STORIA- Pagina 42

Gli appuntamenti culturali della Fondazione Torino Musei

7 – 13 luglio 2023

 

VENERDI 7 LUGLIO

 

Venerdì 7 luglio ore 16.30

LUSSO A BISANZIO. FASTI ALLA CORTE D’ORIENTE

Palazzo Madama – visita guidata tematica

L’imperatore di Bisanzio indossava abiti in seta, i cui riflessi e bagliori conferivano alla sua figura e a quella

della sua consorte un’aura divina. Il lusso e la raffinatezza caratterizzavano la corte e l’aristocrazia della capitale: la classe dirigente di Costantinopoli sapeva farsi ammirare.

Nella mostra in corso a Palazzo Madama Bizantini. Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario sono esposti bracciali e anelli, amuleti e pettorali: oggetti di pregio e di fine artigianato, che rivelano quanto il lusso fosse realmente status simbol: come in ogni tempo, come in ogni civiltà antica e moderna.

La visita propone un itinerario “fastoso”, utile per comprendere i diversi aspetti del mondo bizantino.

Costo: 6 € per il percorso guidato + biglietto di ingresso al museo secondo tariffe (gratuito con Abbonamento Musei e Torino Piemonte Card).

Info e prenotazioni: t. 011 5211788 (lun-dom 9-17.30); prenotazioniftm@arteintorino.com

Venerdì 7 luglio ore 17

NON È TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA

MAO – attività per famiglie

L’attività prende avvio dalla visita della nuova mostra Metalli sovrani. Le incisioni e gli sbalzi presenti sui preziosi oggetti esposti provenienti da The Aron Collection saranno lo spunto per l’attività di laboratorio, che prevede la realizzazione di lastrine di rame decorate con la tecnica a sbalzo.

Prenotazione obbligatoria: 011-4436927 – maodidattica@fondazionetorinomusei.it

Costo laboratorio €7 a bambino; adulti ingresso ridotto alle collezioni permanenti.

 

Venerdì 7 luglio ore 19

thefutureisNOW? #4. performance di Silvia Calderoni + Ilenia Caleo dall’azione Zen for Head di Nam June Paik (1962)

MAO – performance

Il MAO è lieto di ospitare venerdì 7 luglio alle ore 19 la performance thefutureisNOW? #4, di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo.

ThefutureisNOW? prende avvio dall’azione Zen for Head di Nam June Paik (1962), durante la quale l’artista immerse i capelli in un secchio di inchiostro di china e procedette a tracciare una linea, spostandosi carponi sul pavimento, lasciando poi l’opera aperta a chiunque volesse riprodurla.

Il reenactment dell’azione performativa di Nam June Paik diventa cerimonia rituale, un gesto interpretato dalle due artiste in forma di scrittura vivente, fatta di liquidi vivi, di bioluminescenza, di corpi-batteri, di bioscritture, di tracce che talvolta, come accade con le sostanze inquinanti, tossiche e corrosive, sono destinate a permanere e a lasciare segni visibili.

Ingresso 5€. Biglietti disponibili presso la biglietteria del museo e su Ticketone.

 

 

LUNEDI 10 LUGLIO

 

Lunedì 10 luglio ore 17

UNA VITA, MOLTE LEGGENDE. TEODORA DI BISANZIO SANTA E DIAVOLESSA

Palazzo Madama – conferenza con Paolo Cesaretti, Università degli Studi di Bergamo

Teodora, la più famosa tra le donne di Bisanzio, visse circa 50 anni, dal 500 al 548, e passò metà della sua vita sul trono al fianco dello sposo Giustiniano (secondo alcune interpretazioni, fu una sua vera e propria “collaboratrice”), lasciando un marchio indelebile sul mondo di allora, sospeso tra Oriente e Occidente oltre che tra Tarda Antichità e Medio Evo. Ma forse ancor più profondo e duraturo è il segno da Teodora impresso negli immaginari collettivi di tante tradizioni culturali diverse e a prima vista incompatibili. Il decadentismo europeo la celebra come archetipo della femme fatale, le tradizioni cristiane ortodossa e monofisitica la elevano nel corso dei secoli all’onore degli altari, mentre la Controriforma cattolica la assimila a una “furia infernale”. Gli stessi scrittori di epoca giustinianea ora la esaltano come “la più intelligente di tutti e di sempre”, ora la denigrano come una “rovina dell’umana stirpe”, e quest’ultimo accento risuona nelle voci di Gibbon e di Voltaire. In anni recenti la cultura femministica fa di Teodora una sua “icona”, mentre il mosaico ravennate che la ritrae con il suo seguito continua a incantare migliaia di visitatori. Sulle ragioni e sugli intrecci di questo caleidoscopio storico-culturale interviene – con il corredo di alcune immagini significative – Paolo Cesaretti, che all’epoca di Teodora e di Giustiniano ha dedicato un’ampia serie di pubblicazioni.

La conferenza fa parte del ciclo, che approfondisce alcuni dei temi presentati nella mostra Bizantini. Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario, visitabile nella Sala del Senato di Palazzo Madama fino al 28 agosto 2023, attraverso 350 opere provenienti da importanti musei italiani e da oltre venti musei greci.

Paolo Cesaretti è professore associato di Civiltà Bizantina presso l’Università di Bergamo. Condirettore scientifico del periodico di cultura greca “Periptero” (Atene), è membro di numerosi comitati scientifici, associazioni e accademie in Italia e all’estero.

Le sue pubblicazioni, molte delle quali apparse o tradotte all’estero, comprendono edizioni critiche, testi di scavo, monografie, traduzioni commentate di testi bizantini (con particolare riferimento all’agiografia e alla storiografia), classici della bizantinistica novecentesca, articoli scientifici, opere di consultazione sul patrimonio linguistico e mitologico classico.

La sua Teodora. Ascesa di una imperatrice (Mondadori, Milano 2001; nuova ed. Bolis, Azzano P. Paolo [BG] 2021) è stata tradotta in otto lingue straniere e gli è valsa il Premo Grinzane Cavour per la saggistica (2002). Ulteriori riconoscimenti e traduzioni hanno avuto due altre opere di narrative non fiction legate a Bisanzio: L’impero perduto (Mondadori, Milano 2006) e Le quattro mogli dell’imperatore (Mondadori, Milano 2015).

Ha maturato una lunga esperienza nel mondo giornalistico e soprattutto editoriale sin dagli anni universitari. Le sue collaborazioni con quotidiani e periodici vertono su temi legati, oltre che alla cultura bizantina e alla persistenza della cultura classica, anche all’attualità politico-culturale.

Ultimo appuntamento

Lunedì 17 luglio, ore 17

Il nostro debito con Bisanzio

Con Mario Gallina, già Professore ordinario di Storia bizantina presso l’Università degli Studi di Torino

 

Ingresso gratuito

Prenotazione consigliata: t. 011.4429629 (dal lun. al ven. 09.30 – 13.00; 14.00 – 16.00) oppure scrivere a madamadidattica@fondazionetorinomusei.it

 

 

GIOVEDI 13 LUGLIO

 

Giovedì 13 luglio

IN CAMMINO. La porta di Torino: itinerari sindonici sulla Via Francigena

13 luglio – 10 ottobre 2023

anteprima stampa mercoledì 12 luglio ore 11

Palazzo Madama – apertura nuova mostra

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica e la Fondazione Carlo Acutis, in collaborazione con la Regione Piemonte, presentano, dal 13 luglio al 10 ottobre 2023, nel contesto del progetto “Via Francigena for all”, la mostra In cammino. La porta di Torino: itinerari sindonici sulla Via Francigena.

