STORIA- Pagina 49

Lidia Poët: sulle (vere) tracce della prima donna avvocato d’Italia

Un tour, che parte da Torino Porta Nuova, vi porta alla scoperta di Lidia Poët, tra vallate assolate, luoghi da raggiungere solo a piedi, cucina contadina e tradizioni valdesi. Una giornata per scoprire i luoghi dove Lidia nacque, visse e studiò diventando una donna che precorse il suo e il nostro tempo.

 

 

Il Consorzio Turistico Pinerolese e Valli, nato due anni fa per valorizzare la zona e promuovere le eccellenze del territorio, organizza un tour del costo di 80 euro da Torino o 70 euro da Pinerolo e che comprende trasferimenti in bus e navette, guida turistica abilitata, pranzo tipico (acqua inclusa) e assicurazione sanitaria. Durante l’intera giornata è possibile incontrare in abiti tradizionali abitanti delle vallate che raccontano la maestria che si cela dietro ad ogni capo e i discendenti di Poët che approfondiranno la figura della loro illustre parente.

 

 

 

Il tour, intitolato La Toga Negata, parte da Torino Porta Nuova per poi fare una breve sosta a Pinerolo e accorpare eventuali partecipanti. Si prosegue subito alla volta di Traverse dove si trova la casa natale di Poët per poi proseguire con tratti a piedi, al cimitero di san Martino. Si scende fino all’agriturismo La Chabranda, a Pomaretto per un menù a base di ricette di inizio Novecento.

 

 

Il tour prosegue a San Germano Chisone dove sono conservate la toga ma anche abiti e borsette, per poi proseguire per la biblioteca di Pinerolo, un tempo Banca d’Italia, e il Teatro Sociale.

 

Ed è proprio qui, nella bella sala settecentesca del Circolo Sociale che mi siedo per inviare alcune foto al mio direttore. Mi fermo per soli cinque minuti, ma tanto basta per lasciarmi indietro. Mi alzo di scatto e vado verso l’uscita, ma del mio gruppo non c’è nessuna traccia. Vedo una figura in penombra che prima non avevo notato. Ha i capelli chiari raccolti sulla nuca, un abito lungo e nero, dal bustino stretto e con un collarino che ricorda le donne al ballo dipinte da Toulouse-Lautrec, una microborsina di perline tra le mani e l’aria di qualcuno che mi stava osservando da tempo.

 

Ma lei è…

 

E lei si è distratta, ed ora l’han lasciata qui.

 

Signora Poët cosa ci fa qui?

 

Crede forse che io sia solo e sempre china sui libri? Mi piace uscire e incontrare gli amici di tanto in tanto. Non si vive mica solo di studio. A proposito, ha visto Edmondo?

 

De Amicis?

 

Ma certo. Mi ha chiesto di trovargli una casa per le vacanze con camere da letto per sé e i suoi figli, una cucina e un “luogo per rifocillarsi”. Mi deve aver preso per un’agenzia di viaggi (ride). Però l’ho trovata.

 

E dove si trova? Questa conversazione è assurda e una delle due dev’essere matta.

 

E secondo lei le dico l’indirizzo? Così poi si ritrova i fotografisotto casa. Comunque non mi definirei matta. Caparbia, forse. Ma come non esserlo con quello che ho passato.

 

Va bene, aspetti, se questa intervista ha qualche senso, allora facciamola per bene. E partiamo dall’inizio. Lei nasce a Perrero e trascorre la sua infanzia in località Traverse.

 

So che vi han portati lì questa mattina. È un luogo a cui sono molto cara, dove scoprii la mia passione più grande: i libri. Andavo in soffitta e leggevo tutto ciò che trovavo, anche quel che non avrei dovuto (ride ancora, con la bocca e con gli occhi, quasi a rivelare una marachella). Sa io provengo da una famiglia valdese. Eravamo benestanti, e nella nostra comunità, lo studio viene incentivato.

 

Mi sta dicendo che la sua famiglia non l’ha osteggiata negli studi?

 

Al contrario. Quando studiavo legge, mio fratello mi accompagnava tutti i giorni in facoltà. Sa, a noi donne, ed io a legge ero l’unica, non era permesso girare da sole. E così il poverino mi scortava. Si figuri che la prima volta che arrivai un professore mi chiese se volevo un tavolo tutto per me. Dissi di no, che potevo sedermi con gli altri. Quando entravano in aula dicevano: Buon giorno Signori e Buongiorno Signorina. Poverini, non sapevano nemmeno come rivolgersi a me.

 

Lei però aveva già fatto un anno a medicina.

 

E poi decisi di cambiare. Non sono mica perfetta.

 

Fu colpa di Lombroso? Si vocifera che non era molto amabile con le donne. Anzi le preferiva in casa a fare la calzetta.

 

Il Professor Lombroso fu figlio del suo tempo, non creda. Ma anche lui cambiò idea molte volte nel corso della sua vita. E secondo me fu merito anche delle due figlie femmine che si emanciparono e non rimasero a casa a fare la calzetta. Anzi sa cosa le dico? Che quando dovetti sostenere l’esame di medicina legale, avendo un trascorso a medicina, chiesi l’esonero. Ma il Professore fu irremovibile, mi costrinse a seguire il corso proprio con lui. E quando superai l’esame mostrò soddisfazione e, mi lasci dire, anche ammirazione.

 

Lei era molto ammirata. Dagli uomini intendo. Riceveva bigliettini dai compagni di corso…

 

Oh, non creda di farmi arrossire. Si lo ero, ma io ero anche timida all’università e comunque la vita matrimoniale non è mai stata nei miei progetti. Dovevo studiare e dovevo aprire quelle porte che per noi donne erano ancora chiuse col lucchetto. A proposito di uomini, sa cosa mi ha detto Victor-Marie l’altra sera?

 

Sta parlando di Victor Hugo?

 

Lei conosce altri Victor-Marie?

 

Manco uno

 

Eravamo ad un ballo e gli ho detto che, beh, mi serve una visita dal dentista. Ho perso un dente e vorrei rimpiazzarlo. Ma Victor mi ha fissato seria e mi ha detto: on farlo, sarebbe l’unica cosa non autentica di te (e nuovamente scoppia a ridere) Non dovrei vantarmi così, ma le confesso che mi ha fatto piacere.

 

Torniamo ai suoi studi, non vorrei che l’intervista virasse verso il gossip. Lei chiedeva continuamente di poter studiare latino. Prende tre diplomi, ma torna sempre alla stessa richiesta. Ma perché?

 

Forse perché in cuor mio volevo approdare proprio alla facoltà di legge. E per quella serviva conoscere il latino.

 

E perché giurisprudenza. Perché non restare a medicina, dove c’erano già altre donne. Perché scegliere sempre la strada meno battuta.

