STORIA- Pagina 18

La sentinella di pietra sul lago d’Orta

Grigia e serissima, la Torre di Buccione – che non ha, evidentemente, un’anima – non può sapere che la sua  citazione più conosciuta è contenuta in uno dei libri più belli e più ironici di Gianni Rodari, quel “C’era due volte il barone Lamberto”, ambientato lì attorno

C’è chi, nel lento trascorrere del tempo, vigila. Infatti, d’inverno , quando il lago è velato, a pelo d’acqua, dalla nebbia, sembra che stia lì, sentinella di pietra sul colle, a difesa del silenzio e della pace di questa terra cusiana, sulla sponda orientale del lago d’Orta.Grigia e serissima, la Torre di Buccione – che non ha, evidentemente, un’anima – non può sapere che la sua  citazione più conosciuta è contenuta in uno dei libri più belli e più ironici di Gianni Rodari, quel “C’era due volte il barone Lamberto”, ambientato lì attorno. Nel racconto del grande scrittore omegnese,  dopo l’invasione dell’isola di S.Giulio da parte dei banditi che sequestrarono il barone, i giornalisti di mezzo mondo si disputarono gli “osservatori “migliori per seguire le varie fasi della vicenda. E se i giapponesi ( i più sistematici.. ) occuparono i punti più alti, cioè l’Alpe Quaggione e la vetta del Mottarone, scrutando il lago da nord a sud, da Omegna a Gozzano, l’unico punto altrettanto alto e panoramico per guardare il lago da sud a nord era proprio la Torre di Buccione, “occupata in forze dalla Tv messicana”.

Non male come “utilizzo” nel XX secolo. Ma , riposta la fantasia e ripristinando la storia per com’è stata, bisogna dire che il primo documento che cita la fortificazione risale al 1200: il castello di Buccione fu teatro di un accordo stipulato alla presenza del vescovo Pietro IV tra i feudatari locali ed i rappresentanti del comune di Novara. Incontratisi nel prato sotto la Torre, che svettava con i suoi quasi trenta metri d’altezza sul colle, cercarono un’intesa per mettere fine alle dispute sulle questioni territoriali della Riviera. Nel 1205 il castello venne indicato come dimora del Vescovo e trent’anni dopo, in un altro documento, si ribadiva che la Torre e le fortificazioni di Buccione erano “indiscussa proprietà vescovile”. Il filo che lega questi documenti non solo testimonia la “presenza” della fortificazione di Buccione ma rappresenta tre momenti della originale evoluzione della Riviera di S.Giulio sotto il profilo istituzionale ed amministrativo, con i passaggi – nell’arco di trecento anni , dal Mille al XIII secolo – da signoria di “possesso territoriale” a signoria di “potere giurisdizionale” del vescovo di Novara, tant’è che per sbrogliare la complessa matassa fu persino necessario l’intervento degli arbitri dell’Imperatore.

Una mediazione non proprio pacifica visto che il Comune di Novara – impegnato ad espandere i suoi possedimenti – aveva creato ex-novo un suo avamposto tra il castello di Mesma e la Torre di Buccione ( il “borgo” della Mesmella ), insinuandosi come un cuneo nei possediemnti del vescovo così che , di conseguenza, gli arbitri imperiali dovettero ordinare la distruzione del borgo, restituendo all’autorità vescovile i castelli ed i villaggi posti a nord della Baraggia di Briga, con tutti gli annessi e connessi, cioè  i diritti ed i poteri. Ma l’origine della Torre, secondo alcuni studiosi, ha radici ben più antiche dei cenni documentali già citati: radici che affondano nelle ombre e nei chiaroscuri dell’alto medioevo. Uno studioso che ha minuziosamente “rivisitato” la storia dell’imponente fortificazione – il Marzi – scrisse che “ si estendeva fino a coprire la vetta del colle”, identificandone due fasi di costruzione: “l’erezione della cortina e delle stanze del presidio sono da collocarsi intorno agli anni 1150-1175” mentre  risultavano “troppo esigui gli elementi per datare i recinti successivi e il ridotto avanzato”. Resta il fatto che a rivelare le due fasi si possono citare almeno un paio di elementi: i parametri murari e la disposizione delle buche per il ponteggio. Le opinioni di carattere storiografico sono disparate: c’è chi giura si tratti di un manufatto di epoca romana, chi lo giudica invece opera dei Longobardi e  chi ancora frutto di scelte ed indicazioni dei vescovi novaresi. Secondo il Marzi, nel suo “ Sulle origini del castello di Buccione “, edito dal comune di Orta S.Giulio nel 1984, gli autori vanno ricercati invece nei signori locali, legati da vincoli feudali al vescovo, forse i da Castello di Crusinallo.

Resta un fatto, abbastanza chiaro: il castello divenne una piazzaforte vescovile, in stretto contatto con il castello dell’isola di S.Giulio – eretto nel V secolo – di cui costituiva, insieme ad altre “torri” edificate sulle sponde del Cusio, una delle “teste di ponte” di un fitto ed articolato sistema di fortificazioni poste a guardia dello stato episcopale, una sorta di “enclave” indipendente nell’ambito dell’Italia del nord, nell’arco di ben sei secoli, dal 1219 al 1817. In cima alla torre, come si usava dire “..sospesa tra terra e cielo”, era posta la campana con cui si annunciavano gli imminenti pericoli: l’ultimo, prezioso, esemplare – fatto  fondere nel 1610 – è  tutt’oggi custodito nel giardino della sede del municipio di Orta. Il “castello di strada” e la torre, nei fatti, rappresentavano un’unica turrita fortezza alta, per l’esattezza, ventitre metri, con funzioni di segnalazione, suddivisa al suo interno in tre impalcati di legno che ne  consentivano l’abitazione da parte della guarnigione . Il piano inferiore ( dove si apre l’ingresso attuale, risalente al 1800, mentre l’antico ingresso si trovava a circa sette metri da terra ) serviva da “caneva”, cioè da magazzino per i viveri e per l’acqua, necessari in caso d’assedio. Al secondo ed al terzo piano erano situate le latrine, con condotte convogliate verso il cortile per lo scarico dei liquami.