L’esposizione rappresenta un’opportunità per narrare il territorio piemontese in quel periodo dell’anno in cui numerosi pellegrini si mettono in cammino lungo la Via Francigena. Concepita nell’ottica della massima accessibilità e inclusione, mette in risalto le centralità storiche e contemporanee di Torino e del Piemonte, casa della Sacra Sindone e accesso principale alla Penisola lungo il pellegrinaggio sulla Via Francigena.

La mostra è strutturata in quattro sezioni, ognuna connessa a un tema specifico. Nella prima sono presentate sedici illustrazioni originali, realizzate da giovani artisti italiani ormai riconosciuti a livello mondiale. Nella seconda tutta una serie di materiali video illustrano la Via Francigena e gli itinerari sindonici; nella terza una grande mappa interattiva, affiancata da fotografie delle decine di sindoni affrescate sulle pareti esterne di edifici collocati lungo i cammini del Piemonte, evidenzia gli itinerari del progetto “Via Francigena for all” e i cammini sindonici. Nella quarta sezione, infine, è esposta un’installazione ideata dall’artista torinese Carlo Gloria sul tema del cammino.

Infowww.palazzomadamatorino.it

Da giovedì 13 luglio

NAPOLEONCENTAURONTANO di Luigi Ontani

GAM – nuova opera in collezione

La GAM è felice di accogliere in comodato nelle proprie collezioni l’opera di Luigi OntaniNapoLeonCentAurOntano, realizzato nel 2003 in occasione di una personale presso il Museo Napoleonico di Roma. È una delle numerose riletture che l’artista ha realizzato sul tema iconografico del centauro, creatura ibrida e metamorfica che Ontani accomuna al Sagittario, suo saturnino segno zodiacale.

Secondo la mitologia classica il centauro è per metà creatura razionale e per metà passionale, carattere ambiguo che ben si sposa alla figura di Napoleone che spronò e tradì, in pari misura, lo spirito dei lumi quanto quello del Romanticismo. E ben si addice all’artista che non disdegna mai di intrecciare l’espressione dell’intelligenza con quella del desiderio in una sua personale forma di arguto slancio d’arte e vita. Così Napoleone, universale misura di ogni possibile mania di grandezza, offre un ironico specchio al narcisismo dell’artista che, una volta di più, presta il proprio volto alla realizzazione della scultura in ceramica policroma, esempio tra i più rilevanti della sua ricreazione. L’ibridolo (idolo + ibrido) sarà esposto nell’atrio del primo piano della GAM e avrà il compito, quanto mai adeguato alla sua natura di napoleonica ed ibrida contemporaneità, di congiungere idealmente il percorso delle collezioni del ‘900 con lo spazio dedicato alle esposizioni “Ottocento”, attualmente in corso, e “Hayez”, in programma per ottobre.

Didascalia dell’opera:

Luigi OntaniNapoLeonCentAurOntano, 2003

ceramica policroma, oro zecchino, Bottega Gatti, Faenza

Courtesy l’artista, in comodato presso la GAM

Info: https://www.gamtorino.it/it/evento/napoleoncentaurontano-di-luigi-ontani/

 

Theatrum Sabaudiae propone visite guidate in museo

alle collezioni e alle mostre di Palazzo Madama, GAM e MAO.

Per informazioni e prenotazioni: 011.52.11.788 – prenotazioniftm@arteintorino.com

 

https://www.arteintorino.com/visite-guidate/gam.html

https://www.arteintorino.com/visite-guidate/mao.html

https://www.arteintorino.com/visite-guidate/palazzo-madama.html

Gina Lombroso: quando le donne fanno scienza

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Torino e le sue donne

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce. 

Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, Emmeline Pankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan. Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.  (ac)

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2. Gina Lombroso: quando le donne fanno scienza

Nell’articolo precedente ho voluto ripercorrere, per sommi capi, la storia delle “Venusiane”, (se vogliamo seguire la leggenda secondo cui le donne vengono dal pianeta “Venere” e gli uomini da “Marte”), e sottolineare le numerose battaglie e inauditi sforzi che esse hanno coraggiosamente affrontato in passato e che continuano a fronteggiare a testa alta nell’eterna sfida della vita quotidiana. Moltissime sono state le protagoniste femminili che hanno dato il loro contributo rivoluzionario per modificare il mondo negli ambiti più svariati, dalla politica alla cultura, dalla letteratura alla scienza.  Anche Torino ha avuto le sue paladine coraggiose, le quali hanno lasciato una forte impronta nel tempo, si pensi, ad esempio, a quanto hanno contribuito le Madame Reali per lo sviluppo delle arti e la magnificenza della città, promuovendo costruzioni di chiese, palazzi e residenze. In tempi più recenti le donne torinesi si sono messe in luce anche per il loro intelletto, infatti proprio di Torino era Maria Fernè Veledda, seconda donna laureata del Regno d’Italia in Medicina, nel 1878, e, sempre torinese, è stata la brillante Rita Levi Montalcini, nota per le scoperte nel campo delle neuroscienze, ma che ci ha lasciato anche pensieri profondi e illuminanti sulla condizione femminile, su cui, forse, dovremmo soffermarci a meditare ogni tanto. Un’ultima considerazione in chiave poetico-esoterica sulla nostra città, da sempre divisa in due, in cui alla sfera maschile rappresentata dal Po, ha sempre fatto da contraltare una lunare sfera femminile, silenziosa ma non meno importante, rappresentata dalla Dora. Non a caso a Torino è una delle poche città in cui sorge una chiesa specificatamente dedicata alla Grande Madre: ognuno ne tragga le proprie conclusioni. Le vicende sono molte e bisogna pur scegliere e da qualche parte iniziare. Con piacere mi accingo a raccontare la storia di alcune donne torinesi, con l’intento che le loro vicende possano ispirare la nascita di altre storie. 
Gina Lombroso nasce a Pavia nel 1872 da Nina De Benedetti e Cesare Lombroso. La famiglia appartiene ad una alta e colta borghesia legata alle tradizioni ebraiche, in cui è centrale la figura del padre, Cesare, celebre antropologo, sociologo e filosofo, padre della moderna Criminologia. Già da adolescente Gina partecipa al lavoro scientifico del padre in veste di segretaria e collaboratrice, seguendo la corrispondenza e affiancandolo nel lavoro redazionale della celebre rivista l’“Archivio di psichiatria”, fondata nel 1880. Fondamentale per la crescita di Gina è la figura di Anna Kuliscioff, ospite frequente del salotto di casa Lombroso. E’ grazie all’influenza di Anna che Gina si avvicina agli ideali socialisti, che si concretizzeranno poi in alcuni studi svolti insieme alla sorella Paola, su temi quali la condizione di vita degli operai, il problema dell’analfabetismo e gli scioperi. Sempre nello stesso periodo Gina collabora alle riviste “Critica sociale” e “Il socialismo”. Nel 1895 Gina si laurea in Lettere presso l’Università di Torino e, successivamente, si iscrive alla Facoltà di Medicina. Pubblica poi alcuni saggi, tra i quali “L’atavismo nel delitto” e “L’origine della specie”. Nel 1901 conclude gli studi di medicina a pieni voti discutendo una tesi intitolata “I vantaggi della degenerazione” davanti ad una commissione che includeva l’igienista Luigi Paliani e il Fisiologo Angelo Mosso. L’argomento della tesi si dimostra estremamente rilevante per il dibattito scientifico dell’epoca, tant’è che verrà approfondito in un volume dallo stesso titolo pubblicato nel 1904. La giovane Lombroso affronta il tema della degenerazione in modo nuovo, avvicinandosi all’ottica biologica con una prospettiva sociologica. I caratteri della degenerazione vengono letti non tanto come un progressivo deterioramento dell’umanità, quanto come la capacità di adattamento dell’uomo alla conseguenze dell’industrializzazione, con particolare attenzione alla relazione uomo-ambiente.

