STORIA- Pagina 2

Torino, capitale italiana del Liberty

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È luomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nellarte.

Lespressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo luomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché  sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare. Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo.  Non furono da meno gli  autori delle Avanguardie del Novecento  che, con i propri lavori disperati, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto Secolo BreveNegli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di ricreare la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i ghirigori del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa ledera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di unarte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che larte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso. (ac)

Torino Liberty

1.  Il Liberty: la linea che invase l  Europa
2.  Torino, capitale italiana del Liberty
3.  Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
4.  Liberty misterioso: Villa Scott
5.  Inseguendo il Liberty: consigli   di viaggio ”  per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
6.  Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la citt à
7.  Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicit à
8.  La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
9.  La linea che veglia su chi  è  stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
10.  Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock
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Articolo 2. Torino, capitale italiana del Liberty

In seguito allEsposizione Internazionale delle Arti Decorative del 1902 a Torino, gli artisti e i professionisti presenti ebbero lopportunità di conoscere e visionare i più rappresentativi esempi di Art Nouveau, firmati proprio dai migliori esponenti della corrente artistica di tutto il mondo. Successivamente a tale avvenimento e grazie alla presenza sul territorio di abilissimi architetti e assai preparati ingegneri,  che potevano contare su una ricca classe borghese e imprenditoriale, la città sabauda si trasformò in un immenso cantiere di sperimentazione stilistica, che in circa trentanni portò alla realizzazione di un gran numero di edifici appartenenti alle più svariate tipologie, sia industriale che residenziale, dai palazzi destinati allistruzione o al culto, fino ad alcuni esempi di arte funeraria. Gli artisti torinesi interpretarono il Liberty con originalità e maestria, rivisitando le scuole dellArt Nouveau, da quella franco-belga a quella austro-tedesca,  con occhio personale e mai scontato. Torino, ancora oggi nota per le grandi architetture barocche dei palazzi nobiliari e delle celebri residenze sabaude, vede affermarsi dunque, tra la fine dellOttocento e linizio del Novecento, una nuova corrente artistica, meglio conosciuta come Liberty. Di questo stile, Torino presenta numerose testimonianze di pregio, al punto da essere considerata la capitale del Liberty italiano.

Sul piano prettamente estetico il Liberty affronta leterno problema del bello, ovvero lideale di un socialismo della bellezza inteso come diffusione e messa a disposizione di prodotti artistici presso una sempre più vasta porzione di cittadinanza, nelle più disparate applicazioni, verso ununica adesione ad unestetica condivisa, che ha nella natura il suo inizio e la sua fine. Grazie allo sviluppo industriale e agli interventi urbanistici in varie zone della città, il Liberty si impose elegantemente nelle linee architettoniche di interi quartieri, dalla Crocetta alla Gran Madre, da Cit Turin a San Donato. In ogni spazio edificato allinizio del secolo scorso su impulso della nuova borghesia industriale, vi è la chiara impronta delloriginale stile artistico europeo, di cui ancora oggi  possiamo ammirare lelegante armonia architettonica.Passeggiando per Torino, con lo sguardo attento ai palazzi più rappresentativi, che si stagliano netti ed eleganti per le vie della città, non si può fare a meno di rimanere estasiati e ammirati di fronte alla raffinatezza espressiva di alcuni edifici, dalle linee flessuose e curve, dai tratti morbidi” delle facciate, che ancora ci sorprendono per la loro piacevole bellezza architettonica. Osserviamo tetti insolitamente ricchi,  vetrate che catturano la luce riflessa in colori pastello,  tettoie con strutture in ferro-vetro, dettagli di balconi dalla ringhiera incurvata, dove lalternanza vuoto-pieno sottolinea vitalità e dinamismo. E poi portoni, mancorrenti, finestre con finezze di particolari, festoni e fregi che richiamano la grazia della natura mediante la riproduzione di piante, foglie, tralci, fiori, tutta una leggiadria di forme che sembrano quasi nascondere e tacitare il peso del litocemento.  E poi ancora la riproduzione di rampicanti che, sviluppandosi in altezza, sanno dare un tocco di levità ai palazzi, arricchiti anche da conchiglie, sirene, animali araldici, curiosi ghirigori.  Ogni edificio mantiene una propria impronta particolare, ma, nel richiamarsi alla nuova linea floreale, la sa esaltare in strutture di spettacolare bellezza, come il flessuoso e morbido bovindo, bow-window, che nellinglese antico significa finestra ad arco, ed è, nelledificio, la parte di un ambiente aggettante verso lesterno, come un balcone chiuso da vetrate.

Lingegnere Pietro Fenoglio, il più grande architetto torinese di questo stile, ne ha realizzati numerosissimi in città, e in forme assai diverse, rettangolari, ovali, quadrate, circolari, cilindriche. A mezza altezza tra la strada e il tetto, il bovindo, anche solo di un metro quadrato o poco piùè una magnificenza costruita sulla facciata, dove la fantasia creativa ben si accompagna al tratto fluido e morbido, alla varietà e allinventiva. E così, nella  malinconica Torino gozzaniana  che mi piace ricordare (Come una stampa antica bavarese/vedo al tramonto il cielo subalpino/Da Palazzo Madama al Valentino/ ardono lAlpi tra le nubi accese/ E’ questa lora antica torinese,/ è questa lora vera di Torino), trovano spazio architetture quasi gioiose, dove il rosso del mattone ben si accorda al grigio chiaro del litocemento. In una perfetta costruzione armonica, ogni più piccolo particolare è studiato con cura, e i ferri battuti delle ringhiere dei balconi a volte differiscono volutamente per qualche minimo dettaglio, che solo una disamina attenta riesce a cogliere, e anche gli androni, le scale, i mancorrenti sono originali e costruiti ad arte. Nello stile floreale gli ornamenti fanno parte della costruzione complessiva, non sono elementi puramente accessori, quasi in aggiunta, al contrario prendono, per così dire, vita dalla bellezza dellinsieme.   Improntati allo stile Liberty, Torino presenta non solo un gran numero di case e villini, ma anche stabilimenti industriali, uffici pubblici e scuole, disseminati nei vari quartieri della città, la CrocettaSan Donato, il CentroSan Salvario, la Gran MadreCit Turin.

Di certo è stata troppo breve lingenua e ottimistica stagione Liberty, ben presto labilità tecnica si concretizzò negli orrori della guerra e la realtà drammatica che si andò delineando portò a una diffusa sfiducia nei confronti dellarte come materia salvifica. La bellezza dunque non è più né ricercata né indagata, la funzione” prevale sulla forma” e la violenta modernità si manifesta con canoni antitetici rispetto agli ideali dellArt Nouveau. Il tempo della natura e dei suoi mirabolanti ghirigori viene schiacciato dal suono devastante delle bombe e delle grida del primo conflitto mondiale.

 

Alessia Cagnotto

Giuseppe Contin, il secondo Paganini

 

Parentele a Cereseto Monferrato 

Le famiglie Contin, conti di Castelseprio della sede comitale di Varese fin dal 1300, nobili del palazzo di Ludovico III° e governatori di Pavia procurarono nel 1449 la dedizione di Crema alla Repubblica di Venezia  inserendosi nel locale patriziato. Nella gloriosa scuola musicale veneziana si affermò il conte Francesco Contin (1780-1860) violinista, compositore e maestro di cappella alla Corte di Vienna città musicale per eccellenza, allievo e genero di Förster maestro di armonia di Beethoven. Sposato con l’allieva pianista Eleonora Förster, fondò una società strumentale per la divulgazione delle opere di Haydn, Mozart e Beethoven.