 

Lei ha visto dove sono nata e ha visto anche dove riposo, al Cimitero di san Martino? Io ho mosso i primi passi sulle mulattiere. Crede forse che percorrere Via Po potesse spaventarmi? Vede, la mia famiglia ha sempre stimolato la curiosità, mi ha permesso di viaggiare e di aprire la mente. E in testa io avevo concetti come il voto alle donne, i diritti degli orfani, le condizioni dei carcerati. Dovevo mettere nero su bianco. Sapevo che il diritto si sarebbe evoluto. Anche se non sono molto contenta delle condizioni nelle carceri oggi.

 

C’è un problema di sovraffollamento

 

Non solo, non c’è un adeguato reinserimento nella società. Bisogna promuovere il lavoro, insegnare un mestiere, permettere ai prigionieri di guadagnare in modo che il reinserimento nella comunità, una volta scontata la pena, sia il più naturale ed efficace possibile. Ho scritto tutto, e fortunatamente alcuni compagni di corso o lettori hanno trascritto le mie conferenze.

 

Diciamo la verità, lei aveva i fan che hanno permesso di raccogliere i suoi discorsi e di pubblicarli.

 

Ha visto che qualcosa è conservato nella Biblioteca di Pinerolo?

 

Si, ed è stato emozionante. C’è anche una copia della sua tesi sul voto alle donne.

 

A proposito, lei va a votare, vero?

 

Ovvio, è per donne come lei che non vorrei perdere diritti acquisiti con fatica. Anche se non sempre riesco a capire come formulano un referendum.

 

Politichese misto a burocratese. Sembra lo facciano a posta. Ha visto la mia richiesta di ricorso quando mi negarono la toga? Fui chiara: ho studiato, ho passato gli esami, sono stata giudicataidonea, dunque quella toga mi spetta. Eppure riuscirono a negarmela.

 

Toga o non toga, lei comunque lavorò nello studio di suo fratello. Mi racconta di qualche cliente illustre? Tanto ormai saranno procedimenti caduti in prescrizione, se non nell’oblio.

 

Agnelli

 

No, ecco magari non così illustre…

 

Stia tranquilla, non ho intenzione di tradire il segreto professionale. Dicevo, il Senatore Agnelli venne da noi per quella causa alla San Giorgio, la compagnia navale. E volle me per occuparsene. Ed io viaggiai per i vari incontri su e giù per l’Italia.

Per ringraziarmi fece fare un bellissimo ventaglio con dipinta l’aula del tribunale. Lo conserva ancora mia nipote, avvocato anche lei. Credo l’abbia conosciuta.

 

 

Si, l’avvocato Daniela Trezzi. Dicono che l’assomiglia molto. E in effetti l’aria dolce e gli occhi sorridenti la ricordano. Anche suo padre era avvocato…

 

E anche suo figlio. E ci tramandiamo una scrivania dove studiamo, su mia precisa richiesta. Mi piace pensare che il mio lavoro continui a vivere attraverso loro. A proposito, eravate a pranzo insieme. Le è piaciuto?

 

Un pranzo meraviglioso, e quel vino… io non bevo ma era così profumato.

 

La nostra è una cucina povera, contadina ma estremamente autentica. La zuppa che ha assaggiato, a base di grissini, formaggi e burro, cotta nel brodo di gallina e ripassata al forno, è molto sostanziosa. E quello che voi chiamate cibo di conforto. E poi ci sono i salumi, i formaggi, il miele e le composte di accompagnamento e il flan al caramello. E si, abbiamo anche ottimi vini. Del resto queste vallate consentono coltivazioni genuine. Mi han detto che quei matti dei mei compaesani ora coltivano lo zafferano.

 

E dicono che viene su pure piuttosto bene. In effetti, passeggiando tra le borgate sono stata investita da una grande varietà di profumi. Erbe aromatiche ma anche fiori.

 

Dove non arriva l’uomo, la natura si prende ancora i suoi spazi e i suoi tempi per fare le cose per bene. Io torno spesso a passeggiare in quelle zone. Ha visto che quiete al cimitero? Anche se quel muro che separa i cattolici dai valdesi non so se ha ragion d’essere. Non siamo forse tutti uguali, nella vita come nella morte?

 

 

Guardi, cambiamo discorso, non vorrei entrasse Totò a recitare la livella.

 

Chi? Ma si, forse dovrei andare anche io. La pasticceria in piazza è ancora aperta e… ha assaggiato la Torta Zurigo?

 

Si, ma aspetti. Mi dica almeno se la serie su Netflix le è piaciuta…

 

Beh, non è la mia storia. Mi vede? Non sono nemmeno mora. Capisco farmi bere il whisky per esigenze di copione, ma se la immagina mia nipote che dice parolacce? Siamo signore di altri tempi…non mi faccia dire. Però una cosa è bene che si sappia. Grazie alla serie Netflix la mia storia sta tornando in luce. Ero stata dimenticata e lo capisco. Il tempo passa e la mia è una famiglia di gente schiva. Ma io ho ancora tanto da dire. Pensi che una frase a me cara, dalla lettera di Paolo ai Corinzi, l’ho persino fatta scrivere…

 

 

Sulla sua lapide. Tre cose contano la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità.

 

Loredana dobbiamo rientrare a Torino. Non ti sarai per caso annoiata

 

 

No affatto, è che stavo parlando con la…giuro c’era qui una c’era una signora…

 

 

Rossana Turina, presidente del Consorzio Turistico Pinerolese e Valli, mi riporta alla realtà e mi riaccompagna al bus di rientro. Io però sono sicura di aver incontrato... Anche se a spiegarlo al resto del gruppo c’è da non crederci.

 

Va bene, non credete a niente di quel che ho scritto. Andate a scoprirlo con i vostri occhi. Poi vediamo se sono io ad essermelo inventata.

 

Per informazioni sui prossimi Tour:

 

Sito internet: www.turismopinerolese.it

Instagram: @turismopinerolesevalli

Facebook: Turismo Pinerolese e Valli

 

 

Loredana Barozzino

 

Il piemontese Pio V, il papa di Lepanto

Sognava di mobilitare l’intera Cristianità contro il grande pericolo turco Michele Ghislieri, il cardinale Alessandrino, diventato Papa V. Fu il promotore della Lega Santa che sconfisse i turchi a Lepanto il 7 ottobre 1571