Al piano alto si trovava la cella – con la volta a crociera – munita di una bertesca organizzata su mensole, dalla quale si potevano spiare e combattere i nemici che minacciavano l’ingresso inviando loro dei “gentili omaggi” a base di pietre e, nei casi più ostinati,  calderoni d’olio bollente. La fortificazione si completava di una cortina muraria esterna con camminamenti, feritoie, merli, ancora visibili all’inizio del ‘700 quando vennero descritte  dallo storico rivierasco Lazzaro Agostino Cotta. Le mura, al loro interno, ospitavano un cortile rettangolare che includeva la “nostra” torre, mentre – in epoca successiva – venne edificato sul lato a nord un altro recinto che, stando ai resoconti del Cotta, poteva contenere fino a cinquecento soldati, ed un ridotto avanzato – situato sul crinale verso il lago – studiato come punto di controllo sulla strada che veniva percorsa da merci e viandanti. Oggi la Torre, impavida ed altera costruzione che domina il Cusio meridionale, dopo aver  subito – in passato- le offese di vandali e teppisti, merita le cure di chi – per generazioni – è nato e cresciuto alla sua ombra. E la Riserva Regionale che oggi la tutela è stata pensata proprio per questo. Un nobile scopo per la nobile causa di una nobile ed ardita costruzione medioevale.

 

Marco Travaglini

I mille castelli del Piemonte

Perché andare solo nelle grandi residenze sabaude, già viste e riviste, e non recarsi nei tanti castelli minori, storicamente meno importanti ma ugualmente belli e visitabili? In Piemonte si contano almeno un migliaio di castelli se si considerano anche quelli di cui restano poche tracce e qualche rudere. E tanti, tantissimi si trovano nella sola provincia di Torino. È di questi che ci parla lo storico e scrittore Gianni Oliva nel libro “Castelli piemontesi, la provincia di Torino”, vol.1, Edizioni biblioteca dell’immagine, arricchito da decine di illustrazioni di Pierfranco Fabris. Quando si parla di castelli del Piemonte, precisa l’autore, il rimando immediato è a Palazzo Reale, alla Reggia di Venaria, a Racconigi, Stupinigi, Rivoli, Moncalieri, Agliè, le cosiddette “residenze sabaude”. Ma proprio per l’abbondanza di materiale disponibile e per la notorietà dei siti, nel mio volume non parlo di residenze sabaude ma di castelli meno conosciuti, alcuni in buono stato e altri abbandonati e sopravvissuti solo in qualche torre o in qualche rudere perimetrale”. E allora lasciamoci trasportare dalla fantasia entrando in questi castelli e immaginiamo quel che accadeva tra quelle mura possenti, eventi piccoli o grandi, importanti o meno, un assedio, un delitto, un matrimonio, fantasmi, streghe, leggende, insieme ai personaggi che l’hanno abitato, i signori del luogo, marchesi, conti, duchi e sovrani. Gianni Oliva racconta di tutto e di più. Il castello di Montalto Dora, con il suo maestoso profilo medievale domina dall’alto il canavese e la Dora Baltea offrendo un colpo d’occhio favoloso a chi percorre l’autostrada Torino-Aosta. Troneggia come una sentinella nel tratto morenico-canavesano della via Francigena. Danneggiato nel Seicento dalle truppe francesi, dal maniero sono uscite alcune leggende romantiche raccolte e divulgate da Giuseppe Giacosa, lo scrittore canavesano amico di Pascoli e Carducci. Il castello di San Giorio, a pochi chilometri da Susa, che da un’altura sovrasta la valle della Doria Riparia, costruito nel XI secolo dagli Arduinici, marchesi di Torino, per motivi difensivi ma anche per incassare i pedaggi di transito lungo la via Francigena, a Susa, San Giorio, Sant’Ambrogio e Avigliana. Alla fine del Seicento il maresciallo Catinat lo fa distruggere ma aveva troppa fretta di arrivare ad Avigliana per far saltare in aria anche il castello del Conte Rosso, strategicamente ben più importante. Alcune parti della fortezza di San Giorio si sono quindi salvate anche se ne restano pochi resti, che si vedono bene dalla Torino-Bardonecchia, in particolare le mura merlate, parzialmente restaurate di recente. Ma restano anche misteriose memorie templari che appaiono all’improvviso tra i vicoli che salgono alle mura del maniero: croci del Tempio originali, per nulla consumate dai tanti secoli trascorsi. Qui, d’inverno, come accade anche a Giaglione e a Venaus, danzano gli spadonari incrociando le spade in una danza guerresca per cacciare i nemici, i saraceni di un tempo, e per propiziare la produttività dei terreni. Ma se ci spostiamo poco più lontano, a Reano, in bassa val Susa, tra la Dora e il Sangone, e se siamo fortunati, potremmo trovare una piccola parte del tesoro dei Templari nascosto nei sotterranei del castello. Almeno così racconta una leggenda del XIII secolo secondo cui il maniero sarebbe diventato un cascinale fortificato dell’Ordine dei Templari e in una sala sotterranea si troverebbe un tesoretto, in realtà mai scoperto. Tuttavia nei dintorni del castello è stato rinvenuto un anello d’argento in stile orientale risalente allo stessa epoca e forse appartenente a un cavaliere tornato dalle Crociate, un Templare oppure lo stesso Amedeo III, conte di Savoia, che scelse Avigliana come propria residenza e che nel 1147 partecipò alla seconda crociata. Il castello è oggi una proprietà privata e non si può quindi visitare “ma merita senz’altro una visita dall’esterno, scrive Oliva, la sua struttura e la tinteggiatura rosata lo rendono ben evidente nello scenario di boschi e prati in cui si staglia”. Il castello di Rivara ricorda i processi alle streghe del canavese nel Quattrocento mentre quello rinascimentale di Vinovo è strettamente legato alla nobile famiglia locale dei Della Rovere. Presidio militare, residenza nobiliare, manifattura di porcellane, collegio della Regia Università, il castello di Vinovo è di proprietà del Comune. Ma c’è molto di più da leggere nel libro di Oliva. L’elenco dei castelli è lungo e comprende i manieri di Avigliana, Ivrea, Masino, Mazzè, Piobesi, Piossasco, Rocca Canavese, Santena, Settimo Vittone, Sparone, Susa, Ternavasso e Malgrà di Rivarolo.           Filippo Re