 

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Dopo la laurea prosegue la sua attività di ricerca con il ruolo di assistente volontaria nella clinica psichiatrica dell’Università di Torino, tale incarico verrà portato avanti fino a i primi anni del matrimonio avvenuto nel 1901 con Guglielmo Ferrero, collega di Cesare Lombroso, con cui egli aveva collaborato per scrivere nel 1893 la monografia “La donna delinquente, la prostituta, la donna normale”. Sempre in questo periodo Gina svolge studi clinici sulla pazzia morale, sull’epilessia e sulla criminalità, non tralasciando mai l’intensa collaborazione con la rivista del padre. Nel 1907 segue il marito in un viaggio in sud America, visitando carceri, scuole e manicomi. Le sue riflessioni su tale esperienza verranno stampate l’anno successivo in un volume intitolato “Nell’America meridionale (Brasile Uruguay Argentina)”. Gina, per non farsi mancare nulla, è anche studiosa di lingue straniere, e, grazie a tale competenza, rimane a stretto contatto con l’ambiente scientifico internazionale oltre che italiano. Alla morte del padre, nel 1909, Gina si dedica con affetto alla risistemazione e ripubblicazione delle opere paterne, nell’intento di mantenerne vivo il pensiero nella comunità accademica. Nel 1916 lascia Torino e si trasferisce con la famiglia a Firenze, qui la sua casa diviene sede di incontri e scambi con l’ambiente intellettuale cittadino. Tra i frequentatori più assidui i Salvemini e i Rosselli. In questi anni la Lombroso si dedica allo studio della condizione femminile, teorizzando l’“alterocentrismo” della donna, cioè un innato altruismo fondato biologicamente e legato alla “missione” della maternità. Nei numerosi scritti su tale argomento, Gina intende negare la convinzione imperante dell’inferiorità femminile, in nome di una forte differenziazione dei sessi, che dovevano essere concepiti non in un rapporto gerarchico ma in uno di “complementarietà”. Nel 1917 pubblica l’“Anima della donna”, testo che vede diverse traduzioni e ristampe in Italia e all’estero; nello stesso anno fonda con Amalia Rosselli e Olga Monsani la “Associazione divulgatrice donne italiane”(ADDI) con lo scopo “indurre la donna italiana a prendere parte allo sviluppo scientifico, sociale, politico, filosofico del paese”. A seguito delle persecuzioni politiche da parte del Regime, nel 1930 Gina e il marito Guglielmo sono obbligati a trasferirsi a Ginevra, rimanendo però in contatto con l’ambiente antifascista. Durante l’esilio, Gina approfondisce la problematica del rapporto uomo-macchina, affrontando gli sviluppi della nuova epoca industriale in una prospettiva sociologica. In “Le tragedie del progresso” e “Le retour à la prosperité”, di fronte alle profonde trasformazioni introdotte dalla industrializzazione, viene messa in discussione la fiducia positivista in un progresso indefinito. 
La storia di Gina non ha un lieto fine, l’amore per la scienza che dalla giovinezza l’accompagna non riesce a salvarla né a riportarla a casa. Gli anni dell’esilio vedono la morte del figlio Leo Ferrero, giovane poeta e intellettuale. Gina Lombroso morirà nel 1944 due anni dopo il marito, assistita dalla sorella Paola che l’aveva raggiunta nella città Svizzera. L’ignoranza violenta della guerra ogni tanto vince e l’oscurantismo allarga di un po’ la sua ombra, ma non dobbiamo dimenticarci che “senza cultura e la relativa libertà che ne deriva, la società, anche se fosse perfetta, sarebbe una giungla.” (Albert Camus). Gina ha contribuito a estirpare le erbacce, anche da lontano.

 

Alessia Cagnotto

Il Modigliani dei miei ricordi

Di Amedeo Modigliani (Livorno, 12.7.1884 – Parigi, 24.1.1920) scrissi una prima volta quarant’anni fa, ma a quelle pagine val la pena aggiungere qualcosa e queste ultime me lo permettono. Infatti, (a differenza di altri lavori, che, dalle prime ricerche fino alla definizione di una loro veste editoriale, hanno richiesto soprattutto il mio impegno), per ben due volte mi è stato chiesto di occuparmi del “Pittore delle figure dai colli lunghi e gli occhi vitrei”…

Nel 1983, a Rio de Janeiro, dov’ero arrivato, trasferito d’ufficio per la chiusura dell’Istituto Italiano di Cultura di Brasilia, il direttore, che aveva già lavorato con me all’Istituto di Brasilia, era Salvatore Amedeo Zagone (La Spezia, 13.2.1931 – 25.10.2016), docente di materie letterarie nelle scuole superiori e giornalista che, sul dinamismo vivace della sua professione, aveva impostato tutta la vita, gestendo e promuovendo, anche in Brasile, ogni attività. con quel dire diretto, che era del suo carattere, mi chiese se non volevo scrivere un pezzo, per il centenario della nascita di Modì “naturalmente in portoghese” per la rivista che aveva iniziato a pubblicare proprio in quell’anno. Certamente l’invito era motivato dalla stima, soprattutto, perché sapeva della mia attività artistica, infatti aveva apprezzato le mie tavole a fumetti per la Storia di un Burattino di Collodi, tanto che, già nel marzo del 1983, aveva promosso a Rio l’esposizione del mio Pinocchio, e, dopo averla presentata, la fece circolare per il Brasile da San Paolo al Nord Est. Ora, tornando a quel mio scritto, aggiungerò che, ridotto in cinque pagine a stampa, fu pubblicato nel numero di marzo del 1984 di Quaderni di Studi italo brasiliani, con il titolo Modigliani che gli avevo dato io. In Brasile, dove la pittura del Novecento spesso ha le forme e i colori dei quadri di Candido Portinari (San Paolo, 1903 – Rio de Janeiro, 1962), Emiliano Di Cavalcanti (Rio de Janeiro, 1897 – 1976) o di Alfredo Volpi (Lucca, 1896 – San Paolo, 1988), diversi lettori trovarono nelle mie parole le prime notizie del pittore di Livorno (alcune opere del quale sono al MASP – Museu de Arte de São Paulo, il grande museo dell’America Latina, voluto, e creato si può dire dal nulla, da un altro spezzino di vaglia, Pietro Maria Bardi). Poi chiuderò quel ricordo dicendo che, in assoluto, quelle furono le pagine di saggistica da me pubblicate e che non solo esse furono lette nel Quaderno che le aveva accolte ma, di recente, quando le ho riversate sulla rete, tanti, non solo tra i lusofoni, hanno continuato ad apprezzarle.