Nel 1852 fu insignito dell’Ordine della Corona di Ferro dall’imperatore Francesco Giuseppe e nella Biblioteca Nazionale Austriaca si conservano le sue opere, eredità strumentale dalla scrittura raffinata ed elegante. A Venezia acquistò il palazzo Malcanton, oggi palazzo Contin, centro di attività culturale e musicale. Tra i sei figli troviamo due musicisti, Giovanni Battista Contin (1823-1905) concertista, insegnante di pianoforte a Chicago, Los Angeles e irriducibile avversario di Wagner; Giuseppe Contin (1835-1889) compositore, talentuoso primo violino al Covent Garden di Londra, direttore del teatro La Fenice di Venezia e socio onorario dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. In età giovanile suonò in coppia con Bottesini, fu molto apprezzato da Rossini che lo fece esibire nel suo locale di Parigi nel 1863, la città dei violinisti. Nel 1876 inaugurò la società musicale Benedetto Marcello diventandone in seguito presidente, oggi conservatorio di Venezia ed ebbe l’onore di accompagnare con il violino la regina Margherita di Savoia nell’esecuzione di romanze al pianoforte.

Nel 1882 fu eseguita dagli allievi della scuola Benedetto Marcello la sinfonia in do maggiore composta dal Contin per il compleanno di Cosima, moglie di Wagner, nella loro casa veneziana alla presenza del suocero Liszt. Al termine del concerto Wagner fece dono della  bacchetta e del leggio al Contin, il quale pronunciò il discorso di addio alla stazione di Santa Lucia al momento della morte del compositore, esponente del periodo romantico tedesco, poeta, regista e saggista. Fu scelto come membro della giuria nell’Esposizione Musicale di Milano con Arrigo Boito e Giulio Ricordi e la sua vasta produzione è andata perduta durante il secondo conflitto mondiale. Nel 1960 Giuseppe Contin fu commemorato nel conservatorio veneziano e per la sua non comune arcata poderosa ed elegante Venezia poté affermare di aver dato all’Europa un secondo Paganini.

Tra i discendenti del secolo scorso ricordiamo Angelo Contin proprietario di una villa ai romani Parioli, una fabbrica di dirigibili e armi pesanti per l’esercito, un elicottero, una Mercedes e una squadra di calcio. Durante il servizio di leva a Casale Monferrato, a seguito di un intervento del genio militare, conobbe Ernesta Gozzano che sposò nel 1897 a Cereseto. Ernesta eseguì la prima ricerca genealogica sull’appartenenza ai marchesi Gozzani di San Giorgio e Treville nelle biblioteche romane, conclusa dall’autore di questo testo nel 2018. La fabbrica romana del Contin fu sequestrata dai tedeschi e trasferita in Germania nel 1943. L’antico stemma nobiliare riporta il primordiale nome dei Pagnin alias Contin, ritrovato nell’istituto araldico di Firenze dal veneziano Luigino Pagnin dopo aver visitato Castelseprio nel 2013, ricercatore delle proprie origini. Le numerose perle sulla corona rappresentano la vicinanza all’autorità imperiale.
Armano Luigi Gozzano 