Place des Vosges, tra Victor Hugo e George Simenon

Uno dei luoghi più belli di Parigi è senz’altro Place des Vosges al Marais, nell’ XI arrondissement della ville lumière. Realizzata per volere di Enrico IV sul posto dell’antico Palais des Tournelles fatto distruggere nel 1559 da Caterina de’ Medici in seguito alla morte del marito, il re Enrico II, la piazza più antica della capitale francese venne inaugurata ufficialmente con il nome Place Royale nel 1612. In breve tempo diventò il posto più frequentato e alla moda di Francia, punto d’incontro di aristocratici e intellettuali. Dopo la Rivoluzione, nel 1799, prese il nome di Place des Vosges, in onore del dipartimento dei Vosgi che per primo versò le imposte al neonato Stato Repubblicano. Oltre alla sua bellezza architettonica esercita un fascino letterario. Nel marzo del 1924 i giovani coniugi Simenon vi si trasferirono al numero 21. Quell’abitazione ebbe un significato particolare nella toponomastica della letteratura di George Simenon. Non per caso era vicina a quel Boulevard Richard Lenoir dove lo scrittore collocò l’abitazione del commissario Maigret, e poco distante dalla Senna dove, quasi all’altezza dell’Ile de la Cité, si trova il Quai des Orfèvres che al numero 36 ospitava la polizia giudiziaria di Parigi. A Place des Vosges Simenon scrisse il suo primo degli oltre duecento romanzi popolari, siglati con più di venti pseudonimi. Anche il suo Maigret amava la zona del Marais: “un quartiere che conosceva bene tanto che gli sarebbe piaciuto andare ad abitare”. Per un breve periodo, a causa di alcuni lavori di ristrutturazione nella sua casa di boulevard Ginard-Lenoir, ci abitò e la descrizione di un risveglio mattutino in quell’appartamento svela le autobiografiche sensazioni dello scrittore belga: “In casa c’era un buon odore di caffè. Si sentivano gli uccelli e le fontane di place des Vosges. La gente andava al lavoro nel sole ancora fresco e leggero del mattino”. Al numero sei della stessa piazza c’è la maison parigina di Victor Hugo, la casa dove l’autore di Notre-Dame de Paris e de I Miserabili visse per più di sedici anni, dal 1832 al 1848. Fu tra quelle mura che Hugo scrisse i suoi più grandi capolavori. L’appartamento nell’elegante palazzo Rohan-Guéménée rappresenta oggi, insieme alla Maison de Balzac e al Museo della Vita Romantica, uno dei tre musei letterari di Parigi.