 La minaccia dell’Islam in Europa e nel Mediterraneo fu utilizzata dal domenicano di Bosco Marengo, l’unico Papa piemontese della storia del cattolicesimo (Papa Bergoglio è di origine piemontese) per infiammare l’Europa cristiana, unire gran parte delle potenze europee e affrontare i turchi sul mare con una grande flotta guidata da Don Giovanni d’Austria. Per realizzare il suo obiettivo poteva contare sull’appoggio di molti sovrani europei ma non su quello del re di Francia che, pur “cristianissimo”, trescava con il Turco. Pio V ha aveva letto dei messaggi scritti da Carlo IX in cui il sultano ottomano Selim II (figlio di Solimano il Magnifico) veniva chiamato perfino “imperatore dei Turchi” quando invece agli occhi degli europei era un nemico e un tiranno da combattere. Leggendo parole come “altissimo, potentissimo e invincibile grande imperatore dei musulmani, nostro carissimo amico, Dio voglia aumentare la vostra grandezza….Pio V scattava sulla sedia e andava su tutte le furie. D’altronde, i cordiali rapporti franco-ottomani non erano una novità. Già 35 anni prima, Francesco I, re di Francia, aveva firmato con Solimano un “empio” patto di amicizia e di alleanza destinato a durare fino all’arrivo di Napoleone in Egitto alla fine del Settecento. Agli equipaggi pronti a salpare da Messina per raggiungere il Golfo di Lepanto, in Grecia, e scontrarsi in mezzo al mare con la flotta della Mezzaluna, Pio V raccomandava, in una lettera personale consegnata al comandante della flotta Don Giovanni d’Austria, di comportarsi cristianamente sulle galee, di non giocare e non bestemmiare, di pregare al mattino e di addestrarsi militarmente nel pomeriggio in attesa del grande scontro. Oltre 400 galee e più di 200.000 uomini si affrontarono in una battaglia che fu quasi più “terrestre” che navale. Galea contro galea, centinaia di scafi che si percuotono l’uno contro l’altro, soldati che si gettano sulle imbarcazioni nemiche, vicinissime tra loro, quasi incastrate, tenute insieme da pedane, tavole e passerelle, in un fuoco incessante di archibugi e pistole incrociato con nugoli di frecce e lance. La flotta della Lega cristiana investì quella ottomana sbaragliandola. Il grande ammiraglio Alì Pascià morì e con lui perirono altri 25.000 turchi mentre le perdite cristiane ammontarono a 7500 uomini. La testa mozzata di Alì fu innalzata su una lancia affinchè tutti potessero vederla. Il 7 ottobre 1571 il golfo di Lepanto si trasformò in un grande campo di battaglia e in un gigantesco affresco storico oggi immortalato con dipinti e arazzi sulle pareti di palazzi storici, ville e chiese in tutta Europa. Ma la battaglia di Lepanto servì a qualcosa? La vittoria dei cristiani fu assai amplificata dalla propaganda vaticana e dalla chiesa cattolica ma il sultano Selim affermò che “gli era stata solo bruciacchiata la barba” e non aveva tutti i torti poiché in pochi mesi ricostruì la flotta colata a picco davanti alle isole Curzolari. Lepanto fu solo un fuoco di paglia come sostengono molti storici. Una battaglia vinta dalla Lega Santa all’interno di una guerra perduta, quella per Cipro, che due mesi prima cessò di essere un’isola veneziana e cadde nelle mani dei turchi, reduci, sei anni prima, dal fallimento del grande assedio di Malta. E tre anni più tardi, nel 1574, gli ottomani riconquistarono Tunisi e da lì sorvegliarono senza difficoltà le coste nordafricane e, da Cipro, il Mediterraneo orientale. Allora molto rumore per nulla? La grande battaglia non servì proprio a niente o ebbe delle conseguenze? La domanda se la pose Fernand Braudel. In effetti a far rumore intorno a Lepanto fu soprattutto il grande impatto propagandistico che la notizia della vittoria, giunta a Venezia il 19 ottobre, si propagò per l’intero continente suscitando un’ondata di euforia e delirio. L’anziano Papa Ghislieri ordinò di far suonare le campane di Roma invitando i fedeli a ringraziare Dio e la Madonna del Rosario per la vittoria del 7 ottobre.

 

Filippo Re

Liberty a Palazzo Madama

Una mostra condurrà alla scoperta del Liberty e inviterà i cittadini nel progetto di riscoperta architettonica dal titolo “LIBERTYAMO”

 

La mostra autunnale per eccellenza che ospiterà Torino, curata e voluta dalla Fondazione Torino Musei, è prevista in ottobre dal titolo ”Liberty, Torino capitale”, una nutrita rassegna su architettura e arte ai tempi della Belle Epoque, ospitata a Palazzo Madama, Museo Civico D’arte Antica, dal 26 ottobre prossimo fino al 10 giugno 2024

Promossa da Palazzo Madama e dalla SIAT, Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino con la collaborazione di Mondomostre, l’esposizione narra attraverso un centinaio di opere il ruolo fondamentale di una città come Torino per l’affermarsi del Liberty, un’arte che nella capitale sabauda divenne il fulcro di una storia capace di travolgere ogni aspetto della vita e della società.

Nel quarantennio della Belle Epoque, nei decenni di fiducia sconfinata nel progresso, un mondo senza più confini trova la sua espressione in un movimento artistico filosofico che con una squisita eleganza connette ogni cosa con linee dolci e sinuose capaci di intrecciarsi in modo armonico. È la nascita di uno stile che trova in Torino la sua capitale e nel parco del Valentino la propria cassa di risonanza, rendendolo protagonista dei nuovi valori della nazione e del progresso, oltre che cornice ideale per mettere in mostra la produzione italiana in campo artigianale, artistico, industriale e agricolo.

Di questa stagione assai feconda nel superamento del naturalismo in nome di un simbolismo decorativo, la mostra a Palazzo Madama rende conto con grandi sezioni strutturate della metamorfosi, parola chiave nel processo di cambiamento e di passaggio tra Ottocento e Novecento, che è stato un grande processo di trasformazione e metamorfosi estetica, sociale e geopolitica.

L’allestimento offre una prospettiva inedita sulle manifestazioni estetiche del Liberty in quanto i visitatori avranno l’opportunità di comprendere i meccanismi di creazione architettonica e estetica, percependo il processo creativo di opere che spaziano dall’architettura al design d’interni, dalle sculture ai lavori grafici alle decorazioni, agli oggetti d’uso, ai testi letterari, dalla poesia alla musica.

Tutti questi lavori sono contraddistinti dalla linea strutturale della natura, generatrice eterna di forme.

La mostra sarà accompagnata da un ricco programma di eventi dal titolo “Libertyamo”, che coinvolgerà i cittadini invitandoli a riscoprire le radici e le eccezionalità del contesto architettonico contemporaneo.

 

Liberty Torino Capitale

Palazzo Madama.

Museo Civico d’Arte Antica. Sala del Senato.

Piazza Castello. Torino.