Negli studi successivi, le mie ricerche hanno approfondito altri temi storici, ma, come anche gli argomenti artistici che ho affrontato, erano riferiti a momenti più lontani nel tempo; tuttavia. Solo verso la fine del Novecento, decisi di studiare i pittori presenti ad Agliè durante l’ultima guerra. Questo lavoro partiva dal ricordo di chi, avendo vissuto quel periodo, lo ricordava ancora. Tra i pittori che là erano sfollati, ebbi modo di indagare meglio i bolognesi Gheduzzi, intorno ai quali s’era formato un alone di leggenda, perché scenografi del Teatro Regio di Torino … L’ultimo loro discendente, Ugo Gheduzzi (Torino, 30.11.1925 – Pianezza / TO, 5.9.2014), a Torino aveva studio di architetto. Lo cercai e mi ricevette nella sua casa di Piossasco, dove con l’amabilità, usuale della gente d’Emilia (terra d’origine della sua famiglia paterna), mi raccontò tutto quello che allora mi bastò per scriverne e, nel 2002, pubblicai ad Ivrea («Bollettino ASAC – Associazione di Storia e Arte Canavesana») Novecento pittorico in Macugnano di Aglié – Annotazioni per due capitoli di storia e… passai ad altro. Se non che, non molto tempo dopo, Ugo Gheduzzi mi cercò per chiedermi di visitarlo a Rivoli, dove nel frattempo si era trasferito, e là, nell’ultima casa che aveva costruito per sé, mi propose di scrivere una storia dei suoi (nonno, padre e zii), pittori della “scenografia” del Teatro Regio di Torino. Così, per un periodo di quattro o cinque anni almeno, lavorai anche a quel progetto. Lo lasciai a un buon livello di redazione, ma, purtroppo, la malattia prima e la morte poi, impedirono all’erede interessato di farlo pubblicare e io non trovai altri sbocchi, se non di intervenire con un contributo al catalogo della mostra antologica dei Gheduzzi che si realizzò a Crespellano / Bologna, nel 2010 e, soltanto negli ultimi tempi, ho pensato di riprendere quel materiale per una memoria che rettifichi le vistose inesattezze che negli ultimi anni furono pubblicate sugli scenografi tosco-emiliani attivi a Torino intorno al Regio. Vedremo se queste intenzioni avranno seguito…

Una delle ultime volte che incontrai il collega Gheduzzi, forse nel 2007, però, con quello sguardo accattivante che gli era proprio, porgendomi le fotocopie di due dattiloscritti (una lettera, su due facciate dalla quale era stata tolta la firma, e un biglietto affatto anonimo) e di alcune immagini, mi disse: “se vuoi dilettarti, fa un buon uso tu di queste cose!” … Non mi ricordai di avere pensato più a quelle carte, anche se, nel frattempo, c’è stato il centenario della nascita di quell’artista, ma so che finalmente è giunto il momento di prenderle in considerazione (almeno il biglietto e alcune delle immagini a cui esso allude), per ritornare nel tempo ai miei trent’anni, quando, con Modigliani, iniziavo a scrivere il mio primo saggio perché scriverne ancora, mi permette di ricordare alcune vivacità della mia gioventù e due amici che non sono più tra noi.

La lettera (che qui non presento) porta è datata Rosta 20 giugno 2007, per questo penserei vicino nel tempo ad essa anche l’appunto (che di seguito trascrivo). I due scritti non sono omogenei tra loro, soprattutto da un punto di vista formale, e il biglietto rivela anche alcune incertezze tanto che chi l’ha scritto sembra essere più preoccupato di seguire un protocollo (che neppure conosce e che, perciò, può anche tradire) e non nasconde neppure qualche imbarazzo.

Tavoletta di cm. 25×18 circa di legno (pioppo?) dello spessore di cm. 2 raffigurante figura umana a mezzo busto, probabile autoritratto, di uomo di età molto giovanile. Abbigliamento, pettinatura e fazzoletto al collo, possono rappresentare le caratteristiche di un artista del primo novecento. In basso a sinistra vi è una scritta “MODIGLIANI” che pare eseguita con un oggetto appuntito che raschia la sottostante tinta.

Guardando la figura trasversalmente ed orizzontalmente si nota come l’autore abbia delimitato i tratti essenziali che contornano la figura, come fossero stati incisi sulle tinte di fondo per delinearne la figura.

Questa tavoletta è sempre appartenuta a mia suocera (nata nel 1903) e che l’ha ereditata dalla propria nonna paterna. La detta nonna Colonna Eufrasia ved. Barberis abitava a Torino in via Mazzini e negli ultimi anni (1910) faceva l’affitta camere.

Da memorie raccontate da mia suocera pare che la suddetta sua nonna avesse trattenuto quest’opera quale remunerazione di pigione non pagata. Altra fumosa rimembranza, la tavoletta fosse stata trattenuta a rifusione di un piano di un armadio segato senza autorizzazione? Fino agli anni ‘960 la tavoletta rimase tra le cianfrusaglie di famiglia ma, in occasione di un trasloco, venne rinvenuta dal sottoscritto. Ultimamente i miei figli la confrontarono con le poche fotografie del Modì giovane, le sottoposero a rifotografarle e sovrapporle uniformandone le dimensioni, e vennero nella convinzione che in effetti può trattarsi dell’immagine e riproduzione di una stessa persona.

Ai tempi in cui era ancora vivo il gallerista Giovanni Bottisio, tra l’altro cugino di mio cognato, si era parlato di una visita a Parigi dove, a suo parere, si poteva trovare chi potesse, eventualmente, autenticare la cosa. Ma, come spesso avviene, non se ne fece nulla ed ora mi ritrovo con gli stessi interrogativi d’allora.

Conoscendo la sua cultura in materia e forse la conoscenza di coscienziosi esperti, mi permetto di sottoporle quanto sopra e chiedere il suo autorevole giudizio. Le allego la fotocopia a colori dell’originale ed alcuni rilievi fotografici tratti da numerosi volumi che ritraggono il Modigliani proprio in quegli stessi anni in cui la tavoletta finì nelle mani dell’ava di mia moglie.

Si tratta di osservazioni spicciole, talora minute e, volutamente, imprecise, le parole sono usate ingenuamente, quasi a dissimulare il motivo vero per cui sono state scritte e questo non nasconde l’impressione, anzi l’illusione, di essere in possesso di un quadro di un certo valore, che può anche essere una “cifra importante”! Non si pensa neppure che, più del valore commerciale, varrebbe avere qualche dato in più per la biografia di Modigliani, un pittore morto, poco più che trentacinquenne, in Francia, nel 1920… Ma che fare? L’appunto non aggiunge nulla: non accenna al periodo in cui, a Torino, Modigliani avrebbe dipinto questo suo autoritratto e, anche se nomina i Bottisio (interpellati come galleristi di un certo nome vicini e conosciuti), manca di considerazioni sulla tavolozza del pittore (che sembrerebbero ancora priva dell’influenza dei fauves, che poi avrebbero influenzato i suoi quadri del periodo parigino), né si rilevano altri altri dettagli (come gli occhi, che nel quadro sono dipinti diversamente che in tante altre sue opere famose). Insomma esso potrebbe veramente dire molto di Modigliani in un periodo precedente al trasferimento in Francia … e questo, tenendo conto che Jeanne, la figlia di Modigliani, nei suoi scritti aveva rilevato la poca attenzione che ci fu per l’opera di suo padre del periodo italiano, quasi ci fosse stato un piano per creare il mito che “Modigliani era diventato artista in riva alla Senna”, lascia pensare comunque che la vita di questo artista non fu mai oggetto di indagini scrupolose da parte degli storici. Non mi accollerò questo incarico io, se mai renderò pubbliche alcune mie considerazioni che, da storico, posso fare su quello che i documenti potrebbero dire, (o, meglio, anche solo se dei documenti qui ricordati, se avessero copie conformi agli originali, cioè se si sapesse il nome dell’autore dalla lettera e se il quadro in questione fosse riprodotto in una buona fotografia) perché, senza approssimazioni, si potrebbe fare una lettura più corretta di tutto…

