Riletture / Prijedor, Bosnia Erzegovina, in quella che oggi è la terza città della Repubblica serba di Bosnia (Rs), tra la primavera e l’estate del 1992 accaddero cose spaventose. Sembrava d’essere tornati ai tempi del nazismo. Gli ultranazionalisti serbo-bosniaci vogliono sradicare i “non serbi”, danno la caccia ai musulmani e lo fanno con le deportazioni e gli omicidi. Vengono creati per quest’ultimo scopo tre campi di concentramento e, spesso, di sterminio. Nomi che, alla memoria, suonano tremendi: Omarska. Keraterm. Trnopolje. In quest’ultimo luogo, composto da una scuola, una casa del popolo e un prato, vengono recluse tra le quattromila e le settemila persone. Ed è lì e nei dintorni che è ambientata la storia narrata nel libro di Luca Leone e Daniele Zanon. “Tre serbi, due musulmani e un lupo” è un racconto di fantasia, ma poggia su solide basi storiche e di testimonianza. Questo libro non è solo un romanzo, ma anche un reportage di quanto accaduto in un tempo troppo vicino a noi per non conoscere o non voler sapere. Vengono evocati un quadro terribile di violenze, sopraffazioni, omicidi, odio nazionalista e un clima allucinante, nel quale l’aria è impregnata dell’odore del sangue, della paura e del terrore. Non a caso Luca Leone e Daniele Zanon scrivono che “il Male era tornato nel cuore dell’Europa e aveva messo radici a Prijedor, mezzo
secolo doo la fine dell’Olocausto”. Pagina dopo pagina si viene a contatto con il dramma della famiglia bognacca degli Imanović e di quella serbo-bosniaca dei Mirković, con il ghigno orribile del sergente Goran “la carogna”, con i paramilitari serbi e i mercenari russi del colonnello Karpov, la “parte peggiore dell’umanità”. L’allucinante vicenda che vede protagonisti cinque tredicenni – Zlatan, Jelena e Milo, tre ragazzi serbi, Faris ed Emina, due fratelli musulmani – e il lupo Vuk si svolge in un universo violento, angosciante e claustrofobico in cui i personaggi sono quasi tutti conoscenti, vicini di casa. La tragedia cresce d’intensità quasi sempre preannunciate dal cambiamento dei rapporti, dal manifestarsi di integralismi e sospetti, dall’astio e dalla diffidenza, fino a giungere alla violenza e alla sopraffazione. Il ritmo della narrazione è serrato e si dispiega dando senso alle storie e alla terribile Storia della prima parte della “decade malefica” che insanguinò il cuore europeo dei Balcani al tramonto del ‘900, negli ultimi, lividi anni del secolo “breve” con il riacuirsi dei nazionalismi e il rifiorire dei conflitti armati. Tra le righe sembra di avvertire, quasi fisicamente, la disperata speranza di Faris quando urla alla sorella, mentre viene spinto lontano da lei con crudeltà, da un miliziano armato di kalashnikov, “Non può durare!”,“Il mondo non potrà starsene in silenzio a guardare”. E, invece, il mondo aveva lo sguardo
rivolto altrove. “Chi è che sa di che siamo capaci tutti, vanificato il limite oramai”, si ascolta in Memorie di una testa tagliata dei CSI di Giovanni Lindo Ferretti. Lì il limite venne vanificato una, dieci, cento, mille e mille volte. E tutto ciò sotto gli sguardi distratti, lontani, indifferenti e bui dell’Occidente e del “mondo”. Cercare di salvare la vita ai due giovani bosgnacchi, rischiando la propria è la “missione” che intraprendono i tre giovanissimi serbi con Vuk, il lupo di Jelena. Una vicenda terribilmente avvincente, disperatamente angosciante, quasi impossibile e senza speranza. Il contesto in cui si svolge è tremendamente reale e rimanda alla memoria di cosa è stata la pulizia etnica in Bosnia in quegli anni disgraziati e violenti, dove la vita di migliaia di persone, dalla sera alla mattina, di punto in bianco non valeva più nulla. Nel vortice dell’ubriacatura ultra nazionalista, dell’indegna impunità dei paramilitari filo serbi, la storia dei cinque ragazzi e del coraggioso Vuk inchioda il lettore al testo dall’inizio alla fine. Il merito di Leone e Zanon è di non far dimenticare ciò che avvenne realmente nel cuore della civilissima Europa, meno di trenta anni fa, un tempo molto vicino, del tutto contemporaneo e spesso rimosso dalla