 

Mara Martellotta

I 104 anni della pioniera della Tv

Venerdì 6 ottobre, ne ha compiuti ben 104 di anni, Alda “Dada” Grimaldi, la pioniera assoluta della televisione italiana e prima donna regista della Rai! Classe 1919, nata a Sampierdarena (Genova) ma da sempre a Torino ha firmato numerosissimi programmi che hanno lasciato il segno, uno fra tutti, “Giovanna, la nonna del Corsaro nero”, ovvero ” la nonna-sprint più forte di un bicchiere di gin” interpretata da Anna Campori, un vero cult della tv per i più piccini ed i ragazzi degli anni ’60. “Dada”, fu il regista Giuseppe De Santis, quello di “Riso amaro” e tanti altri capolavori del cinema italiano, ad affibbiarle questo vezzeggiativo, inizia a recitare nel 1937 a teatro, poi ottiene una borsa di studio per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, e subito arrivano delle piccole particine in alcuni film come “Maddalena… zero in condotta” per la regia di Vittorio De Sica. Dopo aver firmato un contratto per fare un film con Luigi Zampa viene subito chiamata da Sergio Pugliese, il primo direttore della Rai allora in via Arsenale a Torino, per fare la televisione! Pugliese scioglie il contratto cinematografico senza penali per farla partecipare attivamente alle prime trasmissioni sperimentali. Inizia come annunciatrice, poi diventa regista, la prima, grazie anche a quello che aveva imparato al Csc in un momento d’oro: quando fare la tv era come fare il cinema. Amica inseparabile di Cesare Pavese e Raf Vallone, si sposa con il medico torinese Giovanni Rubino, lavora in televisione con Umberto Eco e Furio Colombo, realizza le prime trasmissioni a colori ed è sua la regia del primo spettacolo con gli attori del Bagaglino. In una delle sue ultime interviste rilasciata a “Sorrisi e canzoni” alla domanda su cosa dovrebbe fare oggi una ragazza per avere successo nel mondo dello spettacolo o della comunicazione ha risposto che bisogna avere costanza, umiltà e curiosità e “di leggere il più possibile: giornali, libri, fumetti ed ascoltare tanto, perché tutti hanno qualcosa da insegnare” Buon compleanno, carissima “Dada”, la ragazza che accese la tv italiana.              Igino Macagno

Così il Caval ‘d brons rimase senza fontane

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Il re, dopo aver scartato un primo progetto nel quale Emanuele Filiberto a cavallo scavalca una palizzata, approvò, invece, un bozzetto di un ritratto equestre del Duca poggiante su un basamento, arricchito da quattro figure allegoriche sotto le quali trovavano posto quattro grandi vasche per altrettante fontane

 

Situata al centro della piazza, la statua in bronzo (detta Caval ‘ d brons) raffigura il Duca Emanuele Filiberto a cavallo, nell’atto di rinfoderare la spada dopo la battaglia di San Quintino (1557). Il basamento in granito è ornato su ogni lato dallo stemma sabaudo con la corona ducale e da due bassorilievi in bronzo che rappresentano il Duca mentre fa prigioniero il Montmorency, Gran Connestabile di Francia, e mentre legge i preliminari di pace per il trattato di Cateau-Cambrésis. L’annuncio ufficiale della realizzazione del monumento dedicato a Emanuele Filiberto di Savoia fu dato il 17 dicembre 1831 dalla Gazzetta PiemonteseL’opera venne commissionata da Carlo Alberto all’artista Carlo Marocchetti (stesso autore del monumento dedicato a Carlo Alberto), torinese di nascita ma formatosi in Francia dove risiedeva abitualmente. Il re, dopo aver scartato un primo progetto nel quale Emanuele Filiberto a cavallo scavalca una palizzata, approvò, invece, un bozzetto di un ritratto equestre del Duca poggiante su un basamento, arricchito da quattro figure allegoriche sotto le quali trovavano posto quattro grandi vasche per altrettante fontane. Prima di dare esecuzione al progetto lo scultore Carlo Marocchetti decise di erigere “un non intiero simulacro del monumento al centro della magnifica piazza”; una curiosa prova generale a cui assistette con grande soddisfazione anche “Sua Maestà con un corteggio di autorità”. Ma, pochi mesi dopo la simulazione in piazza, cominciò a circolare a Torino un opuscolo con “Osservazioni relative al Gran monumento” che condannò quasi per intero l’opera. La critica sortì il suo effetto e così un decreto del 24 settembre 1833, stabilì i fondi di L. 210.000 per una “statua equestre in bronzo, collocata sopra un piedistallo circondato da quattro statue allegoriche, il tutto in marmo”; scomparirono definitivamente le fontane. Nonostante le modifiche all’impianto monumentale le polemiche non si placarono, in particolare il critico francese Jean-Paul Ducros rimproverava che le quattro statue agli angoli del basamento apparivano “troppo simmetriche per essere considerate ornamenti architettonici”. 

Dopo innumerevoli contrasti tra Ducros e Marocchetti, la questione si concluse con l’approvazione, da parte dell’Accademia delle Belle Arti, del disegno originariamente concepito dallo scultore. Finalmente, dopo essere stato esposto per due mesi e con grande successo nel cortile del Louvre, il 4 novembre 1838 il monumento venne solennemente inaugurato. Carlo Alberto fu pienamente soddisfatto del monumento ed il Marocchetti ebbe il titolo di barone con in dono un gioiello di gran valore mentre, il fonditore Soyer, ricevette una medaglia d’oro con l’effigie del re. Un’opera, questa, considerata oltre che il capolavoro del Marocchetti, anche uno dei più significativi esempi di politica culturale di Carlo Alberto che, per celebrare l’avvento del suo regno, decise di erigere il primo monumento pubblico all’aperto dedicandolo al Duca Emanuele Filiberto. Dopo due rimozioni, nel 1943 per proteggerlo dai bombardamenti e nel 1979 per restaurarlo, nel 2006 sono inziati i lavori per un accurato restauro e nell’ottobre 2007, tolto il drappo rosso che lo copriva, i cittadini, che attendevano numerosi in piazza San Carlo, hanno potuto finalmente rivederlo. Il monumento, identificato con l’affettuoso nomignolo di “Caval ‘ d brons”, è ormai riconosciuto come uno dei simboli della città di Torino. Ma per poter conoscere il monumento equestre nella sua totalità bisogna anche tenere conto e “spendere qualche parola” per la magnifica piazza che lo ospita. Come ricordato prima, l’opera di Marocchetti a Emanuele Filiberto di Savoia, sorge nel mezzo della centralissima piazza San Carlo, uno spazio progettato da Carlo Castellamonte nel 1637 su un sito occupato prima dall’anfiteatro romano, poi da un tratto delle mura e della spianata della città cinquecentesca. La realizzazione si concluse nel 1650 e divenne il punto nodale del primo ampliamento meridionale della città seicentesca; divenne anche sede di spettacoli grandiosi, manifestazioni ufficiali e parate e la sua prima denominazione fu Place Royale. La realizzazione della piazza, impostata sull’asse della Contrada Nuova (oggi via Roma), rese necessaria prima la demolizione delle vecchie strutture fortificate, ed in seguito la delimitazione del contorno da un sistema di palazzi barocchi porticati, caratterizzati da eleganti facciate unitarie e continue.Per chiudere il lato meridionale vennero progettati i due lotti gemelli, donati, poi in seguito, ad ordini religiosi di stretta protezione ducale: gli Agostiniani Scalzi che fondarono la chiesa e il convento di S. Carlo Borromeo e le Carmelitane Scalze che costruirono la chiesa e il convento di Santa Cristina. Nel corso del tempo, a causa dei progressivi frazionamenti delle proprietà e dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, gli edifici originari sono in gran parte andati distrutti e sono stati ricostruiti nel dopoguerra.Fino al 2004, la piazza è stata percorribile dal traffico veicolare e occupata in prevalenza dalle auto in sosta. Con gli interventi di riqualificazione dell’area centrale storica, è stato restituito a piazza San Carlo il suo ruolo da protagonista nello straordinario scenario della Torino Barocca. Il progetto di riqualificazione ha riportato la piazza al suo originario uso esclusivamente pedonale, mantenendo nella pavimentazione il disegno e i materiali esistenti in precedenza. Sperando che questo “tuffo nel passato per conoscere il presente” sia stato di vostro gradimento, Il Torinese vi da appuntamento alla prossima settimana alla scoperta di un’altra meraviglia di Torino.