Se davvero a Torino, c’era una tavoletta dipinta (che potrebbe essere di Modigliani) e se davvero essa fu dipinta, in una camera ammobiliata nei dintorni di Porta Nuova, intorno al 1906 (?), potremmo avere l’opportunità di sapere qualcosa in più di quel pittore ventiduenne, cioè in un momento vicino al suo (per ora poco noto) trasferimento a Parigi! Infatti queste sarebbero le prove minime per rilevare una sua presenza torinese e, forse, potrebbero dirci di chi egli incontrasse, o volesse incontrare, nella nostra città. Insomma: chi cercava a Torino Modigliani? Un parente, un possibile finanziatore o qualcuno che potesse aprirgli la strada a Parigi? Sono argomenti che sfuggono alla storia e, se, la vita di Modigliani non è tutta scritta da scrivere, certamente un suo passaggio per Torino lo sarebbe ancora … per questo, ancora una volta, chi ne dovesse parlare, dovrebbe farlo per lui che non è più, e, per farlo, dovrebbe conoscere bene le cose che attengono la “sua” vita, per poterle diffondere senza tradire la sua memoria. Infatti c’è un dovere morale che pesa sullo storico perché i personaggi del passato non hanno più diritto di replica personale, dunque essi vanno intesi bene attraverso i documenti e compresi correttamente, rispettando la verità storica, e questo non è cosa da poco! Qualcuno si farà carico di tanto impegno per indagare un ipotetico soggiorno torinese di Amedeo Modigliani? Nel rispetto del passato e della vita, noi lo auspichiamo.

Carlo Alfonso Maria Burdet

Gemelle di 94 anni: ricordi di scuola a Torino

Caro direttore, ho messo giù alcune note di Vita dettatemi da mia mamma e dalla zia, gemelle di 94 anni il 20/5 scorso.

Giovanna Seghesio
“Noi che …. Il 1°Ottobre inizia la Scuola e nell’anno scolastico 1935/36 la 1^Elementare alla Cesare Battisti Torino (San Paolo).
 Alle 8 ogni mattina, la Messa dello Scolaro. A Natale si legge e si scrive con penna e pennino, il calamaio incorporato nel piano del banco sotto il quale si pone la cartella in cuoio o crosta che durerà 5 anni. Grembiule e fiocco, scarpe lucide e capelli raccolti. In Primavera la signorina Maestra si sposa e ci vuole, piccole damigelle, alle sue nozze con l’abito bianco, coroncina e borsina della 1^Comunione, fatti da mamma Benedetta (Dina), sarta. I Genitori danno carta bianca ai nostri Maestri/Educatori, sicuri della loro competenza ed autorevolezza per la nostra Istruzione/Educazione. La pagella è trimestrale, le materie 15 circa, incluse Disciplina (Condotta) e Igiene e cura della persona. Le valutazioni sono: Lodevole/Buono/Sufficiente/etc. Il Sabato mattina, grandi pulizie dell’Aula con cera, strofinaccio e olio di gomito!
E’ bello stare insieme, studiare, lavorare e giocare. Si Inizia a capire il valore delle persone che ci stanno vicino e ci aiutano a crescere e a formarci. La II^ Guerra Mondiale non ci permetterà di proseguire gli studi come avremmo voluto! A Dogliani, nelle Langhe, sfollate per 3 anni dai nonni materni…nel cuore la nostra Torino dove papà lavora, la Scuola, i Maestri e i  Compagni. Nelle lunghe sere al suono della fisarmonica di Beppe cantiamo. Il Rosario: si prega e si accennano piccole recite teatrali con pesanti mantelle e vecchi cappelli in feltro…”

Smalti bizantini tra Oriente e Occidente. A Palazzo Madama

Lunedì 3 luglio 2023

ore 17

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica

Sala Feste

Piazza Castello, Torino

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica propone, lunedì 3 luglio 2023 alle ore 17, la conferenza Smalti bizantini tra Oriente e Occidente con Giampaolo Distefano, Università degli Studi di Torino.

L’arte bizantina, tra le sue varie manifestazioni, si distinse per una significativa produzione di smalti cloisonnés, realizzati soprattutto nella capitale dell’Impero ma ben presto anche nelle zone rientranti sotto la sua diretta influenza culturale. Tali smalti, dalle caratteristiche tecniche codificate e dai canoni stilistici assai riconoscibili, formano a oggi un corpus scalato su più secoli ma la cui età dell’oro si individua soprattutto tra il X e la fine del XII secolo. Si tratta per la maggior parte di piccoli esemplari con figure a mezzo busto, più raramente di grandi placche con vere e proprie scene neotestamentarie. Caratteristici di questa produzione furono anche minuti smalti con raffinati motivi ornamentali accostabili a quelli dei coevi manoscritti miniati o della pittura monumentale. Questo intervento ripercorrerà le vicende dello smalto bizantino attraverso le sue testimonianze più eclatanti senza tralasciare i rapporti che questo tipo di produzione ebbe con l’Occidente sia tramite l’arrivo di manufatti finiti, sia tramite i viaggi di artigiani specializzati.

La conferenza fa parte del ciclo, che approfondisce alcuni dei temi presentati nella mostra Bizantini. Luoghi, simboli e comunità di un impero millenarioin corso a Palazzo Madama fino al 28 agosto 2023attraverso 350 opere provenienti da importanti musei italiani e da oltre venti musei greci.

Gli incontri sono a cura di studiosi – archeologi, storici e storici dell’arte – che da prospettive e ambiti disciplinari differenti affrontano il millenario sforzo di un Impero teso al dialogo tra la cultura classica e quella orientale.

Giampaolo Distefano ha studiato all’Università di Catania, Siena e Torino dove dal 2019 è assegnista di ricerca in Storia dell’arte medievale. Si è specializzato nello studio delle arti suntuarie di XII-XV secolo specialmente in Italia, Francia e nello spazio mediterraneo, da un punto di vista della circolazione artistica e con una particolare attenzione alle fonti. Ha contribuito ai cataloghi delle opere d’arte suntuaria della Cassa di Risparmio di Volterra, della Galleria Sabauda e del Museo di Palazzo Madama di Torino, del Museo del Bargello di Firenze e di Palazzo Venezia a Roma. Nel 2020 ha co-editato gli studi in onore di Danielle Gaborit-Chopin, nel 2021 ha pubblicato la monografia Esmaltis viridibus. Lo smalto de plique tra XIII e XIV secolo, dedicata allo smalto de plique nel contesto delle relazioni e degli scambi tra Parigi e le corti europee. Suoi articoli sono comparsi, tra le altre, nelle riviste Zeitschrift für Kunstgeschichte, Arte medievale, Convivium, Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz. Dal 2019 è membro della Société nationale des Antiquaires de France.