Marco Travaglini

Agliè, il castello miracolato

Agliè e il suo castello! Ma è quello di Rivombrosa? Mondo dei consumi che riduci ogni cosa a effimero stilema pur che la realtà che proponi si imponga, nessun rispetto della verità, della storia e anche in questo caso dell’autenticità di persone e luoghi. A voler affrontare la storia di un castello, ci si immerge appieno nelle vicende di vita del passato e andando all’indietro capita di vedere distrutte e ricostruite più volte realtà non solo castellane ma locali…..Così, davanti alla lanterna magica del passato, noi ci rassegnamo a verità che contraddicono i fatti noti e raccontato, ché il momento vuole:
nessun rispetto per la verità! Questa pagina propone un momento drammatico: quando il castello rischiò che l’invasore, inviperito per gli esiti degli ultimi eventi bellici, mettesse a sacco prima e anche a fuoco poi il Monumento più importante di Agliè….. allora sarà più interessante scoprire quanto ebbe a capitare……e questo scritto lo dice bene.
Carlo Alfonso Maria Burdet
L’antico maniero divenne proprietà di casa Savoia dal 1764. Dopo l’avvenuto di Napoleone che lo aveva adibito a ricovero e il parco ceduto ai privati per l’agricoltura, ritornò ai Savoia nel 1823. Dal 1849 fu ereditato da Ferdinando Savoia duca di Genova, dal figlio Tommaso duca di Savoia-Genova e dal nipote Filiberto Savoia duca di Pistoia, marito della duchessa Lydia di Arenberg. Filiberto, cugino del re Vittorio Emanuele III° di Savoia, fu generale della Brigata Brennero e generale di divisione in Africa Orientale.
Nel 1939 cedette il castello allo Stato Italiano per otto milioni di lire, poi adibito a museo dove sono esposte alcune opere di Luigi Canina, l’architetto casalese inserito in casa Borghese dal marchese di San Giorgio Evasio Gozzani, amministratore del principe Camillo e Paolina Bonaparte. Il poeta Guido Gozzano dedicò uno scritto al castello del borgo alladiese. Qui si ricorda un poeta contemporaneo di Guido, Flavio Eligio Maria Razzetti, figlio dell’avvocato torinese Napoleone e Rosa Ballor. Il padre compose un commento estetico alle Odi Barbare di Giosuè Carducci, ottenendo lusinghiera approvazione di Carducci stesso. Flavio Razzetti fu anche giornalista e inviato speciale per 26 volte negli USA, pittore, autore di commedie teatrali, romanziere e  pubblicista.
In un sonetto dedicato a Flavio Razzetti dal poeta dialettale torinese Giovanni Bono, il personaggio di Monsú Razet viene descritto come talentuoso, una figura fuori dal tempo, col suo giaccone frusto e le scarpe scalcagnate. Alla domenica pomeriggio, nel caffè Cannon d’Oro di Agliè, l’antico gioco di carte dei tarocchi permise a Razzetti di fare amicizia con la famiglia di Gozzano Domenico, sposatosi a Cuceglio con Vittoria Zanotto Contino, genitori di Giuseppina Gozzano (*1925) che ha generato la propria linea di New York. La cugina Walburga Bollendorf di Norimberga, detta Walga, moglie del neuropsichiatra Mario Gozzano, figlio del generale medico Francesco e nipote materno del principe e generale Don Maurizio Ferrante Gonzaga, fu protagonista durante la seconda guerra mondiale del salvataggio di Agliè, luogo d’origine dei Gozzano provenienti da Luzzogno.
 Prima implorando in ginocchio e poi opponendosi fermamente alla decisione del compatriota e comandante nazista di distruggere il borgo, salì sul balcone del castello e rischiando la propria vita sfidò il generale tedesco che rinunciò al bombardamento. Per sfuggire alla guerra, i coniugi si erano trasferiti da Pisa ad Agliè nella casa del padre. Oltre a Pisa, Mario fu docente a Cagliari, Napoli, Bologna e Roma ed era direttore della clinica neuropsichiatrica universitaria La Sapienza, dove al primo piano del prefabbricato è stata a lui intitolata l’aula Gozzano. Pubblicò diversi trattati sulle malattie nervose. Importante figura fu il fratello Matteo, sposato con Natalia Labroca, sorella del famoso musicista Mario direttore della Scala di Milano. Il loro figlio Francesco era accompagnatore del presidente Saragat negli anni ’60, inviato speciale nel mondo negli anni ’80 e ultimo direttore dell’Avanti all’epoca di tangentopoli.
Don Pasquale Sorgente, marito di Carlotta sorellastra di Mario, era allievo di pediatria con l’educatrice Maria Montessori a Roma.
Negli anni ’60, Mario e Walga fecero visita ai cugini di New York e San Paolo del Brasile a Itu e Sorocaba emigrati da Agliè ed ebbero quattro figli: Gabriella grafica pubblicitaria; Franco pittore; Renato regista, fotografo ed inventore dei mitici Bank Window-Light che hanno fatto epoca nella storia mondiale della fotografia di
moda, prodotti nella propria azienda lungo il Naviglio di Milano che prese il nome di Lucifero; Elisabetta detta Ingrid, neuropsichiatra infantile residente a Roma, ultima rappresentante dei Gozzano di Agliè della linea materna di Maurizio Gonzaga.
Armano Luigi Gozzano 

Malesco, giugno 1944 

L’asilo infantile di Malesco, in Valle Vigezzo, a ridosso del confine con la Svizzera, venne inaugurato nel 1853, ventisei anni dopo la “scuola per bambine”, ed entrambe le istituzioni educative trovarono alloggio per tutto l’800 nell’edificio dell’ex ospedale Trabucchi, nel centro storico del paese. Agli inizi del ‘900, agli albori del “secolo breve”, in ragione degli spazi angusti in cui erano costretti i piccoli frequentatori dell’asilo e delle scuole femminili, l’Amministrazione comunale maleschese progettò la costruzione di una nuova scuola, considerato l’aumento della popolazione scolastica. Così, con una delibera del 1907, venne scelta piazza Brié che, al tempo, era stata pensata già larga (105 metri per 45), contornata da un bel viale a doppia fila, utilizzata sul finire del secolo (nel 1896) per festeggiamenti dell’acqua potabile che, in paese, veniva distribuita alle otto fontane pubbliche, alle scuole e all’asilo. Un vanto per gli amministratori del più popoloso centro vigezzino, a quel tempo guidati dal sindaco Bartolomeo Trabucchi. L’edificio doveva comprendere al piano rialzato i locali dell’asilo, al primo piano tre spaziose aule per le scuole femminili e al secondo, sulla destra della scala, un piccolo appartamento privato per le suore, e dall’altro lato un’altra aula. L’edificio subì, nel tempo, ulteriori sistemazioni e aggiustamenti ma già negli anni ‘30, come si può desumere da testimonianze e foto d’epoca, le classi erano miste e gli insegnanti laici. In quel luogo – una scuola – attraversato, abitato e frequentato dai ragazzi in crescita si dovrebbe sperimentare lo stare insieme anche tra persone che non sono legate da un comune affetto, come nel caso della famiglia. La scuola è il luogo che fornisce contenuti di conoscenza, dove si sta con gli altri condividendo regole comuni. Ovunque, e – ovviamente – anche in quell’edificio di piazza Brié, a Malesco, quasi agli estremi dell’Italia di “mezzanotte”. Soprattutto in un asilo come quello che rappresentava il primo livello di un cammino dove, nel tempo, i bambini avrebbero incontrato le maestre che avrebbero spiegato loro i numeri, gli anni della storia, i luoghi della geografia. Si sarebbe scritto, più avanti, con il pennino e con l’inchiostro che stava nel calamaio, su ogni banco.