Simona Pili Stella

(Foto: il Torinese)

Il luogo più gozzaniano di Agliè

Una bisavola della nostra nonna materna era sorella maggiore di quello paterno di Guido Gozzano. A partire dal 1965 e poi dal 1976 e in ultimo quasi ininterrottamente dal 1986, ho approfondito la storia di quegli antenati e parenti. Nel XV Secolo, un esponente dei Gedda (gruppo famigliare scandinavo originario del Gotland),che doveva aver combattuto i Tuchini con le compagnie di ventura, cessati i conflitti, fissò la sua dimora in Val Chiusella, e,tra i suoi discendenti, noi dividiamo con i Gozzano quegli antenatiche, nel corso del XVII Secolo, si spostarono ad Agliè, fissandovila loro dimora.

Da sempre Agliè mi è famigliare, e tanti dei cambiamenti che ha subito nel corso del tempo mi sono noti e facili da rilevare perché spesso li ho documentati avvalendomi anche di scritti e immagini, inoltre, giovandomi della formazione di architetto, mi sono soffermato sui cosiddetti luoghi “gozzaniani” cosicché, mentre sto liquidando per le stampe le diverse pagine sull’argomento, passo ad anticiparvi alcune notizie inedite.

Argomento di questo scritto sarà il Chiosco del Meletto Meletto, si badi, e non Meleto, perché proprio così il toponimo era scritto nei tempi più antichi, e anche Chiosco, e non Chalet, poiché questo sostantivo definisce correttamente quella tipologia architettonica da giardino. Il Chiosco, insieme all’ambiente naturale che lo circondava (isola, laghetto, ponte e bosco di piante esotiche), fu realizzato nel 1866 dal (più volte deputato al Parlamento Subalpino) comm. Massimo Secondo Mautino.All’epoca Diodata, la sua figlia minore e futura madre di GuidoGozzano, era una bambina di 9 anni, la sorellastra di lei, Ida Galletti, era morta da due anni, e i suoi due figli: Elvira e Arturo, avevano rispettivamente 11 e 9 anni.

Definendo quello il luogo gozzaniano per antonomasia, non intendo negare l’esistenza di quegli altri che in qualche modo possano evocare la presenza di Gozzano ad Agliè, sostengo peròche questo, in assoluto, è il più emblematico, perché, voluto dal nonno materno che non solo amava la poesia (come provano le opere della sua biblioteca) ma, in gioventù, ne scrisse anche di sue e le pubblicò su certi fogli ebdomadari e, per oltre cinquant’anni, fu frequentato dalla seconda figlia – che pure scrisse poesie e che, più del figlio Guido, ritornò spesso e pure dal nipote Arturoil quale, nato pochi mesi prima di lei,proprio a quell’ambiente accennava in una composizione poetica per il matrimonio della zia con il futuro padre del Poeta. Perquesto, il Chiosco del Meletto, era davvero un luogo di forti richiami poetici. Di significativa importanza lo fu poi anche per Guido Gozzano, che vi andava volentieri (come attesta la foto in cui è ritratto in piedi con la madre, la sorella Erina, il marito di lei,avvocato Giordano, e la loro figlia ragazzina), perché, come gli altri famigliari, riceveva un benefico influsso da quell’ambiente.

Fissati i riferimenti temporali e ricordati fatti, interpreti e motivazioni, sarà facile capire come, nel corso degli anni, quello spazio abbia avuto per i ragazzi il ruolo di ambiente di sogno, e, per le ragazze, forse sia stato anche qualcosa di più della casa delle fate (o delle bambole). La costruzione – tutta in legno – era posta su un isolotto al quale si accedeva da un ponticello (sul quale è bello rivedere Guido insieme alla sua mamma, nella foto ingiallita che il tempo ci ha tramandato) o dalla barca (l’unica che stazionasse sempre là), e il luogo, già ben dotato dalla natura che lo circondava, era arricchito dalle piante che il nonno deputato aveva voluto che crescessero tutto intorno al laghetto, in un’epoca in cui il parco del Castello di Agliè contava ancora diversi giardinieri in pianta stabile. I tre ragazzi ebbero là un luogo ideale di confronto in cui potevano ritrovarsi per parlareconfidenzialmente tra loro, mentre divenivano grandi.

Ciò detto, possiamo smontare l’affermazione di due studiosi della letteratura italiana (De Rienzo – che, codicendo, finisce per meritarsi lui quel titolo di “bugiardo” che troppo facilmente ha appioppato a Guido e Sanguineti – che sembra ignorare del tuttoi legami (di sangue e di affetto) che Gozzano aveva con la Liguria infatti entrambi, muovendosi in un contesto a loro ignoto, senzaconoscere la storia (che io vi ho raccontato), accusano Guido di un lapsus perché, in un foglio indirizzato a Amalia Guglielminetti, aveva scritto: «in questo casolare campestre (la cascina del Meletto, che era dei Mautino già nel XVIII Secolo), in riva di questo laghetto boschivo che ha visto l’infanzia di mia madre». Smentita che baso esclusivamente sulla relazione peritale di un geometra, che, nel 1938, su quei luoghi ebbe a scrivere, sentitaDiodata Mautino, la vedova ultra ottuagenaria dell’ingegner Gozzano, che a viva voce gli aveva fornito le testimonianzepreziose che io utilizzo. (Ma i letterati, forse, non considerano letteratura le relazioni tecniche, e allora chissà cosa avrebbero a ridire su Franz Kafka, ché le sue pagine di perizie trovano spazio tra i suoi scritti letterari?)