Prossimi appuntamenti

Lunedì 10 luglio ore 17:

Con Paolo Cesaretti, Università degli Studi di Bergamo

Lunedì 17 luglio ore 17: Il nostro debito con Bisanzio

Con Mario Gallina, già Professore ordinario di Storia bizantina presso l’Università degli Studi di Torino

Ingresso libero fino a esaurimento posti

Prenotazione consigliata: t. 011 4429629 (da lunedì a venerdì, orario 9,30-13 e 14-16)

e-mail: madamadidattica@fondazionetorinomusei.it

Italia 61 e il capolavoro torinese di Pier Luigi Nervi

Il Palazzo del Lavoro, già Palazzo delle Nazioni, da sempre Palazzo Nervi in Corso Unità d’Italia angolo Corso Maroncelli a Torino, una straordinaria opera la cui paternità dell’ Ingegner Pier Luigi Nervi con la collaborazione del figlio Antonio e dell’architetto Gio Ponti, inaugurata il 6 Maggio 1961 alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi nella giornata in cui l’indimenticabile Italia 61 aprì le sue porte al mondo.

E’ uno dei capolavori dell’architettura del Novecento, uno di quei luoghi cui tutti, da che fu realizzato, hanno guardato con stupore per l’impegno occorso, con ammirazione per l’attuazione innovativa raggiunta. Ricordiamo infatti che fu progettato nel 1959 ed a tutt’oggi, se fosse ancora leggibile, parlerebbe di una sua carta d’identità senza tempo ed oltre il tempo, di strutture innovative per materiali e per talento creativo. Un immenso spazio progettato per durare, per farsi ammirare, per essere un esempio tutto italiano del genio costruttivo ed architettonico del Novecento, simbolo di un Paese in rinascita. Ed invece quello che sembrava a tutti essere il suo giusto e fausto destino, quello di una lunga vita all’avanguardia, contenitore felice e generoso quale era stato progettato, non si è realizzato. Chiedersi perché e per chi oggi non serve. Ciò che serve è che si comprenda urgentemente che è necessario arrivare in tempo a salvare questo testimone importante, questo gigante, fiore all’occhiello di un’Italia che stava vivendo il suo tempo d’oro, fatto di un miracolo economico quasi impensabile e di tanta voglia di mettersi continuamente in gioco, a qualunque costo e rischio.

 

Oggi appare come un eroe agonizzante ed umiliato, una grande carcassa arrugginita e drammaticamente abbandonata, rosa dal tarlo dell’incuria che la divora, testimone suo malgrado e simbolo di un degrado ambientale e non solo, lasciato a sé stesso, allo spreco più totale, mentre collassa e cede sul suo fasto di breve durata. Tutti elementi questi che dovrebbero far riflettere senza girarsi dall’altra parte per non vedere. Avvolto nel suo manto di ruggine, luogo prescelto da rovi e sterpaglie e da animali che vi scorrazzano, oggetto di incursioni vandaliche finché vi fu qualcosa da portar via, passato attraverso l’esperienza di un gravissimo incendio nel 2015, Palazzo Nervi non si stanca ancora oggi di lanciare il suo grido d’aiuto sotto gli occhi dei passanti impotenti. Una fine ingiusta la sua, non certo motivo di vanto per Torino in Italia né per l’Italia nel mondo, agonizzante monumento al genio di Pier Luigi Nervi, offerto così miseramente ridotto allo sguardo dei torinesi attoniti e di quanti ne hanno compreso il suo grandissimo, importante valore. Per chi transita in Corso Unità d’Italia in uscita o in entrata in città, per raggiungere le autostrade o arrivandovi, si trova a percorrere una vasta area verde con piante che ancora oggi ci parlano della cura con cui sono state scelte. Giardini disseminati di costruzioni particolarmente interessanti dal punto di vista architettonico che parlano di un fasto trascorso in cui sapienti mani e grandi progetti hanno contribuito a realizzare un sogno tutto italiano.

Correva l’anno 1961 e Torino era pronta a vivere un avvenimento che avrebbe segnato la storia del glorioso 900 della città. In pieno boom economico stava per concretizzarsi un evento unico ed indimenticabile. Venne ospitata infatti l’Expo 1961, la grande Esposizione Internazionale del Lavoro – Torino 1961,  per festeggiare i cento anni dell’Unità d’Italia. E’ quella che fu definita una grande occasione per mostrare al mondo quale fosse il livello di progresso raggiunto da quella che venne definita la città dell’automobile per antonomasia, la Torino industriale ma anche quella storica, quella sabauda con la sua cultura millenaria e quella ingegnosa che sa continuamente riproporsi. Un’occasione unica, raccolta con entusiasmo la cui centralità fu l’Italia ed il lavoro. Il Made in Italy ebbe modo di far parlare di sé in tutto il mondo puntando l’attenzione sui punti di forza del nostro Paese nei tanti ambiti di cui è incontestata protagonista: dalla scienza all’arte passando per la tecnica e la cultura senza dimenticare il settore dell’imprenditoria: tutti erano presenti a questo imperdibile appuntamento. Furono invitati i nomi più illustri del globo a partecipare, ognuno nel proprio settore, alla realizzazione di questo sogno italiano. Notissimi architetti dei giardini per organizzare il verde della vasta area che fu scelta, nella zona Nizza Millefonti , su una superficie di  106.500 mtq fino a lambire le acque del Po, con un suo naturale fascino indescrivibile. Ingegneri edili, architetti, progettisti, tecnici, tutti chiamati a dare il meglio di sé e con loro il grande Ingegner Pier Luigi Nervi che aveva ideato e brevettato nel 1943 il ferro cemento e che realizzò per l’occasione il suo grande capolavoro torinese, il Palazzo del Lavoro. Costruzione innovativa realizzata in tempi brevissimi, gioiello dell’architettura e dell’ingegneria civile nerviana, si tratta di un avveniristico progetto incentrato sulla suddivisione della copertura quadrata dei 47.000 mtq totali della superficie, in sedici elementi tra loro indipendenti ad ombrello costituiti da una raggiera di travi in acciaio e da un pilastro centrale, caratteristica questa della progettualità di Nervi. Un’opera all’avanguardia di grande impatto emotivo e di straordinario fascino con  l’uso dei suoi materiali preferiti.

 

Tra le tante altre realizzazioni indimenticabili che composero Italia 61 l’ovovia che portava i visitatori direttamente in collina, il laghetto accanto all’ avveniristica monorotaia con le hostess ad accogliere i numerosissimi visitatori, la vita sui battelli del Po, Palazzo a Vela, in origine Palazzo delle Mostre, i bus panoramici a due piani ed altri palazzi per quei tempi modernissimi. Oggi ciò che appare di quelle storiche celebrazioni alimenta la nostalgia di un tempo d’oro, tra l’inspiegabile incuria di tanta bellezza ed il tempo che passa ma non cancella.

PATRIZIA FORESTO

Ricordando Gipo Farassino a dieci anni dalla scomparsa

“Storie di Barriera “, spettacolo che andrà in scena al teatro Gobetti  venerdì 30 giugno prossimo alle 21 con Marco a Spinetta e Marco Congiu, rappresenta l’omaggio che il regista Giulio Graglia e non solo hanno voluto fare a dieci anni dalla scomparsa di Gipo Farassino, lo chansonnier che ha rappresentato la piemontesità nel mondo.

