientro in patria dei soldati italiani sopravvissuti alla disastrosa ritirata, venne gravemente ferito da un bombardamento aereo russo e i postumi della ferita lo costrinsero al ritiro dalla vita militare, conclusa con il grado di generale. A guerra finita, il Battaglione Intra, a quel tempo inquadrato nel 4° Reggimento Alpini della Divisione Taurinense, non venne più ricostituito, restando così nei ricordi di coloro che ne fecero parte, in pace come in guerra. Va sottolineato che al rientro in Italia, nella sua casa a Intra, Mario Odasso non solo non aderì alla Repubblica di Salò ma avviò i contatti con il Cln clandestino di Verbania e con le formazioni della Resistenza, preparando la calata al piano dei partigiani e assumendo il comando della piazza militare verbanese. Quando si costituì la prima amministrazione comunale di Verbania dopo la Liberazione fu chiamato dal sindaco socialista Andreani a far parte della giunta in qualità di vicesindaco, incarico che ricoprì fino alla primavera del 1946. Il libro di Giorgio Ferraris, arricchito da una importante documentazione fotografica sulla campagna greco-albanese del Battaglione Intra, ricostruisce la vita di questo alpino di poche parole e di forte tempra, apprezzato e rispettato dai suoi uomini, che seppe fare scelte importanti a testa alta, dimostrando grandi capacità militari e una forte umanità. Ferraris mette in rilievo, infine i valori che hanno ispirato la vita di quest’uomo tutto d’un pezzo: l’onestà e lo spirito di libertà.

Marco Travaglini

La tranvia a cremagliera “Sassi Superga” compie 140 anni, un unicum che vale la targa d’oro ASI

L’Automotoclub Storico Italiano, nella sua continua opera di tutela e valorizzazione del patrimonio motoristico italiano, ha acceso i riflettori sulla lunga storia della tranvia Sassi-Superga, nota anche come Dentiera, che collega la Città della Mole alla collina dove si erge la basilica di Superga. La linea venne inaugurata come funicolare a vapore 140 anni fa, il 27 aprile 1884 e nel 1934 subì l’aggiornamento tecnico utilizzato ancora ai giorni nostri, a novanta anni di distanza. Si tratta della cremagliera di tipo Scrub senza fune e con trazione elettrica. Ad oggi rimane l’unico esempio italiano di tramvia a cremagliera e uno dei pochi rimasti al mondo. La linea, a binario unico con scartamento di 1435 mm, è lunga poco più di tre chilometri, affronta un dislivello di 425 metri e una pendenza massima di 21 gradi.

Per celebrare questo particolare primato, ASI ha rilasciato la prima certificazione di storicità per un convoglio tranviario elettrico, quello in funzione sulla Sassi Superga, formato dalla matrice D2-D3 SNOS del 1934 e dai rimorchi D11-D12-D13-D14 del 1884.

Le rispettive targhe oro sono state consegnate dal Presidente ASi Alberto Scuro e dalla Commissione ASI Rotabili Ferroviari, Gabriele Savi, Michele Fontani e Alberto Sgarbi, al Presidente dell’Associazione Torinese Tram Storici Roberto Carbursano, al termine di un evento organizzato sabato 30 novembre scorso alla stazione di Sassi, durante il quale sono intervenuti la Presidente del Consiglio Comunale di Torino, Maria Grazia Grippo, l’Assessore regionale Andrea Tronzano e il presidente GTT Antonio Fenoglio.

Nell’occasione è stato offerto un road tour sulle rotaie della città a bordo di due affascinanti tram della collezione curata dall’Associazione Torinese Tram Storici, il ‘2598’ del 1933, e il ‘312’ del 1935.

La Sassi Superga è stata la prima funicolare italiana a vapore ad adottare il sistema Agudio, che consisteva in un cavo d’acciaio che, scorrendo accanto al binario, azionava due grandi pulegge a lato del convoglio che, a loro volta, muovevano gli ingranaggi sulla cremagliera centrale. Un motore a azione azionava l’argano. Il sistema venne aggiornato nel 1934 con la cremagliera tipo Scrub senza fune e con trazione elettrica. Le motrici in uso dal 1934 sono la D1 a due assi e le D2 e D3 a carrelli, quattro assi. La colorazione esterna riprende i colori storici di ATM ( Azienda Torinese Mobilità, oggi GTT Gruppo Torinese Trasporti). Il rosso crema adornato dal filetto giallo blu dell’araldica torinese, abbandonati nel 1927 per imposizione ministeriale furono riproposti in quanto la linea Sassi-Superga non è una normale tranvia urbana. Ad eccezione del periodo della seconda guerra mondiale, quando le vetture furono ricolorate in beige, la D2 e la D3 sono tra i pochi tram a non aver mai cambiato livrea. Durante i loro novanta anni di onorato servizio, le motrici D2 e D3 hanno percorso oltre un milione e mezzo di chilometri, accompagnando milioni di persone fino alla base della Basilica di Superga.