Lo strano caso del Dottor Bruneri e del Signor Canella

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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3. Lo strano caso del Dottor Bruneri e il Signor Canella
È il 10 marzo 1926, siamo in un cimitero ebraico di Torino, un rumore di cocci e terriccio desta l’attenzione del guardiano, che sorprende un signore intento a rubare un vaso di rame da una tomba. Immediatamente avvisate le autorità, il ladro viene arrestato e portato in Questura. L’uomo non riesce a esprimersi bene, non conosce il suo nome, non sa da dove viene, né quale sia il suo mestiere, non ricorda assolutamente nulla. Le uniche parole che riesce a dire sono in piemontese: “Monsu, ch’am rovin-a nen. Ch’am fasa ‘l piasì ‘d lasseme andè”. Lo smemorato si trova in uno stato di grande agitazione, preso dall’ansia tenta un maldestro suicidio, ma tutto ciò che ottiene è essere rinchiuso nel manicomio di Collegno, dove la sua identità diventa il numero 44.170. In Questura viene foto-segnalato e gli vengono prese le impronte digitali, il cartellino segnaletico così compilato è inviato a Roma, al Servizio centrale d’identità, ma senza risultati. Intanto, lo smemorato si ambienta nella sua nuova casa, lega particolarmente con un detenuto poco raccomandabile, il milanese Riccardo Testa, cocainomane e rapinatore, soprannominato il “commediografo ladro”, con lui trascorre molto tempo, soprattutto giocando interminabili partite a scacchi. Il rapporto di amicizia diventa forte e stabile, Testa addirittura dedica all’amico senza identità un sonetto dal titolo “L’amico ignoto” (2 dicembre 1926):
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“Io non so chi tu sia, mio grande amico
eppur l’anima tua m’appar sì bella
che a te m’affido come ad una stella
s’affidava il viator nel corso antico.
Tu credi e preghi ed ami e doni, e quella
luce serena degli occhi tuoi, l’intrico
dei miei pensieri scioglie ed affratella
contro l’oscuro e vigile nemico:
Il dubbio. Oh! Non lasciarmi più giammai
amico ignoto datomi da Dio!
Senza di te mi pare d’esser solo;
senza di te non riprendo il volo
oltre l’azzurre vette ed i nevai:
incontro al sol ed al Sovrano mio.”
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Lo smemorato continua la sua vita tranquilla all’interno del manicomio, gioca a scacchi, legge, produce addirittura alcuni saggi letterari e disegna discretamente alcune caricature di altri degenti, scusandosi quando questi ultimi si mostrano offesi; gli vengono, poi, attribuite alcune meditazioni filosofiche che egli esegue sotto i rami di uno specifico pino, chiamato “il pino di Canella”. Tutto pare tranquillo e statico, quando il 6 febbraio 1927 la sua fotografia viene pubblicata sul settimanale italiano più popolare, “La Domenica del Corriere”, accompagnata da mastodontiche parole: “Chi lo conosce?” È l’inizio di una vicenda bizzarra e misteriosa. 
A Verona una donna risponde inaspettatamente alla domanda, si tratta di Giulia Concetta Canella, che riconosce nell’uomo della fotografia suo marito Giulio Canella, letterato e docente, capitano della Brigata Ivrea inviata in Macedonia e dichiarato disperso il 25 novembre 1916, presso la località di Bitola. Svelata dunque l’identità dello smemorato, che si scopre quarantaseienne padovano, sposato con la cugina, figlia di un ricco possidente terriero che aveva grossi investimenti in Brasile.  La donna parte per Collegno per avere il riscontro definitivo: dopo dieci anni di lutto e dolore il suo sogno si era avverato, l’amatissimo marito era tornato da lei e dai loro due figli, Rita e Giuseppe. La scena dell’incontro viene immortalata da una copertina della “Domenica del Corriere”, la bislacca vicenda trova finalmente un lieto fine, il direttore del manicomio dimette lo smemorato che se ne va a Verona con la moglie tanto amata. Eppure la storia non finisce qui: il 3 marzo 1927 arriva alla Questura torinese una lettera anonima, firmata da una persona che si definisce “amico della verità e della giustizia”, in cui si segnala che l’ex ricoverato non è Giulio Canella ma Mario Bruneri, tipografo torinese con non pochi conti da regolare con la giustizia. La vicenda, dunque, ricomincia da capo. La Polizia recupera le impronte digitali di Bruneri e dall’analisi risulta che le linee papillari corrispondono a quelle dello smemorato. Tale riscontro non si era potuto effettuare precedentemente perché Bruneri non era schedato come criminale pericoloso e la polizia scientifica di Roma non disponeva, nel suo archivio, del suo cartellino segnaletico. Lo smemorato non è dunque il professor Canella, ma Mario Bruneri, sposato con Rosa Negro, padre di un figlio, Giuseppino, e amante di Camilla Ghidini, tutte persone che lo riconoscono e confermano questa seconda identità. La vicenda diventa un caso mediatico, la popolazione si divide in due fazioni, i bruneriani e i canelliani, moltissimi cittadini scrivono il proprio parere ai giornali e propongono prove fantasiose a sostegno della tesi che meglio piace. Inizia un vero e complesso processo, a colpi di prove scientifiche e testimonianze dirette, nessuna delle due donne si tira indietro, Giulia non si arrende nemmeno davanti alla prova inconfutabile delle impronte digitali, la proiezione del desiderio del ritorno del marito è talmente forte che le fa distorcere la realtà. Si effettua l’esame dei padiglioni auricolari, che in ben diciassette punti differisce da quello di Canella, ma nemmeno questa prova riesce a far cambiare idea alla Penelope veronese. A riprova che non si tratta di Canella c’è il fatto che l’uomo non conosce per nulla né il latino né il greco, non sa suonare il pianoforte, ha in generale una cultura molto approssimativa, ignora elementi teologici fondamentali, si dimostra l’esatto contrario di quello che doveva essere il professor Canella. Il neuropsichiatra Alfredo Coppola, perito del Tribunale, nella perizia sostiene che lo smemorato sia Bruneri e che egli abbia simulato, con grande capacità recitativa, un’amnesia cognitiva. Il caso dello smemorato di Collegno diviene tra i più conosciuti, non solo per l’insolita vicenda, ma anche perché si tratta della prima volta in cui sociologi e neuropsichiatri spiegano ai lettori semplici che cosa sia la memoria e che cosa significhi la rimozione dei ricordi in seguito a traumi. Giulia Canella non si smuove. È innamorata di suo marito, ora che lo ha ritrovato ancora di più, infatti rimane incinta altre quattro volte da quando i due si sono ricongiunti. Il caso Bruneri-Canella ha ulteriori sviluppi e con l’ordinanza del 23 dicembre 1927, il Tribunale dichiara che l’identificazione dello smemorato con Mario Bruneri non è stata raggiunta, non si possono quindi eseguire i tre mandati di cattura. Lo smemorato chiude i suoi rapporti con la giustizia, mentre la sua vera identità rimane ad ogni effetto, in bilico tra i due profili, quello del dotto Giulio Canella e quello del povero Mario Bruneri. Il 10 gennaio 1928 il Presidente del Tribunale autorizza la direzione del manicomio a dimettere lo smemorato, rinchiuso a Collegno il 12 marzo 1927, per affidarlo in custodia all’avvocato Gino Zanetti, che lo consegna definitivamente nelle mani di Giulia Canella. Il 5 novembre 1928 il Tribunale Civile di Torino ribalta l’ordinanza del Tribunale e identifica Mario Bruneri nello smemorato. I Canella ricorrono in appello. Il 7 agosto 1929 la Corte d’Appello di Torino conferma la sentenza di primo grado. I Canella ricorrono in Cassazione e l’11 marzo 1930 la Cassazione annulla la sentenza della Corte d’Appello di Torino per insufficiente motivazione, e rinvia gli atti alla Corte d’Appello di Firenze. Il 1 maggio la Corte d’Appello di Firenze conferma la sentenza di Torino, il 24 dicembre 1931 la Cassazione conferma la sentenza di Firenze. Per la giustizia italiana lo smemorato è definitivamente Mario Bruneri, il quale deve scontare le pene che gli sono state attribuite. Il 1 maggio 1932, grazie ad un’amnistia, lo smemorato viene rilasciato dal carcere di Pallanza e nel mese di ottobre parte per Rio de Janeiro, dove il probabile suocero gode di un’ottima reputazione e possiede vaste proprietà. In quelle terre viene accolto come Giulio Canella e lì muore il 12 dicembre 1941. Nell’ultimo periodo della sua vita si dedica allo studio della filosofia e scrive una serie di saggi. A distanza di trent’anni dalla morte dello smemorato il segretario di Stato del Vaticano, il cardinale Giovanni Benelli, precisa che la Chiesa riconosce nello smemorato il professor Giulio Canella e dunque Giulia Canella rimane la sua legittima consorte, come legittimi sono i figli nati dall’unione dei due. Nel 2014 viene effettuato l’esame del DNA sui diretti discendenti, i risultati riaprono l’indagine, dimostrando che, forse, lo smemorato era in realtà Mario Bruneri.
Alessia Cagnotto

A ottant’anni dalla liberazione di Aushwitz, “Giro di posta. Primo Levi – le Germanie, l’Europa”

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Venerdì 24 gennaio, a Torino, nella corte medievale di Palazzo Madama, si apre la mostra “Giro di posta-Primo Levi, Le Germanie, l’Europa”, promossa dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi e curata da Domenico Scarpa. “Giro di posta” è realizzata da documenti per gran parte inediti e offre una vasta rete di carteggi privati che soltanto oggi diventano pubblici, e che raccontano l’Europa e la Germania divise in due. A tessere la trama sono gli interlocutori tedeschi e germanofoni di Levi, ma non soltanto loro. Le corrispondenze esposte, messaggi scarabocchiati a matita su fogli di fortuna o impeccabili lettere battute a macchina su carta intestata, attraversano quasi mezzo secolo di storia europea.

Auschwitz, esperienza di cui Levi non smise mai di indagare segreti e significati, rappresenta il fulcro geometrico della vicenda. “Se questo è un uomo” suonava, fin dal titolo, con una domanda rivolta al lettore, ma i fatti del libro erano avvenuti in tedesco e per mano dei tedeschi, e quindi quella domanda doveva arrivare necessariamente a loro. Nel 1959 fu avviata finalmente la traduzione del libro in tedesco, che uscì nel 1961, lo stesso anno in cui fu costruito il muro di Berlino. Da quel momento in poi una “intricata rete epistolare” mise Primo Levi in contatto con un gran numero di interlocutori di spessore, lettrici e lettori comuni, lettori che erano anche scrittori, ex compagni di lager e qualcuno che in Auschwitz stava dall’altra parte. Conoscendo Levi, non c’è da meravigliarsi che tra i suoi corrispondenti lo attraessero i più lontani per mentalità e geografia. Negli 80 anni della liberazione di Aushwitz (27 gennaio 1945-27 gennaio 2025) il giro di posta del titolo si presenta come una ampia discussione sulla Shoah e sul suo posto in Europa da ricostruire dopo la guerra, ma ben presto divisa in due blocchi contrapposti. Si presenta come una rete per molte ragioni: perché ci sono circuiti di posta dove una stessa lettera viene spedita a più destinatari, per sollecitarli a dire la loro; perché copre come un reticolato aree della Germania Est e Ovest, sconfinando in ulteriori Paesi; perché vi si intrecciano quattro lingue, l’italiano, il francese, l’inglese, il tedesco adoperate da Levi. La mostra, promossa dal Centro Internazionale Studi Primo Levi, medaglia del Presidente della Repubblica, è curata da Domenico Scarpa e sarà aperta fino al 5 maggio 2025. Con ingresso incluso nel biglietto del museo, è stata realizzata con il progetto LeviNeT, coordinato presso l’Università di Ferrara da Martina Mengoni, curatrice del volume “Primo Levi – il carteggio con Heinz Riedt”, edito da Einaudi. Il progetto, finanziato dalla European Research Concil prevede, da qui al 2027, la pubblicazione progressiva in open access delle corrispondenze tedesche di Levi. Il progetto di allestimento è a cura di Gianfranco Cavaglià e Anna Rita Bertorello, Ars Media per il progetto grafico di comunicazione visiva.