cattiva coscienza e dal desiderio di non fare i conti con quella indifferenza che ancora oggi genera odi, srotola fili spinaci, innalza muri. Nel campo della miniera di ferro a Omarska, almeno tredicimila persone vennero internate e tremila di loro furono torturate, uccise e inumate in fosse comuni, ancora oggi in buona parte da individuare e riaprire per dare, chissà quando, degna sepoltura ai corpi che lì sotto giacciono. L’area di Prijedor, nella Bosnia settentrionale, conobbe le stesse violenze di Višegrad e Srebrenica. Vennero eliminate le persone “non serbe”, mentre la comunità internazionale fingeva di non sapere nulla e lasciava fare, non intervenendo e, per certi versi, rendendosi complice nell’avallare la pulizia etnica, lo stupro di massa, le violenze più atroci. Le pagine finali raccontano quei giorni e quei mesi con fatti, luoghi, date su quanto accadde veramente a Prijedor e dintorni e con la testimonianza di Alma che fece l’esperienza terribile di Trnopolje a sedici anni. Tre serbi, due musulmani e un lupo è un libro da leggere “in nome della memoria e della giustizia”.
Marco Travaglini
Chi voglia accostarsi a questi temi storicamente deve distinguere l’antifascismo dei resistenti rispetto all’antifascismo di chi vive oggi ad oltre 75 anni da quei fatti. Il mito dell’antifascismo si è naturalmente logorato e attutito perché dopo molti decenni è insostenibile una tesi non storicizzata, ma affermata come un dogma laico di fede. La storia usura tutto, ma in ogni caso essa impone delle distanze critiche che sole consentono una valutazione più equa e complessiva dei fatti. Chi, ad esempio, ha demonizzato Giampaolo Pansa per i sui libri su verità scomode tenute nascoste per tanti anni, ha esercitato la sua presunzione e la sua arroganza, ma non ha dimostrato di sapere fare lo storico serio perché ha sempre taciuto sul “sangue dei vinti”. Renzo De Felice rappresenta l’elemento di frattura nella storiografia: prima di lui la storia del fascismo era dichiaratamente antifascista, dopo di lui la storiografia deve trattare del fascismo con il distacco imposto agli storici,quindi senza apriorismi ideologici. Augusto Del Noce già tanti anni fa sostenne con grande lucidità come una cultura politica non potesse reggere a lungo fondandosi sull’anti senza proporre qualcosa in positivo. Del Noce, in linea di principio, aveva ragione, ma va detto che l’antifascismo è riuscito ad esprimersi anche in positivo, scrivendo a molte mani la Costituzione della Repubblica che, bene o male, più bene che male, ha saputo reggere e ha garantito libertà e democrazia. Andrebbe ancora detto che l’antifascismo italiano si è quasi identificato con i comunisti che hanno esercitato la loro egemonia sulla Resistenza quasi fosse stata un loro monopolio. L’antifascismo in Francia, ad esempio, si è identificato invece nel generale De Gaulle e quindi ha tutt’altra matrice ed è diventato da subito una scelta ampiamente condivisa. E’ chiaro che chi ha avversato il comunismo abbia avuto anche delle riserve su una Resistenza monopolizzata, malgrado ad essa abbiano partecipato uomini e donne di diversissimo orientamento. Ma è fuor di dubbio che i comunisti attraverso l’ ANPI abbiano etichettato la Resistenza in una sola direzione. Un ultimo punto va messo in evidenza: il fascismo è nato anche come reazione ai tentativi rivoluzionari di cent’anni fa volti a ripetere la rivoluzione bolscevica in Italia, malgrado non ce ne fossero le condizioni storiche. Bobbio diceva che tentarono una rivoluzione e provocarono una reazione. La sinistra italiana negli anni dell’ immediato dopo guerra, dal 1919 in poi, (il famoso diciannovismo su cui scrisse Pietro Nenni pagine illuminant ) dimostrò di non aver capito la lezione di Lenin secondo il quale l’estremismo era una malattia infantile del comunismo. A generare il fascismo, che non è una tara ereditaria della storia italiana come diceva Gobetti, ma semmai una malattia come sostenne Croce, è sempre l’estremismo di sinistra, come dimostrarono anche il ‘68 e gli anni successivi alla contestazione che portarono agli anni di piombo e al terrorismo rosso e nero.