C’era, e lo si coglieva nei paesi di montagna come nelle città, una generosità civile nella scuola pubblica, gratuita che permetteva di imparare. L’istruzione era (lo è ancora) utile perché non discriminava e dava importanza a tutti, a partire dai più poveri. Come ha scritto Erri De Luca, “la scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però fra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori”. Ovunque, appunto. Anche a Malesco. Ma così non fu, in tempo di guerra. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, la nascita della Repubblica fascista di Salò, l’occupazione nazista e l’avvio della lotta partigiana, le cantine di quelle scuole diventarono protagoniste, loro malgrado, di indicibili atrocità. Lì, nazisti tedeschi e fascisti italiani, rinchiusero e seviziarono i partigiani fatti prigionieri durante il rastrellamento del giugno 1944. L’impervia Val Grande (oggi parco nazionale e area wilderness più grande d’Italia) e le zone circostanti ospitavano diverse formazioni partigiane come la Valdossola, la Giovane Italia e la Battisti contro cui, in quell’inizio d’estate, si scatenò l’attacco di diverse migliaia di nazifascisti con l’appoggio di artiglieria e di aerei. Tedeschi e fascisti attaccarono in quasi cinquemila, bene armati ed equipaggiati; i partigiani che si difesero erano dieci volte di meno, male armati, peggio equipaggiati e privi di viveri. Per le formazioni partigiane e per la popolazione civile furono venti terribili giorni di spietata caccia all’uomo, fucilazioni, incendi e saccheggi. Le operazioni in montagna dell’Operazione Köeln – organizzata dal comando SS di Milano – terminarono il 22 giugno con l’eccidio dell’Alpe Casarolo, in alta Val Grande, dove morirono nove partigiani e due alpigiani. Poi in Val Grande le armi tacquero ma continuarono le fucilazioni dei partigiani catturati nei paesi ai piedi dei monti. Numerose vittime rimasero senza un nome e così anche molti dispersi, come nel caso di tanti giovani lombardi saliti in montagna per sfuggire ai bandi della Repubblica Sociale Italiana e non ancora censiti sui ruolini delle formazioni partigiane. Le vittime del rastrellamento – compresi molti alpigiani in zona per la monticazione estiva – furono circa trecento, la metà delle quali uccise dopo la cattura. Nelle cantine dell’asilo di Malesco, trasformato in prigione, transitarono decine e decine di partigiani, picchiati e torturati in interminabili “sedute” d’interrogatorio dai loro aguzzini. Molti di loro vennero poi tradotti nei luoghi di fucilazione, a Fondotoce di Verbania, Beura, Baveno. E nella frazione maleschese di Finero dove, nel piccolo cimitero, in quindici vennero messi al muro e fucilati il 23 giugno 1944. Oggi, a memoria di quella tragica vicenda, è stata posta una lapide sul muro della scuola e al centro della piazza (che ha cambiato il nome in piazza XV Martiri) dove, dalla fontana, l’acqua esce da quindici zampilli, tanti quanti i partigiani che persero la vita nel camposanto lungo la strada che scende per la Valle Cannobina.

Marco Travaglini

Non rullano più i Tamburi della Pioggia

Se n’è andato pochi giorni fa all’età di 88 anni Ismail Kadarè, scrittore e poeta albanese che denunciò la repressione della dittatura filosovietica e fu costretto all’esilio in Francia. Diversi suoi romanzi sono stati banditi dall’Albania: il più famoso è “Il generale dell’armata morta” pubblicato da Longanesi. Kadarè ha scritto anche storie e leggende dell’Albania nelle quali ha spesso criticato il regime comunista. Tra i romanzi che hanno contribuito alla fama di Kadarè ricordiamo La città di Pietra, Aprile spezzato, La Bambola, Il Palazzo dei sogni, Tre canti funebri per il Kosovo, I Tamburi della pioggia, edito da Longanesi, Tea, Corbaccio e Fabbri. E proprio su quest’ultimo vogliamo soffermarci, un grande romanzo storico. I Tamburi della Pioggia, una vicenda del Quattrocento, l’epopea del leggendario eroe Skanderbeg contro gli invasori turchi che combatterono in Albania una delle più lunghe e sanguinose guerre della storia. È la storia dell’Albania e del suo popolo: l’inizio del conflitto con l’impero ottomano, l’inizio di una lotta pluridecennale, ben 25 anni, la prima di 24 spedizioni dell’esercito del sultano contro il Paese delle aquile. Nel maggio del 1449 un immenso esercito turco pone l’assedio a Kruja, difesa da un piccolo presidio. Skanderbeg, il cui vero nome era Giorgio Castriota, mette al riparo sui monti i vecchi, parte delle donne e i bambini e con le sue forze resta al di fuori della cinta dell’assedio lanciando a più riprese e a sorpresa attacchi dall’esterno contro i turchi. Gli albanesi difesero strenuamente per 25 anni la propria libertà dalle ricorrenti invasioni della superpotenza ottomana. Decine di migliaia di soldati tentarono invano di scalare i bastioni ma dopo aver fatto di tutto per conquistare la cittadella di Kruja le forze turche furono obbligate a ritirarsi. Sul campo di battaglia rimase un quinto dei soldati ottomani. La cittadella di Kruja, capitale dell’Albania, sottoposta a un assedio fiaccante, diventò ben presto il simbolo della resistenza albanese. Di fronte alle sue mura il potente esercito turco è costretto a fermarsi, stroncato dal caldo torrido e indebolito dagli attacchi di Skanderbeg. L’autunno si avvicinava e il rimbombo dei “tamburi della pioggia” stava per segnare la fine di ogni speranza di vittoria. Kruja rifiuta di arrendersi. Gli assalti notturni di Skanderbeg terrorizzano i nemici. Basta il suo nome per far fuggire i turchi. La spedizione ottomana è un inferno. I tamburi della battaglia e della pioggia tormentano il comandante turco. I tamburi che annunciano la pioggia segnano la fine di un lungo cruento assedio. “Cominciò a piovere il 13 settembre, all’alba. In una parte dell’accampamento turco rullavano i tamburi della pioggia. Il loro campo appariva stranamente lugubre in quel mattino d’autunno. Eccolo, dunque, il più grande esercito del nostro tempo, il più temibile mostro della nostra epoca è ai nostri piedi, a inzupparsi di pioggia. Sembra che la prima stagione di guerra volga al termine. Altre ci attendono”.
Filippo Re      