La mostra comprende 5 sezioni: 1- Primo Levi. Un precoce pensiero europeo; 2- Hermann Langbein. Un uomo formidabile; 3-Heinz Riedt. Un tedesco anomalo; 4- Giro di posta. Che dà il titolo all’intero allestimento; 5- Le lettrici e i lettori. L’allestimento prevede un percorso di accessibilità per il pubblico con disabilità visiva: saranno presenti mappe e qr code tattili tramite i quali sarà possibile accedere dal proprio dispositivo mobile a contenuti audio per ciascuna sezione.

In occasione dell’inaugurazione della mostra, il Centro Internazionale di Studi Primo Levi, in collaborazione con Poste Italiane, ha realizzato un annullo filatelico dedicato: per il giorno d’inaugurazione e il successivo giorno di apertura al pubblico, presso Palazzo Madama, due ufficiali di Poste Italiane saranno lieti di apporre il timbro sulle cartoline filateliche, anch’esse realizzate per l’occasione con francobollo selezionato a tema.

Info: Palazzo Madama-Museo Civico d’arte antica, Piazza Castello, Torino – 24 gennaio/5 maggio 2025. Telefono 011 4433501. Sito www.palazzomadamatorino.it

Lunedì e da mercoledì a domenica dalle 10 alle 18. Martedì chiuso.

 

Mara Martellotta

 

 

Magnifiche collezioni “Arte e Potere” della Genova dei Dogi aprirà la stagione alla Reggia di Venaria

Il 2025 sarà un anno particolarmente ricco di novità per le mostre e gli eventi internazionali realizzati alla Reggia di Venaria. In programma, già in primavera, si aprirà la mostra dedicata alle Magnifiche collezioni “Arte e Potere” della Genova dei Dogi (titolo provvisorio), prevista dai primi di aprile fino a settembre nelle sale delle arti, realizzate in collaborazione è col Musei Nazionali di Genova, Palazzo Spinola e Galleria Nazionale della Liguria. Le straordinarie raccolte d’arte di alcune delle più importanti famiglie del patriziato genovese (Pallavicino, i Doria, gli Spinola e i Balbi) conservate a Palazzo Spinola di pellicceria, giungeranno alla Reggia di Venaria insieme alle più recenti acquisizioni del Musei Nazionali di Genova con prestiti da altri musei e collezioni privata. Un patrimonio unico di arte e storia che annovera celebri dipinti di Peter Paul Rubens, Antoon Van Dijk, Orazio Gentileschi, Guido Reni, Carlo Maratta, Luca Giordano, Hyacinthe Rigaud e Angelica Kauffman, oltre ai Maestri della grande scuola figurativa genovese come Bernardo Strozzi, Domenico Piola, Giovanni Benedetto Castiglione detto Il Grechetto e Gregorio De Ferrari. Attraverso un centinaio di opere, tra dipinti, sculture, argenti e arredi del Seicento e Settecento, si proporrà un percorso espositivo riferito alle raccolte del palazzo, diventato poi museo, ma anche il racconto del secolo d’oro “Genova la superba”, antica città retta dai Dogi con la sua regalità e fasto e teatro del Barocco.

L’esposizione continuerà il filone tematico dedicato alla storia, all’arte e alla cultura delle corti, e alla rappresentazione della loro magnificenza che la Venaria Reale sta perseguendo da tempo.

 

Mara Martellotta

 

 

Inseguendo il Liberty

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte

L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare. Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”. Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso. (ac)

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
Torino, capitale italiana del Liberty
Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
Liberty misterioso: Villa Scott
Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

Articolo 5. Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti

Negli articoli precedenti mi sono soffermata su due particolari edifici torinesi assai noti, Villa Fenoglio e Villa Scott, ma, poiché la nostra città è ricca di palazzi e ville in stile Liberty, nei due articoli che seguono vorrei proporre una sorta di “guida turistica” rivolta sia a chi, per caso, si trovi a passare nei dintorni di case e ville Liberty, e sia a chi, per pura curiosità, amerebbe approfondire l’argomento.

Pietro Fenoglio, celebre ingegnere-architetto, figura essenziale per il Liberty torinese, nel 1902 progetta per i fratelli Besozzi il Villino Gardino di corso Francia 12, angolo via Beaumont, dove lo stile floreale si affaccia nelle morbide linee del ferro battuto dei balconi. Nel 1909, sempre per la medesima famiglia, si dedica alla palazzina di via Magenta, e all’ampio isolato situato tra le vie Campana, Saluzzo e Morgari. La Palazzina Ostorero, di via Beaumont 7, del 1900, due piani più sottotetto, è contrassegnata da una raffinata decorazione floreale a graffito, da un tetto a capanna e torrette a tre livelli. La Palazzina Besozzi, di corso Francia 10, ha finestre doppie suddivise da colonne e capitelli, e discrete decorazioni sotto la gronda del tetto in legno. Tra il 1899 e il 1900, l’illuminato costruttore si dedica a Casa Gotteland, di via San Secondo 11. La facciata ha una scansione regolare e simmetrica, le decorazioni si concentrano sul ricco cornicione che corre tra il quarto e quinto piano, sui balconi, sulle finestre, sul portone d’ingresso. Sotto il davanzale, le finestre presentano un motivo decorativo ispirato alle forme di una conchiglia, festoni di fiori ornano i timpani sovrastanti le finestre; un motivo pure a conchiglia si trova nelle ringhiere in ferro battuto dei balconi; il portone d’ingresso in legno e vetri colorati e i fregi dipinti sull’androne ne segnano l’indirizzo apertamente floreale. Nel 1901 l’avvocato Michele Raby commissiona a Fenoglio la propria abitazione privata, da allora conosciuta come Villino Raby, corso Francia 8, vicino a via Beaumont. Una costruzione contrassegnata da un’estrema articolazione degli spazi esterni, a volte arretrati, a volte avanzati, con un originale portico terrazzato utilizzato come ingresso. Di grande rilievo l’originale bovindo angolare decorato da piccole teste di fanciulle. In fondo all’ampio cortile vi è una palazzina di servizio con annesse scuderie, caratterizzata da un tetto conico alla francese. Rimaneggiato nel corso degli anni, il villino nel 2009 è stato acquistato dall’Ordine dei Medici della Provincia di Torino, che si è occupato della sua lunga ristrutturazione. Del 1901 è Casa Boffa Costa, di via Sacchi 28 bis, che doveva necessariamente adeguarsi, per altezza, facciata e dimensioni, agli attigui e omogenei palazzi del tratto del corso porticato. Suggestioni Liberty si evidenziano comunque nelle finestre e nei balconi modellati in pietra artificiale; quattro finte colonne a tutta altezza hanno il compito di snellire il gioco prospettico, armoniosamente ritratto dal tondo dei balconi e il culmine delle finestre. Della vicina Casa Debernardi, via Sacchi 40/42, caratterizzata da due bovindi laterali che si alzano al colmo dei portici, forse Fenoglio ha posto solo la propria firma su di un’opera realizzata da altri. Interessante e aggraziata la facciata che dà sul cortile, con decorazioni Liberty in litocemento. Del 1902 (stesso anno di Palazzo Fenoglio-La Fleur e di Villa Scott) è Casa Pecco, via Cibrario 12, destinata all’affitto di abitazioni e di negozi, che evidenzia un apporto Liberty più modesto e garbato e meno vistoso. Si tratta di un edificio piuttosto imponente, che occupa un isolato trapezoidale nei pressi di via Le Chiuse, contraddistinto al piano terra da un portone in legno, la cui sagoma è ripresa dalle aperture del piano rialzato. Le finestre sono sovrastate da decorazioni geometriche, una cornice con motivi floreali caratterizza il paramento murario del terzo piano. La modellazione del ferro battuto contrasta piacevolmente con i lineari elementi litocementizi dei balconi del primo piano.