“La serata, promossa al teatro Gobetti vedrà sul palco l’attore Marcello Spinetta – spiega il regista Giulio Graglia, Direttore Artistico del Festival Pirandello e del ‘900 – con il quale ho lavorato su testi di Pirandello e Fenoglio, e il musicista Mario Congiu. Marcello proviene dalla Scuola del Teatro Stabile di Torino, nella cui Fondazione sono consigliere, mentre Mario ha lavorato fianco a fianco cin Gipo.

Ho volutamente intitolato la serata prendendo a prestito l’album di Gipo, e mi è sembrato un gesto doveroso nei confronti di una persona che ho stimato molto. Ricordo ancora quando, nel 2010, mi affidò la regia del suo Stasseira, come non posso dimenticare una delle ultime volte in cui l’ho visto a casa, ormai troppo affaticato dalla malattia”.

“Grazie all’aiuto dell’amico Bruno Quaranta, giornalista, scrittore, critico letterario, abbiamo intessuto un percorso a ritroso fatto di parole e musica. Come sostiene Valentina Farassino non c’è un erede di Gipo, per questo il nostro è uno spettacolo rispettoso che non vuole imitare, bensì esaltare la creatività dell’artista”.

“Storie di Barriera “ è sostenuto dal Consiglio regionale del Piemonte. Il Presidente Stefano Allasio ha voluto fortemente dedicare il 2023 alla memoria di Gipo Farassino. Lo spettacolo rientra nel programma del Festival Nazionale Luigi Pirandello e sarà riproposto durante le festività natalizie”.

“Mi auguro che lo spettacolo – conclude il regista Giulio Graglia – possa essere gradito a chi Gipo lo ha conosciuto ma anche ai giovani che, forse soprattutto in città, non hanno più l’abitudine di parlare in dialetto. A scanso di equivoci abbiamo previsto delle traduzioni in italiano per chi non conoscesse il dialetto”.

Mara Martellotta

Storie di Barriera

Teatro Gobetti Torino

30 giugno 2023 0re 21

Mare? No, arte romanica

Meravigliose gite in Piemonte in attesa della bella stagione

Il bel tempo quest’anno ci fa aspettare, poco sole, niente bagni e tintarella, almeno nella nostra parte della penisola. In attesa di dare ufficialmente il via alla stagione estiva possiamo passare il tempo libero, soprattutto nel fine settimana, visitando le meraviglie della nostra regione. Tra i tanti stili e architetture l’arte romanica e’ quella che personalmente preferisco, probabilmente per la sua semplicita’ che ha il potere di creare una strada diretta verso il divino, un accesso semplice alla spiritualita’. Gli elementi tipici di questo stile sono gli archi a tutto sesto, le volte a crociera, il matroneo ovvero un loggiato posto sopra le navate laterali, una volta dedicato alle donne, la facciata esterna costruita a capanna o a salienti, il rosone che somiglia ad una grande finestra rotonda che corrisponde alla navata principale interna.

In Piemonte, oltre ai fasti del barocco e alla regalita’ delle residenze sabaude, esiste una consistente presenza e di testimonianze di arte romanica risalente al secolo X e fino al XII.

Dalla via Francigena, ai borghi medioevali, dalle abbazie ai monasteri in questa terra sono molti i siti da visitare per immergersi totalmente in questo suggestivo periodo storico.

A Torino si puo’ ammirare il campanile della chiesa di Sant’Andrea, risalente all’XI proprio a lato della chiesa della Consolata che ha preso il posto della chiesa originaria. Uscendo dalla citta’, dirigendosi verso la Val di Susa a 960 metri di quota sul monte Pirchiriano troviamo la Sacra di San Michele, del X secolo, uno dei massimi centri della spiritualita’ benedettina e rosminiana.

L’Abbazia dei Santi Pietro e Andrea o di Novalesa, fondata nel 726 e situata in Val Cenischia (Susa), e’ un altro bell’esempio di arte romanica del nostro territorio. Affidata alla Congregazione Benedettina Sublacense ospita una serie di affreschi e un chiostro cinquecentesco.

A Staffarda di Revello in provincia di Cuneo si trova l’omonima abbazia, uno dei monumenti medioevali piu’ grandi del Piemonte, incorniciata dai monti soprattutto da sua maesta´il Monviso. Benedettina cistercense fu fondata tra il 1122 e il 1138 e, oltre alla chiesa, comprende un chiostro e una foresteria. In localita´Albugnano spicca l’Abbazia di Vezzolano, magnifico esempio di arte romanica che, secondo la tradizione, fu fondata da Carlo Magno. Una particolarita´ al suo interno e’ data dalla navata centrale che è divisa trasversalmente da un pontile decorato, elemento abbastanza raro se non in qualche altra chiesa oltrealpe. Tra le risaie del novarese si nota certamente l’Abbazia dei Santi Nazario e Celso fondata nel 1040 in un clima sobrio e raccolto e affidata anche questa ai benedettini. Con i suoi affreschi cinquecenteschi e il chiostro quadrangolare e’ un affascinante esempio di architettura gotico-lombarda. Se ci si sposta verso Alessandria, invece, c’e’ il maestoso monastero di Santa Giustina di Sezzadio risalente all’epoca Longobarda. Immerso nelle colline del Monferrato conserva il pavimento in marmo bianco e nero che raffigura immagini floreali stilizzate.

Inutile citare il Duomo di Vercelli, nella Biblioteca e Archivio Capitolare e nella Pinacoteca della più antica arcidiocesi del Piemonte o il Battistero di Biella, meravigliosi rappresentanti dell’arte romanica del Piemonte, e tante altre sparse per tutta la regione che si conferma una luogo ricco di storia, arte, tradizioni e riferimenti della spiritualita’.

MARIA LA BARBERA

 

Per informazioni

https://www.piemonteitalia.eu/it/esperienze/il-romanico-piemonte

https://www.visitpiemonte.com/it/esperienzeoutdoor/itinerari-spirituali/il-romanico

Paolo Pozzi e la linea ideale sul 45° parallelo

 

Al termine di un lavoro di ricerca durato molti anni è stata pubblicato in edizione ristretta l’interessante volume “ 45° parallelo. Similitudini, somiglianze, intrecci e fantasie nelle culture dialettali” nel quale Paolo Pozzi  indaga e confronta vicende e sovrapposizioni lessicali, testi poetici e musicali su una linea ideale che scorre dalla sponda piemontese del Verbano fino alle coste dell’Istria.

 