“Valbum”, figurine per conoscere la storia valdese

Nell’anno del proprio quarantennale Radio RBE ha intrapreso molte iniziative con l’obiettivo di festeggiare questo importante anniversario – un traguardo certo non scontato per un’emittente comunitaria nata sull’onda lunga delle radio libere anni Settanta – tra queste segnalo la creazione del primo album di figurine dedicato agli 850 anni dalla nascita del movimento valdese: Valbum.

 

Radio RBE ha scelto di omaggiare così una storia con cui è legata a doppio filo; RBE, infatti, è acronimo di Radio Beckwith Evangelica e nasce nel 1984 come avventura pionieristica per creare un’emittente di impianto laico e aperto al mondo, ma con le radici affondate in un’identità evangelica e protestante, nel solco dell’impegno verso la cultura e la comunità tracciato da John Charles Beckwith nella prima metà dell’Ottocento.

VALBUM è uno strumento originale pensato sia per chi già conosce il patrimonio culturale valdese, sia per chi ne è incuriosito e desidera saperne di più con una formula alla portata di tutti. È composto da 60 figurine con immagini storiche, rappresentazioni di quadri e stampe, informazioni, curiosità e contenuti audio speciali raggiungibili con QR code. Pur guardando al gioco e alla leggerezza, VALBUM restituisce la storicità adeguata grazie alla collaborazione con l’Ufficio Archivio Storico e Beni Culturali della Tavola Valdese ed è l’occasione per unire divulgazione storica, narrazione per immagini e contenuti extra e aspira ad essere un ponte tra generazioni.

Renato Rascel, l’attore che nacque “per caso” a Torino

STORIE PIEMONTESI: a cura di CrPiemonte – Medium /   

Il 2 gennaio del 1991, moriva dopo una lunga malattia Renato Rascel, nome d’arte di Renato Ranucci

di Marco Travaglini

Artista incredibilmente versatile, indimenticabile protagonista del teatro leggero italiano, nella sua lunga carriera di attore, comico, cantautore e ballerino si cimentò in moltissimi ruoli. In molti, tra i non più giovanissimi, lo ricorderanno protagonista di moltissimi spettacoli dalla rivista alla commedia musicale, dall’intrattenimento televisivo e radiofonico all’operetta e al teatro.

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La sigla della trasmissione tv I racconti di Padre Brown

Non tutti sanno però che nacque “casualmente” a Torino il 27 aprile 1912, durante una tournée della compagnia di cui facevano parte i suoi genitori, il cantante di operetta Cesare Ranucci e la ballerina classica Paola Massa, artisti di opera comica che lavorarono anche con il grande Ettore Petrolini.

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Il Corazziere del 1961

Il piccolo Renato passò così i primi giorni di vita in una cesta dietro le quinte dove i genitori, a turno, si prendevano cura di lui tra una scena e l’altra. Venne poi battezzato a Roma, nella basilica di San Pietro per volontà del padre “che volle confermare la sua romanità risalente a sette generazioni”.

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Una vecchia locandina

Nascendo in una famiglia d’artisti fu normale che anche Renato sentisse il richiamo della scena e così, fin da piccolo, si ritrovò a calcare i palcoscenici di compagnie filodrammatiche e teatrali. A 10 anni entrò a far parte come soprano nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina. Grazie alla sua travolgente simpatia e a un innato talento fece tutta la trafila dalla gavetta al successo.

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Le più belle canzoni

Suonò la batteria, ballava il tip-tap, si esibì come cantante, debuttò nel 1934 vestendo gli abiti di Sigismondo ne “Al Cavallino bianco” l’operetta più nota e popolare dopo la “Vedova Allegra”. L’esperienza lo portò a inventare un suo personaggio che lo rese riconoscibile al grande pubblico. La bassa statura e il fisico esile gli suggerirono la celebre, esilarante e surreale interpretazione del Corazziere.