Di raffinatissimo stile Liberty è la Palazzina Rossi Galateri di via Passalacqua 14, (una perpendicolare di via Cernaia, alle spalle di piazza XVIII dicembre), segnata da motivi naturali quasi Rococò: tralci di vite, finta corteccia, fiori di grandi dimensioni, bovindi sormontati da terrazzini, e un elegantissimo portone d’ingresso in legno, al di sopra del quale si evidenziano le linee eleganti in ferro battuto del balcone. La costruzione è stata commissionata a Fenoglio dalla contessa Emilia Rossi, figlia del deputato Teofilo Rossi e moglie di Annibale Galatei, conte di Genola e di Suniglia. Squisita la resa armoniosa dei ferri battuti lavoratissimi, i particolari lignei come i telai delle finestre, la luminosa cromia delle vetrate, la morbida decorazione floreale, la bellissima vetrata ovale al piano rialzato e i particolari decorativi della facciata: tutto è studiato nei minimi particolari, ed è reso all’insegna del bello assoluto. Del 1903 è Casa Guelpa, via Colli 4, all’incrocio con corso Vittorio Emanuele 115, in un raffinato Liberty disegnato sui balconi con i motivi a conchiglia (il lato sul corso si richiama, invece, al Neobarocco). Casa Rey, di corso Galileo Ferraris 16/18, risale al 1904. Il palazzo, tra i cinque e i sei piani, ai lati ha due bovindi su tre ordini con vetri colorati e decorazioni floreali; la facciata si distingue per l’alternanza tra intonaco e laterizio in cui qua e là compaiono piccoli mostri su alcune finestre e capitelli su qualche balcone. Le finestre, che più si innalzano e più si alleggeriscono per gioco prospettico e capacità costruttiva, presentano eleganti modanature Liberty. Molto raffinati i quattro portantini in legno scolpito.

Casa Bellia, di corso Matteotti, angolo via Papacino, è caratterizzata da un ampio rosone, con colonnine poste a raggiera nella parte più alta di una simil-torre e cornici a dente di lupo che si alternano a particolari sia orientali che zoomorfi e fitomorfi. Nella parte angolare, un bovindo dalle linee tonde e dalle finestre ad arco, è sormontato da un tetto fatto a cupola piramidale. Particolari i balconi del primo e del terzo piano con finestre a triplice luce. Sempre in via Papacino e ancora con committenza Bellia, nello stesso anno – 1904 – viene edificato un edificio di quattro piani fuori terra, con seminterrati in vista e mansarde laterali a finestre binate. Un bovindo poligonale, chiuso nella parte superiore da un balcone con balaustra in cemento, allaccia due piani. Ornamenti floreali impreziosiscono il portone. Casa Rama, su progetto di Fenoglio, del 1909, in via Cibrario 63, è per noi torinesi del tutto particolare: in questa palazzina Liberty morì Guido Gozzano, il poeta crepuscolare che così ricorda la sua e nostra città: “Come una stampa antica bavarese/ vedo al tramonto il cielo subalpino/da Palazzo Madama al Valentino/ardono l’Alpi tra le nubi accese/È questa l’ora antica torinese,/è questa l’ora vera di Torino”. Cari curiosi e appassionati di Liberty, sarete ormai stanchi e affaticati, allora vi propongo una meritata pausa prima di riprende il tour nel prossimo articolo.

Alessia Cagnotto

Storia: Torino tra i barbari

Breve storia di Torino

1 Le origini di Torino: prima e dopo Augusta Taurinorum
2 Torino tra i barbari
3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia
4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento
5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi
6 Torino Capitale
7 La Torino di Napoleone
8 Torino al tempo del Risorgimento
9 Le guerre, il Fascismo, la crisi di una ex capitale
10 Torino oggi? Riflessioni su una capitale industriale tra successo e crisi

2 Torino tra i barbari

Continua dunque il progetto in cui mi sono impelagata riflettendo su quanto sappiamo del mondo e quanto invece conosciamo del territorio in cui viviamo.
Questa serie di articoli nasce da una discussione avuta in classe con i miei studenti, con i quali ho potuto dibattere sullimportanza che diamo a ciò che sta lontano, a discapito di ciò che invece possiamo effettivamente raggiungere, vedere, studiare a fondo. È un lavoro per me nuovo, quello che sto facendo, una sfida personale tutta di ricerca prettamente storica che ho piacere di condividere con voi, cari lettori, nella speranza di coinvolgervi e intrattenervi con un po di notizie locali che sono riuscita a reperire, esulando da quelle che sono le mie zone di confort, ossia larte e la scuola.
Ecco allora vi lascio alla lettura di questo secondo articolo, dedicato ad approfondire ciò che accadde alla nostra bella urbe durante le cosìddette invasioni barbariche.
Sappiamo davvero poco sulle vicissitudini di Torino durante lalto Medioevo. Limpero romano cade per cedere il posto a una progressione di transitori regni barbarici, si apre un periodo incerto, caratterizzato da crisi commerciali, un forte calo demografico e un generale regresso della vita urbana. Il territorio di Torino viene dapprima inglobato nel regno degli Ostrogoti, successivamente, nel giro di circa un secolo, a tale popolazione subentrano i Longobardi, che detengono il potere fino al termine del secolo VIII, ossia fino allarrivo dei Franchi. Torino è ora parte del Regnum Italiae e appartiene al vasto Impero di Carlo Magno, che si espande dalla Spagna ai Paesi Bassi fino alla Germania centrale. Ancora una volta la posizione geografica della città fa sì che lurbe diventi un importante punto di collegamento tra i luoghi principali del dominio carolingio: i territori italiani e lancora importantissima Roma.
Le fonti pervenuteci riguardo a tale periodo storico sono esigue e frammentarie, si tratta principalmente di documenti ecclesiastici, attestati ufficiali, cronache o testimonianze redatte da titolari laici del potere, in ogni caso tutti atti che si riferiscono a persone più che benestanti e di particolare riguardo, come nobili, vescovi o imperatori, al contrario ci è quasi impossibile recuperare notizie sul modus vivendi della gente comune.