Ora, ritornando al chiosco e all’incantevole ambiente cheMassimo Mautino volle dare alla figlia e ai due nipoti quasi aconfortarli perché tutti ancora giovani erano rimasti privi dellamadre, ricorderò che quella costruzione, la cui esistenza qualche fotografia in bianco e nero attesta ancora negli anni Ottanta del Novecento, non ebbe affatto una vita breve e, giacché ebbe bisogno di tempo perché, senza aver mai conosciuto una manutenzione, si sancisse la sua fine (accettandone la demolizione o constatandone il crollo). Anche le piante di quel piccolo orto botanico conobbero soltanto il taglio di chi, negli anni, se ne servìper bisogno di legna da ardere: tutto era facile, libero l’accesso,senza recinzioni né barriere, si poteva prendere, manomettere edistruggere a volontà! Oggi che da vedere non rimane altro che le verdi canne che crescono rigogliose nell’acqua e i rifiuti abbandonati sullo spiazzo, il rustico cartello di legno che abbiamo fotografato segnala il luogo (ma quale?) con le parole di Guido(ma quali?). Lassenza di quell’ambiente si fa avverte, non solocome una perdita sentimentale, ma come grave danno per la storia dell’architettura stessa. Sappiamo infatti che il commendator Mautino (il cui padre, morto prima chegli venisse al mondo, era un misuratore diplomato all’ateneo torinese dove aspirava anche il titolo di architetto) era egli stesso in buoni rapporti con diversi professionisti anche tra i coetanei del padre. Uno per tutti, Ignazio Michela, al quale in una lettera egli accennava di aver visto il Crystal Palace durante un soggiorno a Londra. E poiché le costruzioni da giardino godevano nel Regno Unito di attenzioni particolari, non è possibile che Massimo Mautino non affidasse quel progetto per il suo a un architetto importante, magari a un giovane che gli era stato segnalato. Purtroppo però, quella costruzione non c’è più: avrebbe documentato, ad Agliè,l’intervento di un progettista attivo tra noi a metà Ottocentocertamente la tipologia del chiosco in legno (ma dall’interno tappezzato in stoffa e arredato con mobili rustici progettati su misura) per i più, ad Agliè, non era che una baracca di legnoma questo non giustifica affatto, anche se le motiva, incuria e trascuratezza ai danni di una tecnologia che, in uso in tante parti del mondo, qui si lasciò sparire nel nulla, perché “era una baracca ma stava in piedi da cento e vent’anni almeno!!!

Probabilmente mi si accuserà di essere ingiusto per considerare il chiosco “più importantedegli altri luoghi, che, ad Agliè, si dicono gozzaniani, diallora che, a cent’anni dalla morte di Guido, nel 2016, la realtà fisica della maggior parte di essi era del tutto compromessa e che quelle costruzioni, stravolte e malridottecome sono, oggi rimangono solo per testimoniare i più indegni interventi edilizi che, negli ultimi cento anni, il nostro Paese (qui sta per Nazione) ha sofferto.

Chiudo questa pagina con un’immagine di serenità, una fotografia, che in amicizia (credendo negli studi che porto avanti ormai da tanti anni sui nostri antenati e parenti) mi ha passato Valentina Sapio, la discendente diretta di Erina Gozzano, la sorella di Guido. In essa Diodata e Guido sono le figure dominanti che compaiono sfocate in una dimensione quasi trascendentale.

Il contesto è indefinito e non si riesce proprio a localizzalo, ma questo permette di affermare che per ogni uomo, per un Poeta soprattutto, ogni ambiente è carico di valori, e allora, se è vero che, come si legge ad Agliè in un’iscrizione funebre di San Gaudenzio, “la sua poesia è dappertutto”, si deve fare molto ancora perché la Poesia abbia un suo ruolo nella Storia, che è poi l’intento che per tanti anni ha mosso i miei studi su Guido Gozzano e i suoi.

Carlo Alfonso Maria Burdet

Profilo letterario. Ana Andreu Baquero

La biografia romanzata su Mafalda di Savoia dal titolo ‘La princesa de Buchenwald’ pubblicato in Spagna dalla editrice Maria Josè de Jaime rappresenta il debutto letterario di Ana Andreu Baquero. Mafalda principessa d’Italia, d’Etiopia e di Albania, secondogenita del re Vittorio Emanuele III° e della regina Elena del Montenegro, passò dagli sfarzosi palazzi al campo di concentramento. Si era recata a Sofia per assistere il cognato Boris III° re di Bulgaria ormai in fin di vita, marito della sorella Giovanna. Nonostante fosse stata informata dalla regina Elena di Romania del disarmo delle truppe italiane dopo il giorno 8-9-1943, rientrò a Roma sicura che i tedeschi l’avrebbero rispettata. Anche se era cittadina tedesca fu subito arrestata, trasferita a Berlino e deportata nel lager di Buchenwald, mentre il marito ufficiale delle S.S. principe Filippo d’Assia era già stato internato per tradimento.

 Ana Andreu si è recata a Gaeta per intervistare l’ultimo sopravvissuto dei sette marinai della Regia Marina Italiana che presero parte alla ricerca di Mafalda dopo il 1945. Nel registro di un piccolo cimitero tedesco trovarono una persona descritta come ‘unbekannte frau’ (donna sconosciuta). Il nome di Mafalda era inciso sul paletto della tomba numerato 262. Dopo la pubblicazione avvenuta nel marzo 2023, Ana Andreu inviò il suo libro al re Simeone II° di Bulgaria, primo ministro dal 2001 al 2005, figlio di Boris III° e nipote di Mafalda di Savoia. L’incontro tra Ana Andreu Baquero e  il re Simeone II° è avvenuto a Madrid il giorno 26-9-2023, mentre il suo libro è stato presentato il giorno dopo a Madrid in Calle Serrano nella libreria Troa Neblí.
Armano Luigi Gozzano

Le “Carte salvate” all’Archivio di Stato

Documenti antichi e più recenti, lettere, libri, fotografie, manufatti e disegni di grande importanza storica. Rubati, dispersi, venduti illegalmente sul mercato nero e poi ritrovati dai carabinieri e restituiti al patrimonio culturale nazionale. Ora sono esposti al pubblico e dietro ad ogni pezzo c’è una storia tutta da leggere.
Alcune di queste testimonianze, una sessantina, sono presentate nella mostra “Le carte salvate” allestita all’Archivio di Stato in via Piave 21 a Torino, fino al 20 ottobre. L’esposizione prende in esame un arco di tempo che spazia dal Cinquecento alla Seconda Guerra Mondiale. Tra i pezzi messi in vetrina spiccano la lettera scritta nel 1534 dall’imperatore d’Asburgo Carlo V e inviata al cardinale Marino Caracciolo, governatore dello Stato di Milano, relativa alla successione del marchesato di Saluzzo e volta a dirimere una controversia tra le parti e la lettera del re di Francia Luigi XIV scritta nel 1666 in cui parla della nascita di Vittorio Amedeo, figlio di Carlo Emanuele II di Savoia e di Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours.
Spicca anche la lettera (1517) di Enrico VIII, re di Inghilterra, al doge di Genova in cui il sovrano inglese chiede un risarcimento per un atto di pirateria compiuto dal capitano genovese Paolo Giustiniani ai danni di una nave inglese al largo della Cornovaglia. Accanto a questi antichi documenti si possono vedere alcuni personaggi di Casa Savoia come un ritratto a matita di Vittorio Emanuele II dell’Ottocento, non firmato ma attribuito a un ufficiale, e un bozzetto per il costume di Don Carlo nell’“Ernani” di Giuseppe Verdi per la stagione 1958-59 del Teatro alla Scala.
Un settore della mostra è dedicato ai libri di argomento esoterico, magico e satanista con le carte dei processi contro streghe e stregoni mentre nella parte dedicata al Novecento c’è la commovente lettera del partigiano Remo alla famiglia. In carcere da undici giorni invia clandestinamente, su fogli di carta di recupero, notizie ai genitori allegando un disegno del cortile del carcere.
La mostra, che ospita beni culturali recentemente recuperati dai carabinieri, è organizzata dalla Soprintendenza archivistica e bibliografica del Piemonte e della Valle d’Aosta e dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. È aperta da lunedì a venerdì 9-14, mercoledì 9-13 e 14-18, fino al 20 ottobre con ingresso libero. La rassegna è anche un’occasione per visitare l’Archivio di Stato che conserva oltre 80 chilometri di documenti databili dall’VIII secolo ai giorni nostri.                  Filippo Re 
nelle foto:
Mostra “Le carte salvate”, locandina
Lettera dell’imperatore Carlo V
Lettera di Enrico VIII al doge di Genova
Bozzetto per il costume di Don Carlo