I quattro motori TIBB-GTDM permettono al tram di spingere fino a due rimorchi, per un totale di 210 passeggeri. L’interno del tram è completamente in legno lucidato, cosiccome lo sono le porte. I sedili sono formati da panche dallo schienale reclinabile. Solo nella zona rivolta a valle ci sono una paratia e una porta scorrevole a dividere la zona passeggeri dalla parte ristretta del tram. L’orientamento del tram è fisso, sebbene sia bidirezionale. Il lato rivolto a monte si riconosce per la presenza delle condutture dell’aria. I finestrini sono ampi, panoramici e possono scomparire all’interno della fiancata del tram.

Nel 1934, in occasione del rinnovo del parco veicoli, l’ATM decise di recuperare i vagoni a quattro assi, due aperti estivi D13, D14 e due invernali chiusi D11 e D12, e di riutilizzarli sulla linea nuova, previa aggiunta di una ruota dentata che ingranasse sulla cremagliera per garantire la frenatura. Questi vagoni, fino all’immediato secondo dopoguerra, accompagnavano i passeggeri a partire da piazza Castello fino a Superga. Nel tratto tra piazza Castello e Sassi, le rimorchiate venivano agganciate al tram a vapore della linea Torino Brusasco, chiusa poi nel 1949, e da esso trainate fino alla stazione Sassi dove, con motrici di servizio, venivano portate sulla linea per Superga e unite alla motrice.

Sono state restaurate da un’officina specializzata nel 2000 e malgrado non siano praticamente mai cambiate nel corso dei decenni, solo pochi dettagli lasciano intendere la loro effettiva età.

Mara Martellotta

Martini, un mondo di vermouth. Una mostra a Pessione

La storia della Casa Martini rivive in una mostra nella grande fabbrica di Vermouth a Pessione, frazione di Chieri. Dieci pannelli illustrano 160 anni di storie uscite dagli archivi che ricostruiscono il lungo cammino della Martini dal 1864 ai giorni nostri. Furono l’imprenditore Alessandro Martini, Teofilo Sola e Luigi Rossi a fondare la Martini &Rossi a Torino nel 1863 ma scelsero Pessione, vicino a Torino, per fondare il nuovo stabilimento. Nel 1993 Martini & Rossi entrò nel gruppo della famiglia Bacardi e oggi produce oltre 200 milioni di bottiglie l’anno inviate in un centinaio di Paesi.
In vetrina a Pessione si possono vedere documenti dell’archivio storico Martini &Rossi con centinaia di fascicoli, registri, prodotti, immagini, oggetti sulla storia dell’azienda e del marchio, aneddoti, curiosità e informazioni. C’è tutta la storia dell’azienda, da quando mosse i primi passi a Torino, in quegli anni capitale del Regno d’Italia, per poi finire a Pessione per motivi “strategici”, un borgo vicino al capoluogo e alla ferrovia con la possibilità di espandere gli impianti. “Martini&Rossi, sottolineano i promotori dell’iniziativa, si trasformò ben presto in una fabbrica-famiglia diventando un punto di riferimento per il territorio chierese”. Alla fine dell’Ottocento la Martini aprì a Buenos Aires la prima delle sedi estere diventando, alcuni anni dopo, la più grande fabbrica di vermouth del mondo. All’inizio del Novecento produceva 20 milioni di litri all’anno e il vermouth Martini diventò il più venduto in America. Nel 1961 fu aperto il Museo Martini di storia dell’enologia e la Terrazza Martini. La mostra “Martini a Pessione, 160 anni di storie dagli archivi” è aperta al pubblico nella piazzetta di Casa Martini fino al 31 dicembre. Per visitare il Museo Martini, aperto dal giovedì al lunedì con orario 11-19, è obbligatoria la prenotazione.         Filippo Re