Sappiamo però che pressoché tutte le città murarie compresa Torino offrivano protezione a chi, vivendo nelle campagne, era costantemente danneggiato dalle incursioni dei barbari.
Nel IX secolo anche lImpero Franco si spegne: i regni e i ducati che ne facevano parte sono in continua lotta tra loro, i grandi signori si combattono lun laltro e nel mentre tentano di arrestare le invasioni dei Saraceni e degli Ungari.
Torino si presenta come un avamposto di primaria importanza per fronteggiare le incursioni saracene provenienti dalle Alpi ed è dunque necessario, per chiunque ambisca a governare il Regno Italico, esercitare unazione di controllo anche sul territorio del capoluogo piemontese. È Ottone I che, alla fine del X secolo, ha la meglio sugli altri aspiranti: nasce lImpero romano-germanico. A questo punto della storia, Torino passa sotto la giurisdizione del marchese Arduino III, noto come il Glabro, il quale detiene il dominio non solo sulla città ma su tutta la zona conosciuta come marca di Torino,  comprendente i territori circostanti e il corridoio alpino. Lantica Augusta è destinata a sottostare agli Arduino, vassalli imperiali con titolo di conti e marchesi della città fino alla morte della contessa Adelaide (1091), ultima discendente della famiglia. È tuttavia necessario ricordare limportanza della casta ecclesiastica, i vari membri della stirpe reggente devono dividere il potere con i vescovi locali che, da Massimo in avanti, esercitano lautorità spirituale e temporale sulla diocesi ma anche sulla cittadinanza. Il governo episcopale risulta un punto fermo in questo periodo di grande confusione, è grazie ad esso se la città presenta una struttura amministrativa e una accettabile stabilità politica. Da non dimenticare inoltre il fatto che il clero vanta un duplice espediente per assicurarsi il mantenimento del credito politico, da una parte legemonia spirituale, dallaltra il fatto che la Chiesa costituisce lunica fonte di alta cultura, per lappunto chi appartiene al clero episcopale fa parte dei pochi in grado di leggere e scrivere.


Si può dunque affermare che la storia di Torino segua le generiche vicissitudini dellItalia, lo specifico si perde in una più ampia visione di accadimenti cronologici che segnano il destino di tutta la penisola, con leccezione di sporadici eventi che è possibile riportare grazie alle documentazioni rinvenute. Proviamo allora a ripercorrere un po piùda vicino  le vicende della penisola e della nostra città durante la venuta degli Ostrogoti, poi dei Longobardi e infine ciò che avviene nel periodo carolingio.
Quando lImpero Romano crolla, Torino non pare accorgersene, la quotidianità della cittadinanza rimane sostanzialmente imperturbata di fronte alle vicissitudini politiche lontane, e anche quando nel 493 Odoacre viene deposto dagli Ostrogoti, la notizia non desta particolare interesse.
Il nuovo re, Teodorico, tuttavia nota la città pedemontana e la ritiene un cruciale avamposto strategico. In questo contesto Torino diventa per poco protagonista: agli albori del nuovo regno un esercito di Burgundi riesce ad entrare in Italia, attraversando la Valle dAosta e saccheggiando le cittadine della pianura lombarda; Teodorico affida il compito di sedare linvasione e negoziare il rilascio dei prigionieri ai vescovi di Pavia e Torino. La vicenda si conclude positivamente e nel 508 Teodorico espelle gli invasori dal regno e rende Torino un caposaldo della sua linea difensiva.
Limperatore muore nel 526 e la stabilità del potere politico viene bruscamente scossa. Prende il comando il bizantino Giustiniano, la cui aspirazione più grande è restaurare lantico Impero Romano; egli decide di riunire le province occidentali ai territori orientali che governa da Costantinopoli.
A seguito di tale desiderio dellimperatore, nel 535 il generale Belisario inizia la riconquista dei territori italiani, le battaglie che ne conseguono sono violente e sanguinose e portano alla distruzione di gran parte dei territori settentrionali e centrali della penisola. Nel 553 cade lultimo avamposto ostrogoto e il regno di Teodorico viene cancellato del tutto. La vittoria di Giustiniano però non è destinata a durare. La conquista bizantina ha conseguenze negative e comporta linizio di unaltra invasione barbarica, quella dei Longobardi. Alboino in breve tempo ottiene tutta lItalia settentrionale e centrale, occupa il Piemonte e rende Torino unimportante roccaforte del nuovo regno. Per due secoli i Longobardi detengono legemonia, il segno del loro passaggio è incisivo e ben evidente, soprattutto in Lombardia, regione che ancora oggi porta il loro nome.
I Longobardi, confederazione di più gentes, assimilabili nellaspetto perché portatori di una lunga barba, sono bellicosi, saccheggiatori alla ricerca di nuove terre in cui insediarsi e soprattutto sono seguaci dellarianesimo. È appunto la questione religiosa che determina allinizio grosse difficoltà e spaccature con la convivenza autoctona, tutta cristiana. Ci vuole del tempo, ma alla fine ariani e pagani si convertono al cattolicesimo, come dimostra la diocesi torinese che riesce a ricongiungersi con il papato a Roma nel giro di neanche un secolo. Nonostante la natura guerriera dei nuovi dominatori, a Torino non pare esserci alcuna situazione particolarmente violenta: i contadini continuano a svolgere le loro attività e i vescovi sono lasciati liberi di occuparsi dei propri fedeli. I nobili longobardi si impossessano delle zone adiacenti allurbe, come per esempio il colle su cui sorge Superga, il cui nome deriverebbe da Sarropergia, dal germanico Sarra-berg, monte della collina.  Quel che emerge è che i Longobardi sono sottoposti ad un graduale processo di romanizzazione, come dimostra la scomparsa della loro lingua a favore del latino volgare. Daltro canto i nuovi dominatori apportano notevoli modifiche agli usi e costumi di derivazione romana, ad esempio il sistema delle tasse e lassetto urbano dei centri abitati. Viene inoltre smantellata lorganizzazione delle province dellImpero, a favore dellistituzione di ducati, governati da comandanti militari longobardi, detti duchi; i nuovi siti hanno alto valore strategico, tra questi emergono per importanza Torino, Asti, Ivrea e Novara.
A Torino i duchi longobardi  erigono diversi nuovi monumenti e palazzi, accanto ai luoghi cristiani già preesistenti. Sorgono chiese e abitazioni che esulano dallassetto regolare della città: esse vengono costruite senza tenere in minima considerazione lo schema urbano e i tracciati originali delle strade, il tessuto della città cambia in maniera irreversibile.
Il regno longobardo sopravvive fino al 773, anno in cui Carlo Magno invade definitivamente lItalia. Una parte dellesercito varca le Alpi attraverso il passo del Gran San Bernardo mentre un altro reparto guidato dal re in persona- raggiunge Torino, attraverso il valico del Moncenisio e la Val Susa. Torino è proprio la prima città a cadere sotto il dominio franco. Carlo Magno si proclama re dei Franchi e dei Longobardi, sottolineando in tal maniera la volontà di amministrare il regno come una provincia del suo impero franco, concedendo agli abitanti di mantenere la propria identità.  Lo stesso governo di Carlo in Italia si appoggia alla struttura politica precedente, Torino stessa ne è unacuta dimostrazione e testimonianza.
La nuova amministrazione è tuttavia più efficiente, grazie anche ai missi dominici, gli emissari dellimperatore, i quali devono indagare e occuparsi delle eventuali ingiustizie e sono altresì incaricati di supervisionare lamministrazione locale.
A caratterizzare limpero carolingio è la strettissima alleanza con la Chiesa, ancora una volta Torino si dimostra esempio perfetto per esplicare il sistema di governo attuato. La città e le zone adiacenti sono un importante punto strategico, lurbe sorge su un asse cruciale per la sorveglianza e la comunicazione tra il Regno Italico, la Roma pontificia e il cuore dei territori franchi. Il passaggio attraverso i valichi prende un nuovo nome: strada francigena, ossia la strada dei franchi. Daltra parte Torino è governata da un conte, amministratore della giustizia in vece dellimperatore, egli èaffiancato nellincarico da fidati collaboratori, sia laici che ecclesiastici.