Ricchezze e stupori di fronte ai pranzi dei “Sovrani a tavola”

La mostra aperta sino al 28 gennaio 2024

Il 2023 scelto nelle mostre della Reggia di Venaria come l’anno del cibo: il compimento con una grande, affascinante quanto sontuosa mostra, distribuita in 14 sale, che ha aperto ieri per concludersi il 28 gennaio prossimo, “Sovrani a tavola. Pranzi imbanditi nelle corti italiane”. Una mostra fortemente voluta da Guido Curto, Direttore generale del Consorzio delle Residenze Reali Sabaude e affidata alla conoscenza e alla cura di Andrea Merlotti con la collaborazione di Silvia Ghisotti e Clara Goria, nell’elegante allestimento di Lorenzo Greppi. Duecento (ma il numero si amplia se andiamo a conteggiare quanto di meraviglie è posato sulle tavole imbandite) tra dipinti, arredi da tavola, splendidi servizi di porcellana e d’argento provenienti dalle varie corti italiane – una collaborazione preziosa alla mostra e un viaggio che si snoda tra Capodimonte e Caserta, tra il Quirinale e il Palazzo Reale di Milano, tra Palazzo Pitti e il Palazzo Reale di Napoli sino a quelli di Torino e Firenze: tacendo dei molti prestiti da collezioni privale e musei italiani ed esteri -, un racconto particolareggiato che parte tra il Cinque e il Seicento per giungere sino ai pranzi del Quirinale sabaudo. Che è qui, oggi e per i mesi futuri, tra le mura del Castellamonte, l’ultimo ospite del racconto, pieno di fascino e di stupore per il visitatore, come gran finale della mostra, quasi il suo fiore all’occhiello, “fotografando” e appropriandosi dello sfarzo del Salone delle Feste del palazzo che fu dei papi, lo stesso dove il Presidente della Repubblica ospita i tanti Capi di stato in visita per i pranzi di gala. Il lungo tavolo, tra lampadari sospesi e tele e arazzi, suddiviso in tre parti con altrettanti servizi per dare vita alla “mise en place”, derivati dal gusto della principessa Margherita, dal 1878 prima regina d’Italia, e legati ai canoni d’eleganza settecenteschi. Con la predilezione per la porcellana di area germanica, Meissen in primo luogo, qui rappresentata dal servizio a “Fiori blu con corona reale e dorature” per il pranzo e il servizio “a medaglioni con rilievi Dulong”, cui si ispira l’elegante “Medaglioni” della Richard Ginori per la tavola presidenziale.

Momenti che esprimono fascino e curiosità quelli dei pranzi dei sovrani sebbene raramente trattati dagli artisti. Di qui la grande ricerca dei curatori, per portare alla luce le occasioni pubbliche come quelle private delle teste coronate, non trascurando le rappresentazioni simboliche, le allegorie che racchiudono momenti e personaggi lontani nel tempo: in mostra, di anonimo fiammingo del finire del XVI secolo, “Il pranzo degli Asburgo”, proveniente da Varsavia, ovvero tre generazioni d’Asburgo, succedutesi sul trono delle Fiandre tra il ‘500 e il ‘600, Carlo V e Filippo II al centro della scena, a servirli i governatori di quei paesi, con un probabile Emanuele Filiberto ossequioso nei confronti del potente imperatore. Tra il pubblico (per i numerosi ospiti ammessi) e il privato altalena il “Banchetto offerto da Clemente IX a Cristina di Svezia il 9 dicembre 1668”, tramandatoci in grafica da Pierre-Paul Sevin, dove il pontefice occupa, davanti a una tavola riccamente imbandita, una posizione sopraelevata rispetto a quella della regina, in evidente segno di sudditanza e di rispetto, due silenziosi mondi chiusi in sé, se si pensa, ci dicono le cronache, che soltanto alla fine del pranzo venne offerta una poltrona a Cristina, accanto a Clemente, perché potesse avere con lui qualche attimo di conversazione.

Non ci sono nascosti neppure brani dei vari backstage, come quelle cucine alle spalle del settecentesco doge di Venezia Alvise Pisani o quello che può essere inteso come una studiatissima coreografia quel “Convito nuziale di Elisabetta Farnese” tramandatoci dallo Spolverini: un banchetto organizzato a Parma in occasione delle nozze di Filippo V con Elisabetta nel 1714, la sposa e la madre sotto un ampio baldacchino, in primo piano un gruppo di paggi sgambettanti in livrea rossa, rigorosamente tutti di rango nobiliare, che, dopo aver ricevuto le varie pietanze dalle cucine, le porta su grandi piatti d’argento ai gentiluomini di bocca, in uniforme scura, dai quali arriveranno, passando da mani a mani, alle commensali, ogni cosa sotto lo sguardo e il chiacchiericcio delle dame e dei gentiluomini della corte. Un rito, fatto di preparativi e vivande e uomini (assai relativo lo spazio lasciato alle donne, impiegate in mansioni ben umili, per cui raro ne è l’incrocio: per cui godetevi “La cuoca” di Bernardo Strozzi, nell’atto di preparare un tacchino, mentre già un pentolone scalda sul fuoco e un’anfora d’argento, segno di ricchezza del committente, fa bella mostra di sé in primissimo piano; proveniente dai Musei genovesi), uomini che potevano divenire vere e proprie celebrità, come quel Leonardo Gamucci, responsabile dell’approvvigionamento alimentare della corte fiorentina, immortalato da Giusto Suttermans o il nano Morgante, alias Braccio di Bartolo, intento a porgere la coppa di vino a Cristina di Lorena nella tela di Domenico Cresti detto il Passignano, proveniente da Vienna.