Una delle zone più belle e più incantate di Torino è sicuramente piazza Castello. Si, perché la piazza è magica sia sopra che sotto. Se in superficie la zona è costellata da talismani e caricatori di energia positiva e in più si trova nelle vicinanze un portale destinato a pochi sapienti iniziati, sotto, nell’oscurità della terra, si diramano le celebri, tanto cercate e mai trovate Grotte Alchemiche. E non è un caso che, ancora oggi, la celebrazione del Santo Patrono si effettui proprio su questo suolo. I festeggiamenti odierni affondano le radici nell’antica e pagana usanza dei falò, i fuochi di mezza estate che avevano lo scopo di contrastare simbolicamente l’avanzata del buio che si estendeva sulla terra. I fuochi venivano accesi la notte del 25 giugno, come buon auspicio per le sementi, mentre le piante raccolte prima dell’alba avrebbero avuto poteri magici. La festività, successivamente, venne fatta coincidere con la celebrazione di San Giovanni. Ma andiamo per ordine.
khīmiyya (الكيمياء o الخيمياء), “pietra filosofale”, che è il greco tardo χυμεία, “fondere”, colare insieme”, “saldare”. L’alchimia è materia complessa, anche perché implica l’esperienza di crescita personale di chi la pratica. In tal senso, la disciplina può essere paragonata alla metafisica o alla filosofia, in quanto i processi e i simboli alchemici, oltre al significato di trasformazione materiale, possiedono un significato interiore, relativo allo sviluppo spirituale. Gli obbiettivi dell’alchimia sono conquistare l’onniscienza, creare la panacea universale, ossia un rimedio per curare tutte le malattie e prolungare la vita, la ricerca della pietra filosofale, cioè la sostanza catalizzatrice capace di risanare la corruzione della materia. Ora che sappiamo che cosa cercare, siamo sicuri di volerle trovare queste Grotte? A quanto pare i Savoia avrebbero risposto positivamente, dal momento che ricoprirono un ruolo di massima importanza per quel che riguarda la storia dell’alchimia piemontese. Alcuni esponenti della famiglia si interessarono più di altri alla materia, come Carlo Emanuele I, il Testa’d feu, che si fece costruire un laboratorio alchemico nei sotterranei del castello, o la Madama Reale, che pare si fosse messa in combutta con un mago francese, un certo Craonne. Non sappiamo se qualche esponente della famiglia reale riuscì in definitiva a trovare gli antri magici di cui stiamo parlando, ma qualcun altro invece si: Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, (1493-1541), noto come Paracelso, Michel de Notre-Dame,(1503-1566), ossia Nostradamus e tale Giuseppe Balsamo, conosciuto con il nome di Cagliostro. Data la levatura intellettuale che caratterizzò questi personaggi, non sentiamoci eccessivamente in difetto per non essere stati ritenuti degni di scorgere l’accesso alle Grotte. Dunque, alziamoci dalla nostra panchina e continuiamo la nostra passeggiata, passando, però, per quello che pare essere uno degli ingressi ai saperi ctoni, cioè la Fontana del Tritone, posta all’interno dei Giardini Reali. Si dice che dopo tre giri intorno alla costruzione, un elementale apra l’ingresso invisibile, ovviamente solo a chi è ritenuto degno di tale onorificenza. Probabilmente così non sarà, ma perché non correre il rischio?
Si arricchisce l’offerta culturale del Museo Nazionale del Risorgimento italiano di Torino sul profilo FB