Le fonti forniscono diverse importanti informazioni sulla centralità del ruolo del clero nellamministrazione carolingia; ad esempio, nellanno 816, Ludovico il Pio figlio di Carlo Magno- nomina vescovo di Torino Claudio, suo cappellano e consigliere. Tale scelta è dovuta allesigenza di lasciare una diocesi così importante in mani fidate. Claudio è comunque figura centrale per la storia del capoluogo piemontese, è infatti grazie a lui che nasce la schola di Torino, volta ad accogliere studenti dal Piemonte e dalla Liguria. A Claudio succedono prima Vitgario, il quale segue il processo di rinnovamento cristiano in risposta alle esigenze dellimpero carolingio, e poi Regimiro, che istituisce la regola di Crodegango di Metz, secondo la quale i canonici della cattedrale devono condurre una vita monastica attiva, in stretta collaborazione con il vescovo.
Con la morte di Ludovico il Pio lenorme regno franco inizia a frantumarsi: dopo una sanguinosa lotta intestina i tre discendenti di Ludovico si spartiscono il regno.
Lultimo re è Carlo il Grosso, figlio di Ludovico il Germanico, che tuttavia non si dimostra allaltezza di governare né di fronteggiare i nuovi nemici Normanni e Saraceni- e viene così deposto dai vassalli nellanno 887.
Il Regno Italico è ormai un immenso campo di battaglia su cui si scontrano i grandi signori dellepoca e Torino è di nuovo in balia degli importanti eventi che determinano la Storia dei popoli.

 ALESSIA CAGNOTTO 

Superati 50mila euro per i cinque smalti del Cofano di Guala Bicchieri

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica di Torino è lieto di annunciare che, grazie alla straordinaria generosità di 742 piccoli e grandi donatori, ha superato l’obiettivo di 50.000 € nella sua campagna di crowdfunding, lanciata dal 28 marzo al 31 dicembre 2024 per acquisire cinque ornamenti in smalto di Limoges provenienti dal cofano di Guala Bicchieri, capolavoro identitario della sua collezione.

I cinque ornamenti – elementi metallici con decoro floreale in smalto champlevé – che decoravano originariamente il cofano del cardinale vercellese Guala Bicchieri (1160-1227), saranno acquisiti grazie all’eccezionale contributo di un ampio pubblico di appassionati e sostenitori del patrimonio storico e artistico dei Musei Civici di Torino.

Una raccolta fondi inaugurata dalla generosa donazione di Sir Paul Ruddock, grande collezionista di arte medievale ed estimatore del Museo Civico torinese, e quindi conclusa grazie al significativo sostegno della Fondazione CRT, che da sempre è accanto a Palazzo Madama in tutti i suoi progetti.

 

Il cofano del cardinale Bicchieri, realizzato in legno e decorato con smalti e oreficeria, è uno degli esempi più importanti dell’arte medievale e rappresenta un unicum nella storia dell’arte di Limoges.

Originariamente impreziosito da quaranta medaglioni e numerosi elementi decorativi in rame sbalzato e smalto champlevé, ha visto la perdita di diversi componenti durante la suo lungo e travagliato passato.

A marzo 2024 Palazzo Madama ha lanciato la campagna di crowdfunding con l’obiettivo di acquistare i cinque preziosi frammenti, che per secoli sono stati parte di questo capolavoro della storia, e di riportare il cofano alla sua originaria bellezza. Tali smalti furono verosimilmente trafugati a fine Settecento nel periodo delle guerre napoleoniche – quando il cofano era conservato nella chiesa di Sant’Andrea di Vercelli – e successivamente confluirono nella collezione di Jules Chappée, industriale ed erudito di Le Mans, quindi vennero dispersi dagli eredi e infine approdarono presso l’antiquario parigino che li ha ora messi in vendita.

Con l’acquisizione di queste cinque opere, il museo è ora in grado di restituire una ulteriore parte del decoro originario all’opera, ricollocandole sul retro del cofano, che oggi risulta privo di queste decorazioni.

Il successo di questa campagna è una commovente e profondamente significativa testimonianza della forza e dell’impegno della comunità che sostiene Palazzo Madama e i Musei Civici di Torino“, ha dichiarato Giovanni Carlo Federico Villa, Direttore di Palazzo Madama. “Grazie alla generosità di centinaia di donatori, non solo aggiungiamo parti essenziali al cosiddetto ‘cofano di Guala Bicchieri’, ma poniamo nuovamente l’attenzione su un momento fondamentale della storia e del farsi d’Europa per il tramite di uno dei suoi grandi protagonisti. Sincera è la gratitudine per i numerosissimi che hanno voluto prendersi il tempo di contribuire a questo importante progetto, dando un senso al concetto di cittadinanza attiva e di memoria”.

I cinque smalti che ora riusciremo ad acquisire considerati da soli sono semplici frammenti della raffinata arte di Limoges nel Duecento, ma la loro importanza risiede nell’appartenere ad un capolavoro, cui ora possiamo ricongiungerli. Il loro riposizionamento sul cofano, a distanza di più di duecento anni, è un’operazione filologica importante che permetterà – come avviene in pittura quando una predella perduta torna accanto alla tavola cui era associata – di poter ammirare il cofano completo di alcune delle sue parti mancanti, così come esso doveva apparire a Guala Bicchieri nel 1220” – dichiara Simonetta Castronovo, conservatrice di Palazzo Madama, che fu già protagonista dello studio e acquisizione del cofano del cardinale da parte della Città di Torino e della Regione Piemonte nel 2004.

Durante tutto il corso del 2024 Palazzo Madama ha organizzato un intenso programma di sensibilizzazione, con incontri, conferenze, laboratori, visite guidate e dibattiti che si sono svolti non solo in museo ma in diverse sedi del territorio piemontese. Un ringraziamento particolare anche allo storico Alessandro Barbero, che ha unito la sua voce a quella di Palazzo Madama per sostenere la campagna.

Il risultato è stato ottenuto attraverso la piattaforma online di crowdfunding Rete del Dono, che ha permesso ai numerosissimi donatori – singoli, gruppi, famiglie, fondazioni e associazioni – di partecipare all’iniziativa.

Nella primavera 2025 Palazzo Madama offrirà a tutti i donatori l’opportunità di vedere in anteprima gli smalti appena acquisiti, in una presentazione in museo riservata ed esclusiva.

Palazzo Madama dimostra ancora una volta di essere un punto di riferimento fondamentale per la cultura italiana ed europea, e il successo di questa campagna di crowdfunding conferma l’importanza di collaborazioni e partecipazione per garantire la conservazione e la valorizzazione del patrimonio dei Musei Civici di Torino. Un patrimonio comunitario. Un patrimonio di tutti.

Tutte le info qui: https://www.palazzomadamatorino.it/it/evento/ritorno-a-casa-il-cofano-ritrova-smalto

Le origini piemontesi di Giuseppe Verdi

 

I discendenti dei Walser provenienti dai villaggi del Monte Rosa emigrati in Valstrona dalla Val d’Ossola e Valle Anzasca generarono antiche importanti famiglie. I Gianoli di Chesio, fondatori della società mineraria per l’estrazione del ferro sull’Alpe Loccia con un ramo della famiglia Cane del condottiero Facino, emigrato da Casale alla Piana di Fornero per sfuggire alla prepotenza dei marchesi del Monferrato; i conti Gozzano di Luzzogno, proprietari del patrimonio più grande di sempre del Monferrato, marchesi di San Giorgio, Treville e nobili dell’impero austroungarico; i Guglielminetti di Sambughetto, antenati della scrittrice Amalia definita l’unica poetessa italiana da Gabriele D’Annunzio, amante del poeta Guido Gozzano di Agliè la cui famiglia era proveniente da Luzzogno; gli Uttini di Chesio, Otino o Utino del ramo materno di Giuseppe Verdi, giunti nel Ducato di Milano nel 1200 con il cognome Hutten.