Da non perdere nelle sale successive, le delizie dei re, come “I fichi” e “I datteri” e il “Tartufo”

(usato tra le corti come doni, in special modo quella sabauda), tele commissionate dal granduca Cosimo III a Bartolomeo Bimbi per il suo casino della Topaia; e le immagini delle bevande esotiche, il caffè, la cioccolata e il tè, frutto degli ampi commerci della Compagnia delle Indie che hanno il potere, tra l’altro, di dare il via ai tanti servizi in pregiata porcellana, magari con i decori cinesi e giapponesi che verranno in seguito imitati dalle manifatture europee. Gioiello di queste sale “Un tè a Evian”, opera di Ludwig Guttenbrunn del 1787, proprietà di una nobildonna inglese che l’ha volentieri ceduta per la mostra e quindi esposta per la prima volta al pubblico: il quadro a olio, di non rilevanti dimensioni (43,2 x 57,8 cm), racconta il rito pomeridiano del tè all’interno della sala di una residenza nobiliare sul lago di Ginevra. Carlo Emanuele, principe di Piemonte, e la consorte Maria Clotilde di Borbone sono ospiti di due dame inglesi: un momento assai privato in cui il sovrano non disdegna di servire amabilmente la bevanda alla sua dolce metà.

Ancora carrellate su piatti e posate raffinatissime, servizi da dessert che hanno radici in Sèvres o in Meissen, coppe dai più delicati colori, tazzine e “rinfrescatoi da gelato”, la “marronière” che richiama un piccolo cesto di vimini vanno ad abbellire le tavole reali, in un susseguirsi di pezzi preziosi sempre più ricercati. Quando il “popolino” conquisterà la libertà di stampa, ci sarà anche posto per le caricature (attardatevi nella sala 10) e il pranzo delle loro maestà fu il momento più ironizzato, sovrani che inghiottono poveracci o tagliano il mondo come più loro fa comodo. Con il passare del tempo “L’illustrazione italiana” o “La domenica del Corriere” avrebbero immortalato le cene di gala con sempre maggiori particolari. Non vanno persi i vari menu che su carte preziose accompagnavano l’impazienza e il gusto degli ospiti: in un cartoncino del marzo 1911, accanto ai sette brani che delizieranno le divine orecchie, Léhar Verdi e Puccini in primis, andiamo a leggere che i “pollastri alla Montebello” saranno accompagnati dal Barbaresca Manissero e che gli “sparagi con salsa maltese” verranno gustati con il Grande Spumante Cinzano. Altri tempi.

Elio Rabbione

Nelle immagini, Pittore Fiammingo, “Il pranzo degli Asburgo”, 1599 circa, olio su tela, Varsavia, Muzeum Narodowe; Ilario Giacinto Mercanti detto lo Spolverini (Parma 1657 – Piacenza 1734), “Convito nuziale di Elisabetta Farnese”, 1717 – 1721 circa, olio su tela, Parma, Collezioni d’Arte del Comune; Ludwig Guttenbrunn (1750-1819), “Un tè a Evian”, 1787, olio su tavola, collezione privata; il Salone delle Feste al Quirinale.

Antiche immagini a Muriaglio per ricordare

 FRAZIONE DI CASTELLAMONTE (To) 30 SETTEMBRE

Sabato 30 settembre, a partire dalle 16, la Società di Mutuo Soccorso Agricola Operaia della frazione Muriaglio di Castellamonte (To), in collaborazione con l’Associazione di Promozione Sociale Tacabanda, propone un pomeriggio alla riscoperta della storia del borgo attraverso antiche immagini.

Muriaglio ieri e oggi” è una vera e propria passeggiata tra presente e passato del piccolo borgo che si snoda attraverso tutte le vie del concentrico. Un viaggio in un tempo fatto di piccole gioie e genuini momenti di aggregazione. Le immagini d’epoca sono state poste lungo strada per Castellamonte, strada per Campo, via Principale, piazza Fontana, via Rua e via Micheletto. Si tratta di finestre sulla memoria, poste nello stesso luogo a distanza di decenni. Volti di persone ormai scomparse, immagini gioiose di feste private o pubbliche, Carnevali , scolaresche, gruppi festanti di musici o coscritti. Ricordi di un tempo in cui la felicità era fatta di piccole cose. Il progetto, realizzato dalla Società di Mutuo Soccorso Agricola e Operaia, si propone di far riaffiorare le memorie del passato senza tralasciare qualche riflessione sul fluire inesorabile del tempo. Sul susseguirsi delle generazioni e dei diversi stili di vita. Nel cuore della frazione, piazza della Fontana, la Art Gallery “Peter Sategna” rappresenta uno spazio dedicato alla cultura e alla creatività. Tutte le strade del percorso fotografico sono accessibili e comodamente percorribili.

Alle 16, presso il parco dedicato all’indimenticata medico del paese Marina Rovetto, prematuramente scomparsa, avrà inizio la passeggiata con la consegna ufficiale del pannello tattile per l’accessibilità ai luoghi di cultura per non vedenti realizzato dalla Smsao in collaborazione con l’Associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti Odv. Sul pannello un QR CODE permette di visualizzare un video realizzato dal quotidiano online ObiettivoNews che illustra le particolarità del borgo. La grafica del progetto è di Selene Spanò. All’evento è prevista la presenza del presidente Apri Odv Marco Bongi.

Al termine della visita guidata al borgo, Claudio Ballario proporrà un intrattenimento con musiche occitane.

Per chi lo desidera, dalle 18.30, presso il ristorante La Terrazza sul Canavese, si terrà l’apericena con musiche degli anni 50, 60 e 70 proposte da Paolo Molinario (prenotazione obbligatoria entro il 27 settembre al numero 340.5813579).

Per informazioni sulla manifestazione telefonare al numero 340.1225157.

Nell’abitato e sul territorio circostante non mancano i punti di interesse: l’antico mulino settecentesco, la chiesa Parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo, il parco dedicato alla dotteressa Marina Rovetto , la Casa della Musica, nata a inizio Novecento grazie al lavoro e all’impegno di tutta la collettività, la Ca ‘d Marchet, il luogo in cui è possibile vedere le antiche mura da cui trasse origine il paese, e le belle cappelle dei boschi: Sant’Antonio e Santa Croce.

La frazione è nota anche per essere sede dell’Accademia Musicale del Piemonte. Da febbraio a luglio, Melos Musica, che vanta un’esperienza quasi ventennale nel campo formativo musicale di alto livello, propone a Muriaglio corsi intensivi e Masterclass musicali con docenti di fama internazionale. Gli allievi, selezionati tra i vari Conservatori, ricevono una borsa di Studio dalla Peter Sategna Foundation. I corsi di perfezionamento vedono allievi e docenti impegnati un weekend al mese durante l’anno accademico. A luglio studenti e docenti si esibiscono nei concerti finali di “Festival Melos’’: un’occasione unica per permettere ai ragazzi di misurarsi con la realizzazione di un vero e proprio concerto e, dunque, con l’esibizione davanti ad un pubblico. La Smsao sta lavorando a molte iniziative che prenderanno il via nei prossimi mesi ed ha un sogno nel cassetto: poter riaprire il piccolo bar della Società che si trova in piazza e per questo motivo si cercano nuovi gestori…