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Rascel nelle vesti del Corazziere

Elaborò sketch e canzoni diventate pietre miliari della rivista, al fianco di attori e autori come Garinei e Giovannini. Con la sua compagnia teatrale mise in scena nel 1952 uno spettacolo — “Attanasio cavallo vanesio” — che ottenne un clamoroso successo, confermandolo tra i più amati beniamini del pubblico italiano. Un successo bissato con “Alvaro piuttosto corsaro”, “Tobia la candida spia”, “Un paio d’ali”, girando per i teatri di una Italia desiderosa di svago e divertimento.

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Rascel cantante

Si cimentò nel cinema con i suoi personaggi senza tralasciare ruoli più impegnati come ne “Il cappotto” (tratto da un racconto di Gogol’) con la regia di Alberto Lattuada e “Policarpo ufficiale di scrittura”, diretto dal torinese Mario Soldati. Rascel fu anche protagonista di una grande e commovente interpretazione nei panni del mendicante cieco Bartimeo nel “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli.

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Renato Rascel nei panni di Padre Brown

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Un primo piano di Renato Rascel

Rascel scrisse anche molte canzoni, alcune delle quali riscossero un successo che varcò i confini nazionali entrando a far parte del nostro repertorio popolare come “Arrivederci Roma”, “Romantica” ( con la quale trionfò al Festival di Sanremo nel 1960), “Te voglio bene tanto tanto”, “E’ arrivata la bufera”. I ragazzini della mia generazione lo ricordano in televisione con la veste talare del protagonista de “I racconti di padre Brown”, sceneggiato prodotto e messo in onda dalla Rai nel 1970. Risale a quello stesso anno la sua ultima interpretazione in una commedia musicale di Garinei e Giovannini (Alleluja brava gente) dove Rascel ebbe l’onere di sostituire all’ultimo istante il famosissimo Domenico Modugno con un giovane Gigi Proietti, pressoché sconosciuto al pubblico.

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Rascel con Giacobetti, Chiusano e la Mannucci del Quartetto Cetra nel 1970

Una carriera lunga e ricca che lo vide al tempo stesso innovatore e rappresentante autentico della storia nobilmente popolare della commedia italiana. Una vicenda umana e artistica che, ancora oggi, molti ricordano con affetto e riconoscenza.

Armi ottomane al Castello di Racconigi. I doni del sultano al re d’Italia

Quando la grande Storia passò per la Provincia Granda. Quel giorno il treno si fermò alla stazione di Racconigi. A quel tempo, tra ‘800 e ‘900, Racconigi era una fermata importante.
Arrivavano zar, sovrani e principi da ogni parte del mondo, ospiti dei Savoia nel castello sabaudo. Il 21 agosto del 1904 dal treno scesero degli uomini col turbante, tra lo stupore dei racconigesi che cinque anni dopo, nel 1909, avrebbero affollato la stazione e le vie del paese per dare il benvenuto ad un altro grande sovrano della storia, nientemeno che lo zar Nicola II in visita a re Vittorio Emanuele III. Ma cosa ci facevano i turchi a Racconigi? Inviati del sultano di Costantinopoli o spie al soldo di un regime sempre più vicino al tramonto?
Dal convoglio si fece avanti una delegazione diplomatica di alto livello guidata dall’ambasciatore turco Ghalib Bey e dal comandante delle guardie del sultano ottomano Abdulhamid II. I servitori scaricarono dal convoglio decine di casse contenenti i doni del sultano dell’Impero per Vittorio Emanuele III, re d’Italia. La reggia, in cui meno di un mese dopo nacque Umberto II di Savoia, l’erede al trono, si arricchì da un giorno all’altro di una straordinaria collezione di decine di armi antiche disposte su pannelli in modo da formare dei trofei d’armi.
Ma il grosso della donazione era costituito da ben 22 quintali di oggetti esposti su scaffali foderati in velluto rosso, al primo piano, accanto alla sala del biliardo, in un spazio chiamato la Sala delle armi turche, che oggi è la Galleria di Eolo. Ci sono armi da fuoco, diverse lance da cavalleria con la bandiera dell’esercito ottomano, un tridente di manifattura islamica e un antico roncone italiano preso durante le battaglie tra europei e turchi nel Quattrocento, pochi anni prima della caduta di Costantinopoli e dell’Impero bizantino nel 1453. Le armi antiche provengono dal Palazzo Yildiz di Istanbul e sono il segno di un lungo rapporto di amicizia e collaborazione tra il re e Abdulhamid II. Vittorio Emanuele III e Umberto II, l’erede al trono, trascorrevano a Racconigi i mesi estivi, lontano da impegni di corte. Gli scambi di regali furono frequenti e cominciarono ancora prima che Vittorio Emanuele diventasse re. Nel 1901 due grandi dipinti e una collezione di armi italiane erano partiti dal Quirinale alla volta della capitale turca mentre il sultano spedì in Italia alcune opere antiche della raccolta imperiale. A ben vedere, l’armeria-deposito del castello di Racconigi è forse l’ambiente più misterioso e intrigante di tutto il castello. Sono custoditi ben 22 quintali di armi tra fucili, archibugi, artiglierie, spade, asce, lance, revolver, armature, corazze, maglie d’acciaio, elmi in metallo e in stoffa consegnate dagli inviati del sultano ottomano a Vittorio Emanuele III nell’agosto del 1904.
Ogni oggetto fu sistemato in apposite vetrine in una sala attigua a quella del biliardo del Castello di Racconigi. A questo punto non stupirebbe se attorno al castello sabaudo o all’interno dello splendido parco aperto al pubblico trovassimo qualche spia turca travestita da turista. Speriamo che il “sultano” Erdogan, nostalgico delle glorie ottomane ed eccitato dai personaggi dell’Impero della Mezzaluna non sappia nulla e non si faccia avanti con la consueta aggressività per reclamare il “tesoro ottomano” nascosto nel deposito-armeria del maniero. Alcuni di questi oggetti sono esposti nell’ambito della mostra permanente “Storie dal mondo in Castello. Meraviglie da quattro continenti a Racconigi”. I pezzi più belli e pregiati sono un raro migfer (elmo) giannizzero del Cinquecento in seta, cotone, lino e rame dorato e soprattutto un’antica spada risalente al 1272 con iscrizione in arabo sulla lama. Altri cento oggetti, tra armi e manufatti, completano la raccolta dei prodotti artigianali extraeuropei presenti nell’esposizione. Tutti doni diplomatici, regali di ospiti illustri o ricordi di viaggio legati alla vita di Vittorio Emanuele III e di Umberto I. Un patrimonio rimasto finora nascosto nei depositi del Castello ma di grande rilievo per la storia della residenza sabauda. In vetrina si possono ammirare anche beni africani come un cofanetto egiziano donato alla regina Elena del Montenegro, uno scudo da parata etiope in seta e cuoio e una zanna d’avorio regalata a Umberto II insieme ad tanti altri oggetti provenienti da India e Persia, Sud America ed Estremo Oriente. La mostra, è aperta mercoledì, giovedì e venerdì con visite accompagnate alle 12.00 e alle 17.00. Sabato, domenica e festivi visite libere dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 19.00. Per informazioni: 0172 84005
Filippo Re
Nelle foto
il Castello di Racconigi, spada araba del 1272, elmi ottomani