L’autore, dirigente industriale in pensione e appassionato ricercatore, nato al Mottarello di Masnago (Varese) e residente sulle colline di Stresa, ha potuto attingere sia dalla cultura lacustre dell’ Insubria sia dalle tradizioni friulane, soprattutto della destra del Tagliamento, la terra dei suoi nonni materni. Un volume di 140 pagine dove il testo è accompagnato da numerosissimi rimandi  a fonti esterne attivabili semplicemente con un click e da una chiavetta usb dove sono raccolti numerosissimi documenti. Il lavoro di Paolo Pozzi sui parallelismi nelle culture dialettali tra ovest ed est, viaggiando idealmente sulla linea del 45° parallelo, è molto interessante. La splendida espressione tradotta dall’yiddish di Weinreich (“una lingua è un dialetto con un esercito e una marina“) riassume l’importanza e la nobiltà delle tradizioni vernacolari. Non a caso l’autore cita il cardinal Tonini che, acutamente, sosteneva come le nostre radici non si trovano solo nella terra dove siamo nati ma anche nell’educazione che abbiamo ricevuto. Così, accompagnati dai parallelismi, si può viaggiare tra le pagine confrontando lingue e tradizioni dei progenitori di Pozzi, come nei casi della nonna materna, friulana, e di quella paterna, originaria del varesotto. Un confronto che chiama in causa i poeti lungo quel filo immaginario che corre tra le terre dell’Ossola e del lago Maggiore fino a Pinguente, nella valle del fiume Quieto, un tempo sede della Serenissima nell’entroterra istriano. Il richiamo a Pier Paolo Pasolini che precisa il senso del canto popolare e il viaggio proposto da Pozzi ( dove, pur stando seduti, ci si sente sempre in movimento) tra storie, migrazioni di uomini e parole, contaminazioni maturate su strade polverose battute dalle truppe napoleoniche formate dai grognards de la grande armée, vecchia  e fedele guardia napoleonica proveniente da territori larghi e transnazionali, sono immagini straordinarie. I Savoia che diffondono la lingua italiana per combattere ignoranza e analfabetismo e, al tempo stesso, favorire sentimenti unitari; il popolo che salva il dialetto dalla protervia del fascismo che imponeva l’italianizzazione forzata ( come fece in Istria e Dalmazia, territori occupati) aprono squarci sulla storia. La ricerca sulle similitudini nei vocaboli tra i dialetti bosino e friulano, l’arguto confronto sui diversi significati della parola “briciola” o la scoperta che Madonna” nel dialetto bresciano è un termine con tre significati ( appellativo di Maria – come nel resto del Paese – , suocera e persino una brutta parola). Nanni Svampa fondatore del gruppo cabarettistico e musicale dei Gufi, immaginato in parallelo con George Brassens mentre il padre Nino a Cannobio scriveva poesie e coltivava la passione velistica, raccontate nel libro “Boff de Canobina” (vento di Cannobina), consente a Paolo Pozzi di tracciare un altro parallelo con Biagio Marin, il poeta di Grado che nacque in territori a quel tempo appartenenti all’impero austro-ungarico. Il libro propone spunti e riflessioni offerte in un lavoro che non ha nulla di accademico, come precisa l’autore, ma si trasforma in un vitalissimo affresco di culture e storie. Le vicende narrate si ripetono nelle vicissitudini dei migranti di ieri e di oggi, tra chi conobbe l’esodo da Pinguente e chi raggiunge con una imbarcazione di fortuna Lampedusa dopo aver attraversato un braccio di mare che è diventato un cimitero di disperati in cerca di fortuna o in fuga da guerre e fame. Le suggestioni che si offrono al lettore sono tante e c’è una continuità, un filo rosso che lega personaggi e luoghi, profili come quello di Toti Dal Monte e paesi come Pieve di Soligo. La solida ricerca condotta da Paolo Pozzi confrontando canzoni e poesie e la parte che dedica a Trieste e alla terra friulana dove si dipana parte del suo “lessico famigliare”, è una sorta di compendio alle tracce che si trovano leggendo “Gli aghi”, un suo libro di qualche anno fa. Se ci si può permettere un ulteriore parallelismo questo è possibile chiamando in causa il Breviario Mediterraneo di Predrag Matvejević, un libro che sembra una finestra spalancata sul mare nostrum, su moli e banchine, sagome di chiese e architettura di case, sui fari delle coste e gli itinerari delle carte nautiche. Leggerlo equivale a sfogliare le pagine di un dizionario di gerghi, espressioni, idiomi, parlate che cambiano nel tempo e nello spazio. Quello di Paolo Pozzi è un breviario poetico sull’uso della lingua e di quello che, volgarmente, viene definito dialetto ma che a ben guardare , essendo “una varietà della lingua”, ne ha la stessa dignità, trasmettendo emozioni e calore, traducendo i sentimenti in parole spesso più appropriate di quanto possano fare le lingue ufficiali. Già nella sua silloge “Le rime migranti”  usò le varietà delle “sue lingue” con garbo e maestria, sia quella bosina che svela la radice paterna, legata al territorio della provincia di Varese, che le friulane e istriane, rispettivamente della madre e della moglie, frutto del pluralismo linguistico che si trova sulla linea del confine orientale, dove la tradizione mitteleuropea sfuma nei Balcani. Lì si toccano due mondi: l’Occidente, dove la verità è adeguamento della cosa all’intelletto; e l’Oriente, dove la verità è ciò che sembra che la cosa sia. Così, sfogliando le pagine, si respirano le atmosfere del Verbano, dove si sente “l’acqua che sciaborda contro i sassi” e s’intuisce il profilo dei monti che lo circondano ( “come stirate dalle dita del vento, delle nuvole grigie si strappano sulle cime della Val Grande”) fino all’Istria e dell’Adriatico (“Non si può solo camminare sulla riva per capire cosa vuol dire Mare! Ma con l’impeto di un’onda che ti spinge a vele tese, prova a navigare..”). E’ il lievito del racconto, dell’impasto dei suoi pensieri. Ci sono le riflessioni sociali, immagini d’attualità, i segni di una sensibilità ricca, profonda, mai banale – in questo peregrinare tra le brume e le nebbie del lago Maggiore e l’ombra del campanile “dritto e aguzzo” di Pinguente (la croata Buzet di oggi). Quella di Paolo Pozzi è una ricerca che meritava d’essere conosciuta perché lasciarla chiusa e al buio nel fondo di un cassetto sarebbe stata davvero un peccato.

Marco Travaglini

Un ricordo del grande Pier Luigi Nervi nel giorno della sua nascita

Oggi compirebbe ben 132 anni uno dei più grandi ingegneri ed accademici italiani di tutti i tempi che, con il suo genio costruttivo, ha dato molto a Torino. Parliamo di Pier Luigi Nervi, nato a Sondrio nel 1891 da genitori liguri e morto a Roma nel 1979.

Partendo dal suo personale concetto secondo cui l’arte non è concepibile soltanto come estetica ma anche come pura funzionalità e staticità, portano la sua firma alcune tra le più significative opere architettoniche contemporanee dell’edilizia civile italiana e mondiale. Innovativo nelle sue soluzioni spaziali e strutturali, ogni sua realizzazione racchiude in sé l’innovazione oltre all’ eleganza, alla modernità in risultati sempre nuovi e sorprendenti dovuti anche ai suoi studi su nuove tecniche e nuovi materiali, studi di cui ci ha lasciato importanti scritti.

 


Ricordiamo soltanto alcuni tra i suoi tantissimi lavori: lo stadio di Firenze negli anni 30, i grandi hangar per l’aviazione italiana ad Orvieto degli anni 40, la sede dell’Unesco a Parigi degli anni 50, il grattacielo Pirelli a Milano e la Sala Nervi in Vaticano. A Torino porta la sua firma il salone di Torino Esposizioni al Valentino del 1949 ed il Palazzo del Lavoro anche giustamente ricordato come Palazzo Nervi, del 1960, quando fu eretto per la grande manifestazione di Italia 61. Si tratta di uno dei capolavori dell’architettura edile del Novecento, che ora arrugginito e vergognosamente abbandonato sta cadendo a pezzi senza che si stia facendo alcunché per salvarlo.

Dicono di questo indimenticabile genio italiano che racchiuse in sé l’audacia dell’ingegnere, la fantasia dell’architetto con la concretezza dell’imprenditore. E dicono bene. Auguri quindi a questo grande italiano che le sue opere hanno reso immortale alla memoria collettiva nei secoli.

Patrizia Foresto