È doveroso ricordare l’americana Mary Jane Phillips-Matz (1926-2013), per oltre 30 anni instancabile ricercatrice sulla genealogia del grande compositore, amica di Ezra Pound protagonista e forza trainante del modernismo poetico di inizio ‘900 con Thomas Eliot. La biografia su Giuseppe Verdi di Mary Jane fu pubblicata nel 1992 dalla Banca di Piacenza, nel 1993 dalla Oxford University Press e nel 1996 dalla casa editrice Fayard di Parigi. Già su un’edizione di Famiglia Cristiana del 1990 fu citata da Maria Grazia Gibelli con un inserto sulla famiglia verdiana, a conclusione delle ricerche negli archivi parrocchiali e alla  certezza storica ottenuta grazie alla collaborazione dei discendenti di Maria Filomena Carrara-Verdi adottata nel 1869, cugina del maestro e figlia del suo notaio personale.
Luigia Uttini filatrice, mamma di Giuseppe Verdi e prima moglie dell’oste rivenditore di sale Carlo Verdi, era figlia di Carlo Uttini e di Angela Villa, abitanti a Saliceto di Cadore nell’ufficio del negozio di alimentari della vecchia Posta, nonni di Giuseppe Verdi trasferiti a Busseto nel 1800. Mary Jane scoprì gli antenati del compositore, i bisnonni Lorenzo Uttini nato il 13-8-1708 nella parrocchia di Crusinallo di Omegna e la moglie Maria Bracco. Madrina del battesimo di Lorenzo fu la zia Maria Francesca Avanzini, sposata nel 1708 nella chiesa di San Vitale del comune piacentino di Besenzone con Francesco, fratello di Giacomo Antonio Uttini trisnonno materno di Giuseppe Verdi. Era originario di Cranna di Sopra, frazione di Crusinallo, piccola comunità montana nella Diocesi di Novara dove nel 1670 fu eretto il santuario di San Fermo martire.

Le antiche tradizioni musicali degli Uttini ci riportano a Francesco Antonio Baldassarre, violinista e compositore marito di Rosa Scarlatti sposata nel 1753, cantante lirica  conosciuta a Firenze presso la Compagnia Teatrale Mingotti e nipote del compositore barocco napoletano Alessandro Scarlatti. Il violinista Uttini, membro dell’Accademia Filarmonica di Bergamo e Bologna, debuttò a Genova esibendosi davanti a Mozart e fu direttore dell’Orchestra Reale di Corte svedese. Alla morte della moglie Rosa sposò a Stoccolma nel 1788 la soprano svedese Sofia Liljegren, conosciuta come Sofia Uttini e il figlio Carlo fu attore e ballerino del Corpo Reale svedese. Ricordiamo l’esibizione della soprano Elisabetta Uttini nella basilica di San Marco a Venezia nel 1721 e don Carlo Uttini, sacerdote e grande pedagogista italiano, cugino del compositore di Busseto. Mary Jane scoprì una figlia illegittima di Verdi, abbandonata nell’orfanotrofio di Cremona avuta da Giuseppina Strepponi nel 1851, in quel momento amante ed in seguito sua seconda moglie. L’ardente patriota è considerato tuttora uno dei maggiori  compositori di tutti i tempi e la sua musica assimilata nella coscienza nazionale rappresenta un’epoca memorabile.
Armano Luigi Gozzano 

395, 476, 1453, 1492… ma quando inizia e finisce il Medio Evo?

Federico Barbarossa arrestato a Susa. Ma davvero? Proprio lui, il grande imperatore del Sacro Romano Impero viene bloccato dai segusini mentre a cavallo, circondato dalle sue guardie, esce dalla Porta Savoia lungo le mura romane, accanto alla cattedrale di San Giusto. Sembra impossibile, la notizia ha dell’incredibile, eppure fu proprio così, come si vede anche nella stampa d’epoca sulla copertina del libro che lo storico e romanziere Gianni Oliva ha dedicato alla storia del Piemonte medioevale. L’imperatore venne spesso, per motivi strategici, a Torino passando attraverso i valichi alpini e più volte si accampò a Susa con il suo esercito. Il secondo passaggio risale al marzo 1168 quando, sconfitto dai lombardi, decise di rientrare in patria e mettersi al sicuro oltre le Alpi. Ma a Susa qualcosa andò storto. La notizia della caduta in mani nemiche di un presidio militare presso Novara turbò molto Federico che ordinò una ritorsione facendo impiccare nel borgo valsusino un prigioniero bresciano. La crudeltà del sovrano germanico scatenò una rivolta, i segusini si ribellarono e cercarono di impedire la partenza dell’imperatore attraverso le Alpi. Timoroso di finire male Federico I adottò uno stratagemma e fuggì di notte da Susa.
È solo uno degli episodi poco conosciuti e curiosi delle spedizioni militari del Barbarossa in Italia che troviamo nel libro di Oliva “ Storia del Piemonte Medioevale”, Edizioni Susalibri. Uno degli scontri più famosi della storia italiana medioevale è invece la battaglia delle Chiuse in cui Carlo Magno sbaragliò i longobardi nel 773 all’imbocco della Valle di Susa, resa celebre dalla tragedia del Manzoni “Adelchi” e illustrata da Massimo d’Azeglio con una litografia nel 1829. Il volume abbraccia un arco di tempo molto ampio. Un millennio di storia del Piemonte, dal IV al XIV secolo, dai primi vescovi cristiani alla nascita dei principati del Quattrocento passando attraverso le invasioni barbariche, le lotte tra Longobardi e Franchi, le incursioni dei saraceni, gli interventi in Italia del Barbarossa, la stagione dei cavalieri Templari in Piemonte e l’affermazione dei Liberi Comuni. La nascita dei castelli, Arduino, re d’Italia, la contessa Adelaide di Torino e Susa e il tramonto del Medioevo con i marchesi del Monferrato e di Saluzzo, i Savoia alla conquista di Torino, il Conte Verde, il Conte Rosso e Amedeo VIII completano le vicende regionali narrate nel libro che ricostruisce “con rigore scientifico e semplicità narrativa un percorso tanto carico di suggestione quanto ancora poco conosciuto”.
Altro che “secoli bui” dunque, altro che disinteresse. I libri sul Medioevo vanno a ruba in edicola e in libreria. C’è voglia di Medio Evo e di sapere come si viveva a quell’epoca. Epoca bizzarra “l’età di mezzo”: si sa quando comincia, non si sa con certezza quando finisce. Comincia nel 476 dopo Cristo, l’anno della caduta dell’Impero romano d’Occidente anche se, secondo altri, l’inizio va anticipato al 395 quando muore Teodosio, l’ultimo imperatore romano a reggere l’impero unito, ma ci sono molti dubbi sulla data che segna la fine del Medio Evo. Di solito si guarda al 1492, alla scoperta dell’America, ma secondo non pochi storici il termine ultimo sarebbe il 1453, il momento in cui Costantinopoli viene conquistata dai turchi Ottomani spegnendo per sempre la fiamma dell’Impero cristiano bizantino. Considerato dall’Illuminismo un’età oscurantista e dal Romanticismo una stagione mitica, il Medioevo in realtà è stato l’uno e l’altro insieme, “un’epoca ricca di contrasti e di turbolenze ma anche di energia e originalità in cui andò definendosi il nuovo Occidente romano-cristiano”.               Filippo Re