“E se un angelo a Lisbona…”: Gabetto – Di Mauro, la leggenda del Grande Torino continua

Cosa sarebbe successo se uno dei componenti la comitiva del Grande Torino in quel lontano maggio del 1949, seguendo dei ‘segni’ non fosse salito a bordo dell’aereo, e con lui altri due compagni di squadra, e fosse tornato in Italia con un lungo e faticoso viaggio in auto via Francia ? Questo è il filo conduttore di ‘E se un angelo a Lisbona  …’ libro scritto a quattro mani di Orazio Di Mauro, già autore di diverse pubblicazioni (ultima in ordine di tempo il giallo calcistico ‘Rosso diretto’) e Sergio Gabetto, figlio di Guglielmo, il calciatore del Toro caduto con la squadra a Superga, L’editore è Neos Edizioni.Abbiamo incontrato Sergio Gabetto alla Cremeria Dolcearea di Alessandro Ledda in via Mercadantea Torino per parlare della sua prima produzione letteraria. L’autore, nato nel 1947, laureato in matematica, ha insegnato negli istituti superiori ed è stato assistente universitario alla facoltà di Fisica a Torino. Ha, però, vissuto una parte notevole della sua vita lontano dalla città natale.

Gabetto, come è nato questo libro ?

Guardando dei vecchi ricordi dopo che ero tornato da Cuba. Qui, però, è necessario che faccia una precisazioni. Mi piaceva il mondo caraibico, avevo già vissuto un paio d’anni in Repubblica Dominicana e dal 1995 al 2020 ho vissuto a Cuba, dove mi sono sposato e ho avuto due figlie. E là con alcuni amici ho fondato il Toro Club Cuba. Il tifo la si fa al ritmo bailato. Al tempo del Covid con la mia famiglia sono tornato in Italia e ho seguito mio fratello sino a quando è mancato. Mio nipote mi diede un paio di scatoloni pieni di ricordi, così è nata l’idea di questo libro.

Che presenta una particolarità ….

Non volevo scrivere un qualcosa che riportasse dati, statistiche, risultati. Ne sono stati scritti tantissimi. Volevo che fosse un racconto di fantasia e avesse Lisbona sullo sfondo.

Ma c’è un fondo di verità ?

Mio padre, effettivamente, credeva nei segni, era abbastanza superstizioso.

In quanto tempo ha scritto il libro ?

Il libro è stato scritto a quattro mani con l’amico Orazio Di Mauro, che è tifoso del Torino, da gennaio a marzo circa, poi Neos ha provveduto a stamparlo ed era pronto prima del 75esimo anniversario della tragedia.

Il libro però non è stato l’unico modo per ricordare il Papà ?

Per celebrare questo anniversario ho voluto creare un oggetto da collezione: una bottiglia di quel Barbera che Giovanni Arpino legò a loro, ‘Il Vino del Barone’.

Che accoglienza ha avuto il libro ?

Buona. E ha anche vinto il primo premio alla Fiera del Libro di Orbassano. Adesso abbiamo anche in programma alcune presentazioni.

Che rapporto ha con suo Padre ?

Quando se n’è andato avevo solo venti mesi. Ne ho soltanto sentito parlare e ho ricevuto degli aneddoti e ricordi da mia mamma Anita e dai tifosi del Bar Vittoria che aveva con Ossol in via Roma, dove oggi c’è Zara. Quel far dove i tifosi chiamavano ‘Gabos’ con le iniziali di entrambi.

Cosa vuole dire essere Granata ?

E’ più di una fede, è un modo di vivere, l’interesse è che il giocatore abbia senso di appartenenza, che si impegni sul campo, che giochi e non vivacchi.

Il libro, che si legge velocemente, tanto è avvincente e pieno di significato si chiude con una riflessione di Guglielmo, bellissima: ‘Potrò giocare bene o male, vincere o perdere le partite, ma loro, soltanto loro rimarranno i granata che vincono sempre. Il Toro non perde mai”.

MASSIMO IARETTI